Cari amici,
il 7 febbraio ho volato verso il Marocco come tantissimi altri che hanno acquistato il biglietto non appena il governo marocchino ha decretato la riapertura della frontiera dopo più di due mesi. Si tratta di una corsa a ostacoli, un viaggio che prevede nuove norme di controllo per impedire la diffusione del virus: tampone molecolare anche per i tri-vaccinati alla partenza così come era già previsto prima della chiusura della frontiera ma per il solo ritorno in Italia. È stato difficile da fare con partenza di lunedì, perché esso deve essere valido entro 48 ore dal check in. Inutile cercare in città un ambulatorio che facesse questo tampone di sabato pomeriggio o domenica. Unica soluzione: sono andato all’aeroporto stesso, dove una società lo fa per 132 euro. Non basta. All’arrivo a Casablanca, dopo il passaggio alla dogana, ho trovato un grande capannone organizzato all’uscita dell’aeroporto, una affollata postazione per tamponi rapidi a tutti i passeggeri in arrivo. Quando vuole, questo paese sa dimostrare grande efficienza, oltre alla severità delle norme. Eppure, una volta entrato nella realtà, fuori dall’aeroporto, ho notato che nessuno portava più la mascherina. È certo che l’incidenza del virus è sempre più bassa nel paese, i decessi da covid sono davvero di un numero statisticamente insignificante, la percezione generale è che il virus non ci sia più. Mi sono ben presto ammalato, ho creduto di covid, vista la situazione. Invece niente, tampone molecolare del ritorno in Italia negativo, per fortuna.
La primavera si sente arrivare qui a Torino da dove ora vi scrivo, come là in Marocco; un clima non poi così differente tra Casablanca (umida ma temperata, con poca escursione termica) e Torino, fredda, ma assolata, così da raggiungere di giorno temperature vicine ai venti gradi. Unica differenza: in Marocco il freddo lo patisci in case in gran parte non riscaldate!
In effetti, il nord del Marocco è così vicino all’Europa da assomigliargli parecchio. Altra cosa il sud, dove il deserto avanza. È la siccità il tema della stagione invernale marocchina: non piove e la scarsità d’acqua sta raggiungendo livelli drammatici. Dai 3500 metri cubi disponibili annualmente per abitante nel 1960 si è passati a cifre spaventose: 645 metri cubi nel 2015 e si raggiungerà in pochi anni la soglia dei 500. In febbraio la quantità d’acqua raccolta nei bacini delle numerose dighe sparse in tutto il territorio registrano un tasso di riempimento del 34%, così da far dire a numerosi esperti che se non arriveranno le piogge nei mesi di marzo e aprile si rischierà seriamente una penuria insostenibile. La siccità ormai si manifesta troppo frequentemente, negli ultimi tempi in media ogni tre anni (vent’anni prima v’era una frequenza di sette-dieci anni).
Due fattori sono certamente causa di questa situazione gravissima: il riscaldamento globale del clima. Insieme, l’accelerazione della crescita demografica e dello sviluppo economico. Tante volte vi ho parlato dell’esponenziale estendersi delle periferie urbane. Ma è l’agricoltura a fare la parte del leone nel consumo idrico: circa l’87% del consumo nazionale. Probabilmente concentrato nelle grandi imprese agricole.
Il mio viaggio è iniziato questa volta nel pieno di un fenomeno di emozione collettiva per la morte del piccolo Rayan, caduto in un pozzo clandestino nel giardino di casa in un piccolo villaggio della provincia di Chefchaouen. Una regione, questa, famosa per il suo capoluogo fiabesco, meno conosciuta per l’aspetto del ritardo nello sviluppo sociale ed economico delle sue campagne in gran parte montagnose. È la terra dei Jibala, ai confini con quel Rif delle coltivazioni proibite e delle contraddizioni più gravi. Sono campagne poverissime, dove tra l’altro i pozzi clandestini vengono aperti numerosi e senza un controllo reale: se colpisce il caso dell’atroce morte del piccolo di cinque anni, sopravvissuto fino all’estrazione riuscita dopo più di cento ore, tragedia che riporta in Italia alla memoria il caso di Alfredino e pertanto fa soffrire ancor maggiormente; colpisce ancora maggiormente come ci sia stata, grazie ai social, una copertura mediatica straordinaria che ha condotto a straordinari aiuti anche internazionali (mi ha colpito tra l’altro la foto di una città degli Emirati con la proiezione gigantesca del viso di Rayan su un grattacielo), a un’emozione e partecipazione collettiva condivisa col resto del mondo forse mai vissuta prima dal Ma ...[continua]

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