Quando fu assunto alla “Stampa” di Torino, Giampaolo Pansa, che si era laureato con una tesi sul tema della Resistenza tra Genova e il Po, subì una mortificante umiliazione. Incaricato di scrivere il suo primo articolo, lo presentò a Giulio De Benedetti, tremendo direttore del quotidiano che, data una scorsa allo scritto, lo fece a pezzettini e li sparse sulla testa dell’apprendista cronista. Giampa, come lo chiamavano solo gli amici intimi, aveva un vivo ricordo di quell’episodio, che raccontava sornione sorridendo, dopo tanti anni di coraggiose avventure in una professione che lo ha fatto diventare equilibrato testimone della tragica storia sociale del nostro tempo.
Scriveva Albert Camus: “La stampa libera può naturalmente essere buona o cattiva, ma è certissimo che, senza libertà, non potrà che essere altro che cattiva”.
Esce opportunamente un volume antologico: Giampaolo Pansa, Piombo e Sangue. Da Piazza Fontana a Marco Biagi, violenza e terrorismo nelle cronache di un grande giornalista, ed. Rizzoli.
Il libro è curato da Adele Grisendi, per molti anni compagna di Pansa, e Marco Damilano, noto giornalista televisivo, che dal 1969 al 2002 raccoglie i testi scritti per le diverse testate nelle quali Giampa lavorò: “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, “L’Espresso” (con l sua famosa rubrica “Bestiario”) e infine “La Repubblica”.
Tra i primi articoli che si incontrano, quello più tragico riguarda il 12 dicembre 1969: la strage di piazza Fontana, banca dell’Agricoltura a Milano. Il cronista Pansa arriva sul luogo trenta minuti dopo l’esplosione: “Un attentato nefando”. 17 vittime, 88 feriti. Pansa non pietisce retorica, ma con precisione fotografica descrive lo scenario di guerra di fonte al quale si trova: “Vedo un ragazzino di 12 anni, ha le gambe distrutte, non esistono più. Penso a mio figlio e mi sento svenire per l’ira e il dolore”.
Poi la morte di Pino Pinelli, trattenuto in questura per tre giorni senza mandato di cattura, poi, nel 1972, il delitto Calabresi, il commissario finito in una trappola senza scampo. “Gli occhi mobilissimi, il sorriso un po’ nervoso, un muoversi rapido, un senso di disagio”. Ma Giampa aveva cultura e capacità di analisi rare. Scrisse un libro, Cronache con rabbia, ed. Sei, nel quale fotografa le organizzazioni di camerati romani che hanno in Pino Rauti e nell’associazione Ordine Nuovo gli antagonisti di una concezione antidemocratica della vita e del mondo”. Nel mentre a Genova si organizzava una radio pirata che si ispirava ai tupamaros brasiliani, e nel 1970 un gruppo di estremisti -Mario Rossi, a bordo di una lambretta guidata dal friulano Augusto Viel- uccidono in una rapina il fattorino Floris delle Case Popolari. Augusto Viel, prima di essere catturato, raccontò di essere stato aiutato dall’editore Feltrinelli a rifugiarsi a Praga. Poi Giampa si interroga sul rapimento del giudice Mario Sossi, rapito e poi rilasciato da brigatisti “come persecutore fanatico della classe operai”. Un personaggio scomodo che fu rilasciato tra molti dubbi e perplessità che Pansa non nasconde.
Poi nel 1976, sempre a Genova, l’uccisione del procuratore generale Francesco Coco insieme a tre poliziotti della sua scorta, eliminati a pochi passi dalla casa del magistrato. Un città in subbuglio che Pansa conosce bene, ma non azzarda mai giudizi avventati, anche perché le autorità inquirenti navigano nel buio più cupo. Tutti spaventati, eccetto il fattorino Marianelli del quotidiano “Il lavoro” diretto da Sandro Pertini. Suona il telefono: “Qui le Brigate Rosse” e Marianelli, solido socialista, risponde in dialetto: “Senti non ci rompete il belino, qui stiamo lavorando”, e abbassa la cornetta. Le Br non telefonarono mai più al quotidiano. Chissà se tutti avessero avuto lo stesso coraggio di esautorarli dalla comunicazioni?
