Anne Applebaum, giornalista e saggista statunitense naturalizzata polacca, collabora con il “Washington Post” e insegna alla London School of Economics. Tra le sue pubblicazioni, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, che le è valso il premio Pulitzer nel 2004, e La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est.
Nel 1929 la politica di collettivizzazione agricola forzata promossa da Stalin costrinse milioni di contadini russi a consegnare allo Stato bestiame, attrezzi e ogni scorta alimentare fino all’ultimo chicco di grano. È l’inizio di una catastrofica carestia, la più letale nella storia d’Europa, che causò, tra il 1931 e 1933, oltre 5 milioni di vittime, in gran parte nella Repubblica socialista sovietica di Ucraina, una delle più popolose dell’Urss. Un vero e proprio “sterminio per fame” (in ucraino, “Holodomor”), frutto della criminale operazione architettata dal governo di Mosca e attuata con particolare ferocia nel “granaio d’Europa”: la proprietà collettiva era infatti uno dei pilastri del marxismo-leninismo professato dal Partito comunista sovietico e la campagna doveva fornire ogni possibile risorsa alla crescita delle città e dell’apparato industriale e militare del Paese.
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Il fenomeno dell’espropriatore violento, dell’uomo che, pistola in pugno, vomitando slogan, chiedeva generi alimentari, era familiare all’Ucraina sovietica da ben prima dell’inizio della collettivizzazione. Uomini del genere erano comparsi nel 1918 e 1919 alla ricerca di grano per dare da mangiare alle loro truppe. Erano tornati nel 1920, quando i bolscevichi avevano riconquistato il potere. Si erano rifatti vivi nel 1928 e 1929, quando era iniziata una nuova penuria alimentare. Si fecero rivedere nell’inverno del 1932-1933, ma il loro comportamento era cambiato.
A differenza di altre misure adottate per l’Ucraina nel 1932-1933, istruzioni scritte che regolassero il comportamento dei militanti non ne sono mai state trovate. Forse non furono messe nero su bianco, o forse furono distrutte insieme ad altri materiali d’archivio ucraini dell’epoca, che, a livello di province e distretti, sono estremamente più scarsi di quelli russi dello stesso periodo. Ma un gran numero di testimonianze di storia orale attesta, nel comportamento dei militanti alla vigilia del Holodomor, un netto cambiamento.
Quell’inverno le squadre operanti nei villaggi dell’intera Ucraina si diedero a perquisire alla ricerca non soltanto di cereali, ma di qualunque prodotto alimentare. Erano armate di speciali strumenti, lunghe aste metalliche, a volte dotate di uncini, in grado di penetrare varie superfici. I contadini li chiamavano con molti nomi diversi: fili di ferro, bastoni, bastoni di metallo, bastoni appuntiti, bacchette, lance, picche, pertiche. Migliaia di testimoni hanno raccontato come venissero usati per sondare e sfondare forni, letti, culle, pareti, bauli, camini, sottotetti, tetti e cantine; per cercare grano nascosto dietro icone, in botti, in tronchi d’albero cavi, nelle cucce dei cani, in fondo a pozzi e sotto mucchi di spazzatura. Gli uomini e le donne che li usavano non si fermavano davanti a nulla: setacciavano cimiteri, fienili, case vuote e frutteti.
Come i requisitori del passato, cercavano cereali. Ma, in più, prendevano frutti dagli alberi, sementi e verdure dagli orti -barbabietole, zucche, cavoli, pomodori- nonché miele e alveari, burro e latte, carne e salsicce. Le brigate, avrebbe ricordato Ol’ha Cymbaljuk, portavano via “farina, cereali, tutto ciò che veniva conservato nei vasi, vestiti, bestiame. Era impossibile nascondere qualunque cosa. Perquisivano con aste di metallo […] cercavano dentro le stufe, distruggevano i pavimenti, i muri”. Anastasja Pavlenko ricordava che strapparono dal collo di sua madre, sospettando che contenesse qualcosa di commestibile, una collana di perline. Laysa Sevcuk vide dei militanti portar via una barbabietola e delle piantine di papavero che sua nonna stava coltivando per poi piantarle nell’orto.
