Vorrei riallacciarmi ad alcuni degli interventi fatti in precedenza, in particolare a un’indicazione venuta dal pubblico in cui si faceva notare come le organizzazioni legate agli aiuti internazionali che arrivano in questi luoghi di crisi finiscono col costituirsi come comunità chiuse in se stesse, con una possibilità di spesa economica eccezionale, quindi un’entità di tipo artificiale, che ha un ruolo negativo nei rapporti con la situazione locale, perché fondamentalmente sono portatori di aiuti immediati e anche di progetti, però la loro capacità di interloquire con la popolazione locale, di stabilire un rapporto di dialogo e di costruzione di fiducia è scarsissima. Non solo, ma sembrano anche inconsapevoli del fatto che questo loro comportamento, queste loro grandi macchine, questo loro maneggiare soldi, girare tra alberghi e ristoranti, questo stile di vita che si danno anche proprio dal punto di vista dell’immagine della comunità internazionale ha un effetto assolutamente distorcente. Questa presenza infatti appare quanto mai lontana dall’intento di potenziare le risorse presenti nel territorio e offrire alla popolazione locale un aiuto per prendere in mano la situazione. Rimane piuttosto un aiuto esterno che quasi vive in modo parassitario sui guai della gente, perché i campi profughi in Bosnia, Africa (la Palestina fa caso a sé) continuano ad aumentare e sono una fonte di lavoro per gli aiuti umanitari. Questi enormi insediamenti di centinaia di migliaia di persone, oggi vivono solo perché ci sono gli aiuti internazionali che a volte arrivano, a volte non arrivano -e se non arrivano la gente muore. Non c’è nessuna prospettiva.
Insomma non si affronta quella che è poi la questione di base e che anche il generale Scaranari prima ricordava con la famosa frase “bisogna dare loro la canna da pesca, non il pesce”; cioè anche il pesce all’inizio, certo, però abbastanza rapidamente bisogna metterli in grado di fare delle politiche atte a ricostruire un tessuto economico e sociale capace di autonomia.
E’ questo l’obiettivo che bisogna avere di fronte. Come si fa a intervenire in questo senso? E ancora, se questo è l’obiettivo, i corpi di interposizione e di pace come possono essere un ponte verso questa meta?
Teniamo presente che la situazione è assolutamente drammatica. L’11 settembre è anche il segno di questo dramma, delle incomprensioni, dell’incapacità di comunicazione.
Allora, le istituzioni umanitarie non possono essere totalmente assorbite da un lavoro che finisce con l’essere parassitario e di mantenimento delle condizioni di impossibilità da parte dei paesi di ricostruire autonomamente una propria capacità di governo del territorio.
Rispetto a questo ovviamente l’addestramento non può essere semplicemente tecnico, deve avere anche un aspetto antropologico e di comunicazione, e anche una visione di come si opera per ottenere tutto questo.
Io sono rimasta molto colpita dal modo con il quale il prof. Marko ci ha parlato della situazione in Kosovo e in Bosnia, sul tema della democrazia, dei partiti e del ruolo che l’Europa dovrebbe assumersi e che invece non riesce ad avere, non solo per le molte divisioni interne, ma proprio perché mancano, secondo me, alcune idee di fondo adeguate ad affrontare la complessità dei problemi che ci si trova di fronte. La mia impressione è che, non tutte, ma buona parte delle istituzioni europee operino ancora con delle modalità di diagnosi, di descrizione dei problemi che erano adeguate quando il mondo era molto più semplice, quando si poteva far leva su delle strutture di autorità già esistenti e capaci di costruire coesione, ma che oggi sono totalmente incapaci di agire in un mondo che non è più così. E non è più così non solo in Bosnia o in Africa, ma neppure in Europa.
Quindi il problema è come si interviene in situazioni in cui il compito principale è la creazione di terreni comuni di fiducia e di capacità di intervento da parte della comunità.
Qui sembra mancare proprio il concetto di sistema complesso, sia per quanto riguarda la comunicazione, sia per quanto riguarda le politiche del territorio, che sono tutte questioni collegate tra di loro. Infatti, cosa vuol dire che la comunicazione è diventata complessa? Vuol dire che il mondo negli ultimi vent’anni non si è semplicemente globalizzato. Noi parliamo sempre di globalizzazion ...[continua]
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