Come faceva quella canzone: “Era il più buono di tutto il capannone…”?. Silvia non era la più buona, ma la più generosa sì. La sua generosità era autoritaria, non si poteva evitare. Lei non avrebbe mai cercato di mettersi in salvo, neanche quando, fedele fino in fondo alla promessa fatta, venne spinta a fondo nella cattiva, cattivissima sorte. Silvia era così, sapeva e capiva tutto ma perdonava tutto. Però il suo corpo no e si ribellò. Quand’è che a un tratto il corpo se la prende con se stesso? Come succede? E perché?
Trent’anni di cortisone le permisero di continuare a essere se stessa, ad accudire i genitori e poi il padre rimasto solo, ad alzarsi alle quattro di mattina per andare a lavorare, a scialacquare gli stipendi in regali. Ma non fu gratis: lentamente il corpo si è deteriorato ed è rimasto indifeso. Quando a Faenza l’alluvione ha devastato la casa a lei e al padre, faceva pena vederla prodigarsi ben al di là delle proprie forze, a pura forza di volontà. Impossibile immaginare che quello era niente rispetto a ciò che l’aspettava.
Si preparava a portare il vecchio padre in vacanza al mare, quando in un’ennesima visita medica programmata le hanno visto un calcolo vicino alla bocca del rene. Ansiosa di risolvere il problema in fretta, quasi senza ricovero, ha deciso di andare a pagamento in una clinica privata rinomata anche per quel tipo di interventi. E con Silvia, quando si metteva in testa una cosa, non c’era verso.
La mattina stessa, dopo l’operazione, è arrivata la febbre, la mattina dopo era già in setticemia. Trasportata alla terapia intensiva del Maggiore di Bologna ci è arrivata in shock settico, uno dei quali basta e avanza per morire, perché devasta tutto quello che c’è in un corpo. Lì diranno: “Ma come, lo sanno tutti che i calcoli sono infetti! E non sapevano dello stato delle sue difese?”.
Di shock settici Silvia ne ha avuti sette e ha lottato per cinque mesi. Una delle volte che è stata cosciente ha chiesto: “Ma sto morendo?”, in un’altra, scherzando sulle conseguenze della sua eventuale morte, ha detto, indicando il fidanzato, che lui come tutti i maschi ce l’avrebbe fatta, mentre rivolta alla sorella quasi gemella, che lei invece no, senza di lei non ce l’avrebbe fatta. In un altro momento ancora ha promesso al fidanzato che sì, forse l’avrebbe sposato e ha anche chiesto come andava qui da noi. A volte ha anche riso, insieme al fratello. Per il resto, sedata, ha dormito e soprattutto si è lamentata. Dicono che sia un fatto neurologico, non dolore.
Strano mondo la terapia intensiva, con questa grande camerata dove, attorno a letti giganteschi sfavillanti di luci, c’è un via vai continuo di infermieri, medici e specialisti di ogni genere, spesso riuniti in consulto per decidere le mosse della battaglia o se sia arrivato il momento di arrendersi. Dà l’impressione, malgrado tutto, di una grande vitalità e di speranza. Di là, invece, nella sala d’attesa, i parenti immobili, silenziosi, a volte sommessamente piangenti, quasi che al loro fianco fosse seduta, ad aspettare, anche la morte.
Caparbia come sempre, Silvia ci ha messo cinque mesi per morire. Per un calcolo di due centimetri di diametro e un altro, di altri, di ottomila euro. È arrivata anche la fattura con la richiesta del saldo. Vedranno cosa fare. Ma se fosse stata cosciente, Silvia avrebbe sicuramente detto di lasciar perdere, perché tutti possono sbagliare.
Vien da chiedersi “perché a lei”, come non sapessimo che nel mondo, umano e animale, regna sovrana l’ingiustizia. Certo si può vincere qualche battaglia, ma la guerra mai. E fortunato chi crede che ci si ritrovi, da qualche parte.
La chiesa era piena e diversi amici e amiche, anche di infanzia, influenzate o in covid, hanno telefonato piangenti che non potevano esserci.
Addio, cara Silvia. Onore a te.
Gianni Saporetti