12 aprile 2023
Caro Michael, cara Judy,
lasciatemi cominciare augurando a voi e a tutta la vostra famiglia chag pesach sameach.
Quando ero giovane, il mio nonno surrogato di Los Angeles, il rabbino Franklin Cohn, scrisse una Haggadah intitolata “Libertà di tradizione”. Dico surrogato perché non ho mai conosciuto i miei veri nonni, tutti morti nell’Olocausto, mentre lo “zio Franklin” ha avuto quel ruolo, quando ero più giovane.
In questi ultimi mesi, il nascente movimento di protesta israeliano ha dimostrato un’incredibile creatività ed energia, nonché atti di coraggio e impegno individuali. La creatività si manifesta con gli infiniti slogan, i poster, i messaggi che girano nei gruppi WhatsApp, l’energia dei grandi numeri di partecipanti alle manifestazioni, sia quelle nazionali, sia quelle locali… al punto che spesso siamo sfiancati dalla fatica. Oggi, il movimento di protesta Freedom Haggadah è stato pubblicato sulla bacheca di WhatsApp.
Ho letto alcune recensioni del tuo libro “The Struggle for a Decent Politics”, che non vedo l’ora di leggere nei prossimi mesi (già, perché l’unico aspetto negativo di tutte queste manifestazioni, che durano ormai da 13 settimane, è che hanno ridotto il tempo che posso dedicare alla lettura quasi a zero).
Una delle cose più importanti che ho imparato in queste prime settimane di manifestazioni viene dai dibattiti che sorgono nei gruppi WhatsApp, su come si debba separare la politica dalla lotta per la democrazia. Ciò che intendevano dire è che vorrebbero tenere separata la politica “di parte”, quella dei partiti politici, ma non si esprimono così.
D’altro canto, visto che Israele resta pur sempre Israele, il maggiore impatto in questa lotta che stiamo conducendo per la democrazia è l’ondata di partecipazione venuta dai riservisti dell’esercito, dai piloti e da ex dirigenti del Mossad/Shin Bet. Spero che un giorno il tuo Memorandum diventi un testo di riferimento, letto e discusso in ogni classe dove si studia l’educazione civica.
Altro impatto “non-politico” viene dalla comunità finanziaria, dal settore dell’hi-tech fino ai fondi di investimento. Leggi questo articolo di Jeremy Coller sul “Jerusalem Post”. Coller è anche investitore delle Aleph Farms, la startup di carne coltivata dove al momento lavoro.
Con i miei amici, con tutte le vicissitudini di Israele, abbiamo imparato a tenere ben separate le nostre vite pubbliche da quelle private. A chi ti chiede: “Ma nishma?”, “Come stai?”, la risposta è sempre: “Personalmente sto bene, ma Israele così così”. Questo vale anche per me. La famiglia sta bene. Ma per quelli come noi, da una parte e dall’altra dello stagno, la lotta non finisce mai.
I miei migliori auguri,
Gary

28 agosto 2023
Caro Michael,
dev’essere bello riambientarsi a casa, e per di più con la maggior parte dei tuoi libri. Ti prometto che la prossima volta che capiterò a New York certamente verrò a trovarti. Da queste parti l’estate è calda e umida. Da ormai 34 settimane si manifesta una o più volte alla settimana. La vita, per il resto, è una giostra: lavoro-famiglia (nipotini)-manifestazioni, e un’ossessione personale con 4-5 differenti gruppi dedicati alla protesta su WhatsApp, in più le innumerevoli ore di telegiornali e opinionisti in tv. Il tutto è piuttosto sfiancante, ma del resto tutti quelli che partecipano alle manifestazioni dicono la stessa cosa: “Senza questa protesta, saremmo in un stato di disperazione nera. Almeno, così, ci dedichiamo a una giusta battaglia”.
A differenza delle manifestazioni di PeaceNow, dove ti sembra di conoscere tutti, in questa protesta “liberal”, ogni domenica capita di incontrare 4, 5, 6 persone, e il resto un mix multigenerazionale di oltre mille persone (centomila a Tel Aviv, e numeri simili nel resto del paese). Questo ogni settimana.