Di cogente attualità il racconto del suo essere inviato a Bologna al congresso di “Lotta Continua”. Erano circa duemila i militanti riuniti. A Pansa fu chiesto di pagare una tassa di ingresso come “giornalista borghese”. Volevano 50-100 mila lire. Giampa si rifiutò di pagare esibendo come contro argomento: “Avete detto che il vostro convegno era aperto a tutti tranne ai fascisti e ai provocatori...”. Scrisse l’articolo “dall’esterno, perché era meglio che rimanere dentro quel catino elettrizzato da scariche di integralismo un po’ isterico”.
Spiega a un certo punto Giampa: “Se fai il cronista o l’inviato di grandi eventi di cronaca devi possedere uno scudo imbattibile: l’indifferenza, il cinismo e il cuore duro. Ecco una verità sgradevole a molti lettori”.
Nel libro, i drammatici avvenimenti sono analizzati con rigore raro sia per il rapimento Moro, sia per l’agguato al giornalista Carlo Casalegno, che morirà dopo qualche giorno di agonia, e poi il vile omicidio del giovane Walter Tobagi, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Milano; ancora, la morte di Guido Rossa, sindacalista Cgil, ucciso per aver denunciato l'operaio Berardi che distribuiva in fabbrica volantini firmati Br e che infine si impiccò in carcere dopo una condanna.
C’è infine da leggere un intenso dialogo tra Giorgio Bocca, classe 1920, partigiano di Cuneo, e Giampa, piemontese di Casale Monferrato che, nato nel 1935, appartiene a una generazione successiva.
La contesa è ardua: Bocca critica la connivenza tra magistratura e politica e gli schermi di tutela che il terrorismo riceve. Giampa, più disincantato, deplora che l’estremismo proponga l’organizzazione di una società comunista per meglio abbattere il capitalismo. Bocca critica la mancanza di riforme, la cui assenza spinge i giovani verso la lotta armata. Giampa, severo, critica: “Ma io sono per una società socialista e democratica e non credo all’insurrezione armata. La guerra civile come in Argentina nel nostro paese è impensabile”.
Ovviamente nel libro non ci sono approcci storico-metodologici, c’è solo il ritratto di una società di uomini meschini, cialtroni, ipocriti, generosi, magnanimi. Il giornalismo di Giampa è utilizzato nell’effimero quotidiano per dare senso all’eternità della testimonianza.
Marco Damilano conclude questa antologia con rigorose riflessioni su Pansa che sapeva di essere criticato da molti e dichiarava: “I protagonisti della partitocrazia adesso torneranno ad accusarmi di sfascismo qualunquista, ma in quale altra democrazia al mondo si vanta il nostro record di misteri di Stato? Piazza Fontana, piazza della Loggia, le stragi dei treni, la morte di Calvi, Sindona, il delitto Pecorelli, i delitti mafiosi, Aldo Moro. I terroristi hanno lavorato per conto della conservazione, hanno fatto manovalanza criminale per chi non voleva toccare nulla”.
Giampaolo Pansa, in questa antologia, limata dalle scritture più discusse sulla guerra civile italiana, che tante critiche gli procurarono, ci viene restituito come persona che guarda alla realtà con stupore, incredulo di tanti orrori.
“È rimasto un ingenuo”, scrive Damilano. Nei congressi politici Giampa aveva in dotazione un binocolo con il quale amava scrutare il volto degli oratori e tracciarne, con l’emissione delle parole, la bontà etica, la saggezza civile di chi dalla politica si aspettava sempre e comunque il meglio. La morte del giovane figlio Alessandro non ne scalfì la generosa umanità e il dono di avere scritto solo parole che avevano il segno di una possibile società più giusta. Si può scrivere oggi di Giampa che era un giornalista che scriveva con chiarezza perché non gli interessava ingannare nessuno?