I militanti, avrebbe scritto MarijaBendryk, della provoncia di Cerkasy, venivano e si prendevano tutto. Guardavano nei barattoli delle converse in cucina; a uno portavano via fagioli rossi, a un altro croste secche. Scuotevano i barattoli e li portavano via”. Nella provincia di Kirovohrad, Leonid Vernydub vide una brigata tirare giù tre pannocchie di granoturco appese al soffitto a seccare per usarle come sementi l’anno successivo, e prendersi anche “fagioli rossi, cereali, farina e addirittura la frutta secca conservata per farne una composta”.
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Anna Suchenko avrebbe ricordato che dare informazioni era “popolare”: chi permetteva di scoprire il cibo nascosto da qualcun altro ne riceveva fino a un terzo come ricompensa. Anche i dipendenti pubblici dovevano contribuire. La famiglia di Ihor Buhajevyc, della provincia di Poltava, sopravvisse perché sua madre, che aveva trovato lavoro a Leningrado, spediva periodicamente a casa pacchi di croste di pane secco. Ma i pacchi suscitarono il sospetto del direttore dell’ufficio postale, che si presentò a casa loro accompagnato da un militante per scoprire che cosa contenessero. Il militante ne requisì la metà.
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Come potevamo resistere, se non avevamo
la forza di uscire di casa?

Marija Dzjuba, provincia di Poltava, 1933

Nessuno di loro era colpevole di niente, ma appartenevano
a una classe colpevole di tutto.

Il’ja Erenburg, 1934
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Le brigate chiedevano anche soldi. I contadini erano ancora soggetti alla legge del 1929, che comminava loro, per il grano che non riuscivano a produrre, ammende che potevano arrivare fino a cinque volte il suo valore. Agli abitanti dei villaggi sulle liste nere, inoltre, era imposto di consegnare i loro risparmi. Mettere insieme somme del genere era da tempo un problema. Nel dicembre 1932 Lazar’ Kaganovic, stretto sodale di Stalin in Ucraina, scrisse nel suo diario che gli agricoltori individuali erano stati multati nella Repubblica per 7,8 milioni di rubli, di cui, tuttavia, erano stati incassati solo 1,9 milioni. Vlas Cubar aveva debolmente spiegato la cosa dicendo che non avevano “niente da vendere”. Ma nell’autunno del 1932, perché i contadini potessero pagare quelle somme, furono organizzate aste di mobili e altri beni: “Quando un contadino pagava la tassa, gliene veniva poi imposta un’altra, più alta. E poiché mio padre non poteva pagare questa tassa ulteriore, fu indetta un’asta [..] furono venduti un magazzino e un capanno”. A volte quelle richieste avevano poco a che vedere con le imposte passate: in un villaggio, a chiunque avesse parenti negli Stati Uniti fu chiesto di consegnare i soldi che si presumeva avesse ricevuto dall’estero.
Durante le perquisizioni alla ricerca di prodotti alimentari e denaro non era raro che si ricorresse alla violenza. Una donna della provincia di Cernihiv avrebbe ricordato:
Durante la  perquisizione i militanti chiesero dov’erano il nostro oro e il nostro grano. Mia madre rispose che non aveva né oro né grano. La torturarono. Le misero le dita in una porta e la chiusero. Le dita si spezzarono, scorse il sangue, e lei svenne. Le versarono dell’acqua sulla testa e ripresero a torturarla. La picchiarono, le infilarono un ago sotto le unghie.
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Con il passare delle settimane, il solo fatto di essere rimasti in vita divenne sospetto: se una famiglia non era morta, voleva dire che aveva del cibo. Ma se aveva del cibo avrebbe dovuto consegnarlo, e se non l’aveva consegnato doveva essere una famiglia di kulak, petljuristi, agenti polacchi, nemici. “Com’è possibile che in questa famiglia nessuno sia ancora morto?” chiesero i membri di una brigata andata a perquisire la casa di Mychajlo Balanovskij, nella provincia di Cerkasy. E quelli di un’altra brigata, dopo aver perquisito la casa di Hryhorij Moroz, nella provincia di Sumy, dappertutto, fin sul tetto di paglia, senza riuscire a trovare niente di commestibile, s’interessarono: “Come fate a campare?”. Con il passare dei giorni le domande si fecero più irose, il linguaggio più spietato: “Perché non siete ancora spariti? Perché non siete ancora morti stecchiti? Come mai siete vivi?”.