Se si arriva mezz’ora prima, è come trovarsi a Hyde Park, con bancarelle che vendono magliette con ogni tipo di slogan che attraversano tutto lo spettro politico della sinistra liberale, fino a spingersi alla destra liberale. Ogni gruppo ha il suo spazio/tavolo/impianto audio “permanente”: gruppi femministi, gruppi Lgbt… dalle magliette verde militare al blu dei veterani di marina. Le generazioni più giovani portano colori più vivaci, come il rosa, e con sé hanno sempre i chiassosissimi bonghi, tanto che mi devo portare dei tappi per proteggere le orecchie. La mia maglietta abituale ha una foto di Leibovitz con lo slogan “Ve l’avevo detto”, in ebraico; i più anziani la notano, sorridono, vogliono fotografarla, mi chiedono: “Dove l’hai trovata?”, mentre un paio di giovani sono venuti a chiedermi: “Ma chi è Leibovitz?”.
Anche se il governo sembra indifferente a tutto ciò, sappiamo che i ministri ne sono turbati -non tanto da perderci il sonno, però-, in particolare dalle manifestazioni che si tengono regolarmente sotto le loro case e in tutti gli eventi pubblici a cui partecipano, inclusi i ristoranti e i viaggi all’estero. La rivolta dei democratici liberali tra le file dell’esercito, l’Idf, poi, è qualcosa che non ha precedenti in questo paese -e forse in nessun altro paese. D’altronde, l’Idf è la vera espressione di “un esercito di cittadini”.
Nei sondaggi il governo ha perso gradimento. Ma Netanyahu e soci continuano ad andare avanti sulla loro strada. La prossima data critica sarà il 12 settembre, quando la Corte suprema inizierà le udienze degli appelli contro la legge sul principio di ragionevolezza. Immagino che ci vorranno un paio di mesi per giungere a una decisione da parte loro, ma le tensioni sono già altissime ora. Peccato che Fitch e Moodies non abbiano ancora abbassato il rating di Israele, come d’altronde ci si aspettava. Ma tant’è, la situazione economica è già pessima così com’è.
Andare a una manifestazione con i propri figli e con i nipotini certo è qualcosa di speciale. Anche salire in macchina con la tua nipotina sedicenne e il suo ragazzo, al rientro da un corteo, è un’esperienza “unica”. Ma su certe cose bisogna mantenere la discrezione.
Lo slogan che più mi piace è: “Te la sei presa con la generazione sbagliata”. Questa nazione apolitica si è politicizzata molto negli ultimi otto mesi. Almeno per questo vi ringraziamo, Netanyahu, Smotrich, Levine e Rothman! Nelle ultime settimane, molti artisti e musicisti si sono fatti vedere intenti a cantare “Hatikvah”. Non solo Achinoam Nini (nota come “Noa”), o altri di sinistra, ma anche quelle star che di solito si vedono competere nelle lussuose competizioni dell’EuroVision, come, nelle ultime due settimane, Neta Barzilay ed Eden Elana (che è etiope).
Non sono in grado di prevedere dove tutto questo andrà a parare, ma credo abbia senso immaginare che Israele non sarà mai più la stessa.
I miei saluti a te, a Judy e a tutta la tua famiglia.
Gary

18 settembre 2023
Questa settimana la città di New York e l’America tutta stanno ricevendo l’onore della visita del nostro Primo ministro Netanyahu e di sua moglie. Ora che siamo giunti alla trentasettesima settimana di proteste, i gruppi WhatsApp brulicano di messaggi per organizzare manifestazioni ogni volta che Bibi fa un’apparizione. Proprio stasera girava la notizia che sarebbe atterrato a San Jose per incontrare Elon Musk, e che i manifestanti erano già pronti ad aspettarlo fuori dall’aeroporto e poi, ancora, di fronte al suo albergo.
Qui in Israele ho sentito opinioni discordanti tra i ranghi dei manifestanti, sull’opportunità di proseguire le manifestazioni anche in territorio statunitense. Io, che ricordo ancora la prima visita di Shalom Achshav negli Stati Uniti nel 1979 (occasione in cui ebbi l’onore di far parte di quella delegazione, proprio quando ci siamo incontrati la prima volta), sono convinto che le battaglie politiche non-violente non siano mai una faccenda locale. Ieri sera, Bibi ha fornito molti argomenti ai suoi avversari, paragonando i manifestanti ai nemici di Israele, e cioè Autorità palestinese e Iran. E pensare che una volta era più furbo, anche se non siamo mai stati d’accordo con lui.
