Ding Zilin e Jiang Peikun erano professori di filosofia all’Università del Popolo di Pechino, e membri del Partito comunista cinese. Avevano un unico figlio di diciassette anni, Jiang Jelian, studente di liceo. Jelian partecipò attivamente, nonostante le preoccupazioni dei genitori, al grande movimento della Primavera. La sera del 3 giugno uscì di casa, e verso le undici fu ucciso nei pressi della Piazza Tiananmen da un colpo di arma da fuoco sparato da un soldato. Fu una delle prime vittime di quella notte orrenda. Quante vittime, non si sa ancora. Centinaia probabilmente (e migliaia i feriti), a Pechino e in altre grandi città; per non parlare degli arresti e delle dure condanne -anche a morte- nei mesi e negli anni che seguirono. Molte di più, le vittime -migliaia- secondo le organizzazioni per i diritti umani. Un numero irrisorio -e soprattutto tra i soldati!- nella versione ufficiale del governo, che ha sempre continuato a negare il massacro e ad attribuire i “disordini” ad un piccolo gruppo di “elementi controrivoluzionari”.
Dieci anni fa, poco tempo dopo aver perso il loro figlio, Ding Zilin e Jiang Peikun decisero di dedicarsi a un’opera pietosa e tenace di ricostruzione di quanto era accaduto. Si proposero di stendere pazientemente un catalogo dei morti (nome, cognome, provenienza, modi e circostanze della morte), e un altro dei sopravvissuti più sfortunati, perché mutilati e invalidi, e privi di aiuto. In quest’opera li aiutarono un certo numero di altri parenti di vittime, incontrati per caso o trovati con lunghe e tenaci indagini.
Si trattò -si tratta- di un’attività assai difficile. Innanzitutto per l’ostilità immediata del governo, che non trovò opportuno incarcerare Zilin (dato il prestigio che veniva conquistandosi), ma che sottopose periodicamente i due coniugi a lunghi periodi di arresti domiciliari e a pretestuose inchieste giudiziarie (anche in questo momento Zilin e suo marito sono agli arresti domiciliari). Inoltre, Ding Zilin perse il suo posto di insegnante e venne esclusa dal Partito (ufficialmente, per non aver rinnovato per tempo la tessera...).
Ma difficile era anche trovare le notizie, rintracciare le persone, convincerle a parlare. Occorreva infatti superare un muro di silenzio, costruito dall’umiliazione di un lutto negato, dalla paura di ritorsioni, dalla voglia di dimenticare. Ciò nonostante, poco per volta, Ding Zilin è riuscita a ricostruire almeno parzialmente, e a rendere pubbliche, 155 storie di morti nel grande massacro, e alcune decine di storie di vivi che portano tuttora nella loro carne e nella loro sfortuna quotidiana il segno di quella notte.
Ciò che ci ha colpito nella vicenda umana, etica e politica di Ding Zilin si potrebbe così riassumere.
In primo luogo, questa donna straordinaria rivendica il diritto alla memoria. Non si può dirlo meglio che con le sue stesse parole: “Una persona può fare molte scelte diverse: io ho scelto di documentare la morte”. “Ho scavalcato montagne di cadaveri, e ho galleggiato sulle lacrime delle famiglie delle vittime”. “La vita è sacra. Ma anche la morte è sacra. ... Come popolo cinese possiamo avere molti obiettivi e sogni da raggiungere, ma penso che dobbiamo porre una priorità nello stabilire un sistema morale in cui una sconsiderata noncuranza per la vita umana sia lasciata alle nostre spalle. Penso che proprio questa sarebbe la mia risposta se qualcuno mi chiedesse perché ho scelto di documentare la morte”. “Non voglio che queste vittime siano morte di una morte anonima, in circostanze sconosciute”.
La ricerca di Ding Zilin e Jiang Peikun parte appunto da qui: dalla voglia di restituire alle vittime un volto e un nome, e anche -in qualche modo- un senso alla loro morte. Accanto a questo, un desiderio di cercare e dare conforto e solidarietà a persone che -negato ufficialmente il massacro- non a ...[continua]
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