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La consunzione per fame di un corpo umano, una volta che inizia, segue sempre lo stesso corso. Nella prima fase il corpo consuma le sue scorte di glucosio. Si hanno sensazioni di fame acuta e si pensa costantemente al cibo. Nella seconda fase, che può durare diverse settimane, il corpo inizia a consumare i propri grassi, e l’organismo s’indebolisce drasticamente. Nella terza fase, il corpo divora le sue proteine, cannibalizzando tessuti e muscoli. Infine, la pelle diventa sottile, gli occhi si dilatano, le gambe e il ventre si gonfiano, perché squilibri estremi inducono il corpo a trattenere l’acqua. Piccoli sforzi prostrano fino all’estenuazione. Lungo il percorso, possono affrettare la morte diversi tipi di malattie: scorbuto, kwashiorkor, marasma, polmonite, tifo, difterite, e una vasta gamma di infezioni e malattie della pelle causate direttamente o indirettamente dalla mancanza di cibo.
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Alcuni, per parlare di quello che avvenne, hanno fatto ricorso a delle metafore. Tetjana Pavlycka, che viveva allora nella provincia di Kiev, ricordava che sua sorella Tamara “aveva una grande pancia gonfia, e il collo lungo e sottile come quello di un uccello. Le persone non sembravano persone, erano più simili a spettri affamati”. Un superstite raccontava che sua madre “sembrava un barattolo di vetro pieno di chiara acqua di fonte. Tutto il corpo che le si poteva vedere [...] era trasparente e pieno d’acqua, come un sacchetto di plastica”. Un altro ricordava il fratello sdraiato, “vivo ma completamente gonfio, il corpo luccicante come se fosse di vetro”. Un altro riferiva di come tutti si sentissero “intontiti”: “Tutto era come annebbiato. Avevamo terribili dolori alle gambe, come se qualcuno ci stesse strappando i tendini”. Un altro non riusciva a liberarsi dell’immagine di un bambino seduto, che dondolava il corpo “avanti e indietro, avanti e indietro”, recitando a mezza voce un unico, interminabile “cantico”: “Magiare, mangiare, mangiare”.
Anche un militante proveniente dalla Russia, uni di quelli mandati in Ucraina ad aiutare nelle requisizioni, avrebbe ricordato i bambini:

Tutti uguali: le teste come pesanti gusci, il collo magro come quello di una cicogna, ogni movimento delle ossa visibile sotto la pelle su braccia e gambe, la pelle stessa come una garza gialla tesa sui loro scheletri. E le facce di quei bambini erano vecchie, esauste, come se avessero già vissuto sulla terra per settant’anni. E i loro occhi, mio Dio!”
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In una situazione del genere, le norme della morale comune non avevano più senso. Rubare ai vicini, cugini, fattorie collettive, sui posti di lavoro divenne una pratica estremamente diffusa. Tra coloro che soffrivano, il furto era ampiamente giustificato. Vicini rubavano a vicini i polli, dopodiché si difendevano in tutti i modi possibili. La gente chiudeva a chiave la porta di casa dall’esterno di giorno e dall’interno di notte. Come lamentò una lettera anonima inviata al comitato provinciale di Dnipropetrovs’k: “Non c’è alcuna garanzia che qualcuno non entri con la forza, si prenda l’ultimo cibo che vi resta e magari vi ammazzi. Dove chiedere aiuto? Gli uomini della milizia sono affamati e spaventati”.
