Cari amici,
il 2 aprile in Italia e il 3 aprile in Marocco è iniziato il mese di Ramadan. La data anticipa ogni anno di dieci-dodici giorni nel calendario solare. In trentatré anni il mese sacro ha fatto il giro completo dell’anno: nell’aprile del 1990 ero in Marocco per la prima volta ed era infatti Ramadan. Lo avevo raggiunto via mare dalle coste dell’Andalusia, dove mi trovavo per motivi di studio, e fu una settimana di fascinazione e digiuno. Difficile dimenticare quei giorni tra Tangeri, Casablanca, Marrakech, Rabat e Fes, avevo perso un chilo di peso al giorno e comprato tutto quello che abili mani di artigiani offrivano ai pochi turisti, perché mi pareva costasse niente.
Ricordo che alla stazione di Fes, città visitata in un solo giorno, dovetti lasciare tutte le valigie, ma non avendo lucchetti ero dovuto uscire all’esterno, dove un vecchietto se ne stava placidamente seduto accanto a una montagna di bagagli abbandonati in strada. Era il guardiano informale. Per 10 dirham gli avevo lasciato i miei da custodire: “Ritorna entro il tramonto”, fu la sola determinata raccomandazione dell’anziano. Ero rimasto in ansia l’intero giorno, pensando che sarei stato certamente derubato. Ma ritornando prima del tramonto avevo ritrovato tutto e il custode se n’era finalmente andato a consumare la colazione, Iftor, dopo il lungo digiuno.
Non c’era da sorprendersi, l’etica musulmana si rafforza nel mese sacro di Ramadan. Ma se penso in questi tre decenni abbondanti a quante volte mi sono ancora sorpreso per questioni che sarebbe semplicissimo capire se non si venisse come me da una mentalità rafforzata nei suoi pregiudizi da tanto senso di superiorità rispetto alle altre culture… C’è proprio da arrabbiarsi con se stessi e la propria testa dura. E dire che era stato De Amicis, in delegazione dal sultano per il governo italiano nella seconda metà dell’Ottocento, a definire i marocchini delle teste dure, raccontando di come essi stessi si descrivessero così. La gara probabilmente non avrebbe vincitori. Ed è anche per questo che sento come primaria esigenza quella dell’istruzione, possibilmente pubblica. In questi giorni il ministro dell’educazione del Marocco, Chakib Benmoussa, sta presentando il suo progetto di riforma dell’istruzione pubblica e offre nuova speranza al paese. Il ministro viene dalla recentissima esperienza di coordinatore della Commissione fortemente voluta da Sua Maestà Mohammed VI per il nuovo modello di sviluppo e sembra dunque essere la persona giusta in un ruolo così delicato, dove peraltro già tanti, troppi ministri hanno fallito. Mi duole ammettere che persino i miei nipotini Amire e Amine vanno alla scuola privata, unica garanzia per tante famiglie di veder seguiti con cura i propri figli almeno nei primi passi della loro istruzione. Ogni mattino li accompagniamo a prendere lo scuolabus alle otto per vederli ritornare la sera verso le sei: sono contenti di andare e imparano già in prima elementare un po’ di inglese oltre ad arabo e francese. Ma questo servizio ha un costo elevato: duecentocinquanta euro al mese per i due bambini, in un paese dove la stessa cifra rappresenta uno stipendio medio basso.
Amire e Amine continueranno il loro percorso in Italia, dove la scuola pubblica, pur nelle contraddizioni, è e resta un vanto. Vogliamo però pensare per i loro compagni e cuginetti un futuro diverso, nel quale la scuola pubblica riacquisti quella credibilità che, nonostante gli impegni elevati di bilancio statale, ha perso sempre più in questi decenni.
Il Marocco come il resto del mondo sta uscendo faticosamente dal periodo della pandemia e pure qui l’inflazione non perdona: i prezzi aumentano vertiginosamente, prima di tutto per i beni primari; il gasolio ha superato il costo della benzina ed entrambi hanno raggiunto l’euro e cinquanta, presto si dice arriveranno a due euro al litro, una cifra europea! Il paese sembra diventare ogni giorno che passa sempre più insostenibile per il grosso della popolazione e non a caso le rimesse dall’estero sono aumentate: è paradossale riscontrare casi di persone in grave difficoltà economica e sociale in Italia che, grazie al welfare, riescono comunque a mandare soldi alle famiglie rimaste in Marocco. In tutto questo pare necessario e logico continuare a ribadire come gli investimenti sui servizi pubblici siano importanti e imprescindibili e come siano prima di altri la sanità e la scuola i punti sui quali potrebbe basarsi una ricostruzione socio-economica del Marocco.
Le intenzioni sembrano buone, almeno per il settore dell’istruzione: Benmoussa punta molto sulla formazione e qualificazione anche salariale degli insegnanti e però ancora non convince completamente, specialmente quelli precari. Saranno gli anni a venire a indicare se la strada intrapresa dal ministro con la riforma sarà stata quella giusta. Permette di sperare il metodo partecipativo, finalmente orientato a sondare le esigenze dal basso invertendo quel pessimo sistema di imposizione dall’alto tanto caro alle politiche di un paese che, è bene ricordarlo, è essenzialmente governato in maniera autoritaria.
Aiutare i giovani a formarsi e ad acquisire una coscienza critica non potrà che far bene a una nazione che, come amava ripetere Fatima Mernissi, la fiduciosa sociologa, offre una gioventù capace e abile, pronta a sfruttare le opportunità di conoscenza offerte da internet. Sappiamo e ho vissuto personalmente anche io in questi trentatré anni come nella storia recente internet abbia veicolato più irrigidimento delle menti che apertura. L’islamizzazione tradizionalista e a volte fanatica che forti flussi di denaro hanno saputo indurre su tutta la popolazione musulmana mondiale si è percepita con forza anche nel filo-occidentale Marocco. Pare davvero una sfida enorme che sia proprio la ricca borghesia laica e occidentalizzata, la stessa che detiene il grosso del potere e delle risorse, a difendere il paese dalle involuzioni ideologiche e a portarlo finalmente a un livello di alfabetizzazione adeguato. Bisogna crederci comunque, alternative al momento non ne vedo.