In queste settimane (e nella scorsa, in particolare) gli israeliani commemorano i cinquant’anni della guerra del Kippur. Una delle canzoni indimenticabili ispirate da quella guerra è “Figli dell’inverno del ’73”, di cui ti mando il link. All’epoca avevo 23 anni, per questo riesco a empatizzare con i leader delle proteste che ora parlano del loro “inverno-primavera-estate-autunno del 2023”. Peraltro, concordo con chi considera il periodo che stiamo vivendo tanto importante quanto la nostra Guerra d’indipendenza, per il futuro di Israele.
Una manifestante, intervistata di fronte all’aeroporto Ben Gurion l’altra sera, ha spiegato che, se potesse, andrebbe a protestare negli Stati Uniti, e ha aggiunto: “Sono nata in Unione Sovietica, dove non c’era democrazia. I miei figli hanno conosciuto solo la democrazia liberale e non permetterò che arrivino a conoscere qualcosa di diverso”.
La scorsa settimana, la Corte suprema israeliana ha tenuto la prima udienza sulla riforma legislativa. Come avrai letto, tutti i suoi 15 giudici hanno convenuto che bisognasse prendere in considerazione le petizioni contro la controversa “ragionevolezza” di questa riforma approvata dalla Knesset lo scorso luglio. Un’udienza durata tredici ore e mezza, trasmessa in diretta dalla tv e dai social media. L’avvocato che rappresenta il governo Netanyahu, Ilan Bombach, non so se consapevolmente o per via di una terribile gaffe, ha descritto la dichiarazione d’indipendenza di Israele come un documento “frettoloso”, appoggiato da firmatari non eletti, che non può costituire una fonte legale autorevole. Le sue parole esatte sono state discusse da tutti, da destra a sinistra, per tutta la scorsa settimana, e vale la pena riportarle: “Poiché 37 persone sono state autorizzate a firmare quella frettolosa Dichiarazione d’indipendenza, che fino all’ultimo è rimasta una bozza, tutti noi che siamo venuti dopo dovremmo sentirci obbligati a rispettarla ancora oggi?”. Da un punto di vista storico si sbaglia di grosso, sia quando la definisce “frettolosa”, sia quando definisce gli estensori “non eletti”.
Pur essendo impegnato con riunioni di lavoro un po’ qua e un po’ là, sono rimasto spesso incollato allo schermo, perlopiù sul computer o sullo smartphone, affascinato dal procedimento legale e ben attento a osservare i commenti e le espressioni del viso dei giudici, in particolare una risposta offerta a Bombach dal giudice supremo Isaac Amit secondo cui, e lo dice la storia, “La democrazia muore a piccoli passi”. Quant’è vero!
Non so se ieri sera hai guardato il programma americano “60 minutes”. Noi l’abbiamo visto stamattina. Non ho potuto che pensare ancora alla nostra delegazione di “Peace now”, e alla nostra “Lettera agli ufficiali”, e mi sono domandato se i telespettatori americani fossero in grado di comprendere l’ethos dell’esercito israeliano, che questa volta è composto da una generazione più giovane di “fratelli e sorelle in armi”, cui viene naturale giustificare il proprio servizio militare con la difesa di una democrazia liberale, proprio come noi interpretavamo il nostro afflato pacifista, in base al qaule questo Paese può essere difeso solo da cittadini-soldati convinti che i loro leader politici condividano i valori espressi dalla Dichiarazione d’indipendenza.
Levin, Smotrich, Rotham e Ben Gvir, questo è chiaro, non condividono quegli stessi valori. È questo il motivo dell’attuale crisi israeliana, ed è per questo che non è possibile alcun compromesso con il governo di Bibi. Ecco perché è giustificato estendere la protesta anche a New York, e perché quella è un’importante tappa anche per la battaglia che stiamo combattendo qui in Israele.