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Dapprima la fame scaccia di casa, perché in un primo tempo ti brucia, ti strazia come il fuoco, ti strappa le budella e l’anima -allora l’uomo scappa di casa. La gente estrae i vermi dalla terra, raccoglie l’erba; hai ben visto, fino a Kiev strariparono. Tutti si allontanano da casa, se ne vanno tutti. Ma poi arriva il giorno che l’affamato torna indietro, trascinandosi alla sua capanna. Questo significa che la fame lo ha sopraffatto, ormai quell’uomo non si salva più: si mette a letto e là giace. Una volta che la fame lo ha sopraffatto, quell’uomo non lo rialzi più, non solo perché non ne ha la forza: è che gli manca l’interesse, non ha più voglia di vivere; sta lì steso, zitto zitto, e non si muove, e non ti venga in mente di toccarlo. L’affamato non vuole mangiare […], non vuole essere disturbato: vuole che lo lascino in pace.
Vasilij Grossman, in Tutto scorre
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Prima o dopo, la fame rese tutti apatici, incacapi di muoversi e di pensare. La gente stava seduta su panche nell’aia, sui bordi delle strade, a casa, e non faceva un passo. Villaggi prima pieni di vita si fecero silenziosi, ricordava Mykola Proskovcenko, che sopravvisse alla carestia nella provincia di Odessa. “C’era ovunque uno strano silenzio. Nessuno gridava, gemeva, si lamentava […]. Dappertutto c’era indifferenza: la gente era gonfia o completamente esausta. […]. Per i morti si sentiva addirittura una specie di invidia”.
Nella primavera del 1933 Oleksandra Radcenko scrisse nel cuore della notte nel suo diario: “Sono già le tre del mattino, il che significa che oggi è il 27 aprile. Non dormo. I giorni scorsi sono stata in preda a una terribile apatia”.
“Nessuno prova dispiacere per nessuno” scrisse un’altra superstite, Halyna Budanceva. “Non si desidera niente; nessuno ha più voglia neanche di mangiare. Si vaga senza meta per il cortile, per le strade. Ma dopo un po’ non si ha più voglia di camminare, mancano le forze. Ci si sdraia e si aspetta la morte”.
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In un lungo rapporto inviato a Kaganovic e Kosior nel giugno 1933, un funzionario del partito che lavorava in una stazione di macchine e trattori nel distretti di Kam’jans’kyj riferì che nella sua zona le persone stavano morendo di fame a migliaia. Portò esempi su esempi di gente che moriva nei campi durante il lavoro o mentre ne tornava, o non riusciva nemmeno a uscire di casa. Ma anch’egli aveva notato la crescente indifferenza. “La gente si è spenta, non mostra la benché minima reazione” scrisse. “Né alle morti né al cannibalismo, a niente”.
L’indifferenza si estese ben presto alla morte stessa. Nei funerali ucraini tradizionali avevano avuto un ruolo sia la Chiesa sia tradizioni popolari: essi implicavano un coro, un pasto, il canto di salmi, letture dalla Bibbia, a volte le tradizionali prefiche. Ora tutti quei riti erano vietati. Inoltre, nessuno aveva più la forza di scavare una fossa, partecipare a una cerimonia o suonare. Insieme a chiese e sacerdoti scomparvero le pratiche religiose. Per una cultura che aveva dato grande importanza ai suoi rituali, l’impossibilità di dare al defunto un degno saluto fu un altro trauma: “Non c’erano funerali” avrebbe ricordato Kateryna Marcenko. “Non c’erano preti, né funerali, né lacrime. Mancavano le forze per piangere”.
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Nei registri della polizia segreta si può leggere di più casi di cannibali finiti in prigione, giustiziati o linciati. Una singolare memorialista del Gulag ha raccontato un incontro nel 1935 con alcune donne detenute per cannibalismo nel campo di prigionia delle isole Solovki, nel mar Bianco. Olga Mane era una giovane polacca, arrestata quello stesso anno mentre varcava il confine con l’Unione Sovietica (voleva studiare medicina a Mosca) e condannata per spionaggio. Dopo un periodo nel campo, venne mandata a Muksalma, una delle isole dell’arcipelago delle Solovki. Oppose resistenza, perché aveva sentito dire che vi erano detenute circa trecento “cannibali ucraine”. Ma quando infine le incontrò i suoi sentimenti mutarono.
Lo shock e l’orrore per le cannibali passarono in fretta; bastò vedere quelle sventurate ucraine scalze e seminude. Venivano tenute in vecchi edifici del monastero: molte avevano il ventre gonfio per la fame e, per la maggior parte, soffrivano di malattie mentali. Mi presi cura di loro, ascoltavo i loro ricordi e le loro confidenze. Mi raccontarono di come i loro figli fossero morti di fame e loro, molto vicine a morire di fame anch’esse, ne avessero cotti i cadaveri e li avessero mangiati. Era accaduto quando si trovavano in uno stato di shock causato dalla fame. Più tardi, quando erano giunte a capire che cosa era successo, avevano perso la ragione.
Ne provai compassione e cercavo di essere gentile, di trovare parole affettuose per loro, quando venivano sopraffatte dal rimorso. Questo per un po’ le aiutava. Le calmava e iniziavano a piangere, e io piangevo con loro .
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Nonostante il divieto di viaggiare e commerciare, i contadini ucraini, come si è già osservato, cercavano di fare entrambe le cose. Aggiravano i blocchi e strisciavano sotto le recinzioni per raggiungere città dove elemosinare qualcosa da mangiare. Chi aveva qualcosa da vendere si accovacciava nella polvere con la merce esposta davanti a sé su un fazzoletto o su una sciarpa. Le merci andavano da una manciata di chiodi arrugginiti a una trapunta logora, o un boccale di latte acido venduto a cucchiaiate, mosche comprese. Capitava di vedere una vecchia a sedere per ore davanti a un uovo di Pasqua dipinto e un pezzetto di formaggio di capra rinsecchito. Oppure un vecchio, coi piedi nudi coperti di piaghe, che tentava di barattare i suoi stivali laceri per un chilo di pane nero e un pacchetto di tabacco rustico mahorka. Pantofole di canapa, e persino suole e tacchi strappati dagli stivali e sostituiti con bende cenciose, erano frequenti oggetti di scambio. Alcuni vecchi non avevano niente da vendere; cantavano ballate ucraine e di quando in quando venivano ricompensati con un copeco. Alcune delle donne tenevano i bambini per terra accanto a loro, o in grembo, e li allattavano; le labbra dei bambini, piene di mosche, si serravano sulla mammella coriacea da cui sembravano succhiare bile invece che latte.
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Per sopravvivere, la gente mangiava qualsiasi cosa. Mangiava qualunque scarto o cibo andato a male che le brigate avevano trascurato. Mangiava cavalli, cani, gatti, topi, formiche, tartarughe. Cucinava rane e rospi. Mangiava scoiattoli. Cuoceva ricci sul fuoco, friggeva uova di uccelli. Mangiava la corteccia delle querce. Mangiava muschio e ghiande. Mangiava foglie e denti di leone, nonché calendule e atreplici, sorta di spinaci selvatici. Uccideva corvi, piccioni e passeri. Nadija Lucysyna avrebbe ricordato che “le rane non durarono a lungo. La gente le catturò tutte. Furono mangiati tutti i gatti, e i piccioni, e le rane; la gente mangiava di tutto. Mentre mangiavamo erbacce e barbabietole, io m’immaginavo il profumo di cibi deliziosi”.
Le donne preparavano zuppe di ortiche e pane di amaranti. Pestavano le ghiande, ne facevano un surrogato di farina che usavano per cuocere frittelle. Cuocevano le gemme dei tigli: “Erano buone, morbide e non amare” ricordava una superstite.
Mangiavano bucaneve, le cui radici hanno la forma di una cipolla e “sembravano più dolci dello zucchero”. Si facevano frittelle anche di foglie ed erba. Alcuni mescolavano foglie di acacia e patate marce, spesso trascurate dalle brigate addette alle requisizioni, e le infornavano per fare un surrogato di perepicky, tradizionali salsicce avvolte nel pane. L’amido contenuto nelle patate marce poteva essere estratto e fritto. La zia di Nadija Ovcaruk faceva gallette di foglie di tiglio: “Seccava le foglie nel forno, toglieva le vene e le cuoceva”.

Un libro da leggere: La grande carestia - la guerra di Stalin all’Ucraina, di Anne Applebaum, traduzione di Massimo Parizzi (Mondadori, 2019)