In conclusione, è incredibile quanto possa essere “obbediente” questa generazione di manifestanti. La marcia della scorsa settimana (la trentasettesima), inizialmente prevista per sabato sera, poi rimandata per via della festività di Rosh Hashanah, è partita dal museo dell’Independence Hall, in via Rotschild, proprio là dove Ben Gurion lesse la Dichiarazione d’indipendenza il 14 maggio del 1948. Come da istruzioni, tutti si sono presentati vestiti di bianco, come richiesto dalle nostre celebrazioni per l’anno nuovo. Anch’io mi sono astenuto dall’indossare la mia maglietta nera che ritrae Yeshayahu Leibowitz, con la frase “Ve l’avevo detto”, maglietta che ho sempre indossato a ogni manifestazione, e da bravo mi sono messo una maglietta bianca. Quanto si può essere disciplinati, a volte!
Gary
 
11 ottobre 2023
Cari Michael e Barbara,
da quel che ho capito dalla mail di Barbara, il prossimo numero di “una città” sta per andare in stampa, e lei mi ha chiesto di scrivere qualcosa in merito agli attacchi terroristici dello scorso sabato. Concordo sia necessario, come post-scriptum a quanto scritto finora, per cercare di offrire un contesto alla follia in corso in questi ultimi giorni (e a quella che ci attende nel prossimo futuro).
A questo scopo, devo premettere che (come Michael sa) sono un kibbutznik, vivendo io nel kibbutz Hatzor sin da quando mi sono trasferito qui dagli Stati Uniti ormai 53 anni fa. Hatzor si trova a sud di Tel Aviv, circa 35 chilometri a nord dei kibbutzim (che è il plurale di kibbutz) che costeggiano la Striscia di Gaza. In questi circa venti kibbutzim conosco dozzine di persone mie coetanee, i loro figli e nipoti, perlopiù a causa del mio ruolo di capo della Divisione giovani della Federazione del Kibbutz Artzi e della mia rete di contatti del network Peace Now, cosa che ho cominciato quarant’anni fa.
Negli scorsi giorni, nel kibbutz Kfar Aza sono stati ritrovati i corpi del miglior amico di mio figlio e di sua moglie. La madre di sua moglie era nata nel nostro kibbutz. Due dei loro figli si sono salvati, uno è tuttora disperso. Uno dei miei migliori amici (la cui moglie era morta di cancro un decennio fa) ora cerca disperatamente la sua compagna, che è del kibbutz Be’eri, dove manca all’appello il 10% dei residenti. Proprio stamattina ho scoperto che un amico di un altro kibbutz, settantacinquenne dalla salute malferma, è ostaggio a Gaza.
Ci sono altri resoconti di questo tipo, ma ve li risparmio perché sono molto dolorosi. Ancora stiamo cercando di raccogliere i nomi di chi è morto, di chi è sparito, di chi è sopravvissuto. Ciò che vi posso dire con una certa sicurezza è che appena pochi giorni prima dell’attacco, ben oltre i due terzi di questi kibbutzniks stavano manifestando contro il governo e contro il rischio che Israele si trasformi in una democrazia illiberale.
Vi posso dire qualcosa anche circa i riservisti dell’esercito: dai piloti in giù, tutti quelli che hanno dichiarato che non presteranno servizio sotto una dittatura ora sono stati richiamati, sono in uniforme e sono pronti a combattere. Da sabato pomeriggio, tutti i circa 200 gruppi WhatsApp delle proteste sono stati inondati di messaggi che chiedevano aiuto per i kibbutzim e le città di Sderot, Ofakim e Netivot: ospitalità, capi di vestiario e altre cose. E così, nel volgere di una notte, le stesse persone tanto biasimate da Bibi e dai suoi seguaci hanno preso il posto del nostro governo di destra, i cui servizi sociali, nel frattempo, restano immobili e in silenzio.
Negli scorsi giorni, il Kibbutz Hatzor ha ammassato una serie di beni di prima necessità e l’altro ieri ho accompagnato la mia nipote sedicenne e i suoi amici a consegnarne alcuni. I centri di distribuzione nella struttura messa a disposizione nella città vicina ribollivano di ragazzi, dai kibbutniks laici agli studenti degli istituti religiosi. Nel rincasare abbiamo udito i suoni delle esplosioni provenienti da Gaza. I miei figli ancora chiudono a chiave le porte di casa nel timore che ci siano altri terroristi in giro e che si siano spinti tanto a nord.
Non abbiamo idea di come possa evolvere questa tragedia. Certo posso assicurarvi che il giorno dopo che le cose si saranno calmate, la protesta rinascerà -ancor più forte di prima. Chissà, magari anche prima di quanto si pensi.
I miei auguri,
Gary