Fra realtà e pensiero c’è distanza, alterità e opposizione, o invece questo dualismo, questa separazione sono falsi e fuorvianti? Nella battaglia contro il Positivismo, il marxismo e le scienze naturali come modello di conoscenza da estendere alla filosofia, Croce e Gentile (1875-1944), tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tornarono all’idealismo tedesco di un secolo prima. Si sente spesso dire che in questa lotta “neoidealistica” contro la priorità della conoscenza scientifica delle realtà naturali e umane, Gentile è stato più coerente e più radicale di Croce. Questo è vero “in un certo senso”, perché nella logica di Gentile l’unità di soggetto e oggetto è totale e immediata, ma nel senso che il soggetto conoscente fa sparire l’oggetto da conoscere, lo riassorbe in sé. Per Gentile si tratta infatti di “concepire un pensiero che sia veramente creatore della realtà, cioè, esso stesso realtà”. Il pensiero, per Gentile, è “atto in atto”. Nella sua opera filosofica principale pubblicata nel 1916, la Teoria generale dello spirito come atto puro, Gentile scavalca l’opposizione classica fra soggetto e oggetto, pensiero e fatti, perché, come entità separate, non si trovano nella realtà, non esistono, sono astrazioni concettuali che negano la realtà, la quale è invece sintesi di atti conoscitivi e di fatti o dati esterni. Il cosiddetto “attualismo” di Gentile vuole in questo modo logico andare oltre il Positivismo naturalistico e oltre il marxismo, in cui teoria e prassi, conoscenza e realtà sociale, si presentano distinte, anche se la teoria, oltre che scientifica, è anche teoria politica.
Sostenitore di una filosofia pura e assoluta, immaginata teoricamente come creatrice (in verità distruttrice) della stessa realtà, Gentile nel Novecento ha avuto pochi rivali, se non forse nel più fortunato e abile Martin Heidegger. Il neoidealismo di Gentile risale, più che a Hegel, al primo e più elementare degli idealisti romantici tedeschi, a Fichte, per il quale è l’Io trascendentale, è la soggettività umana, a creare la realtà nell’atto assolutamente libero di conoscerla. Una filosofia, quella di Fichte, influenzata dal grande evento storico dell’epoca, la Rivoluzione francese, da cui il filosofo tedesco ricava l’idea di una libertà incondizionata e originaria che crea lo Stato e perciò può anche negarlo nel momento in cui lo Stato neghi o limiti fortemente la libertà da cui è nato. Alla base di una tale filosofia c’era una “religione della libertà”, una specie di teologia della libertà incondizionata, cioè priva di contenuti circostanziali. Una libertà da cui nascerebbero la conoscenza, il sapere, la filosofia e l’azione. In questo senso, l’Io è attività conoscitivo-creatrice: agire e conoscere, in Fichte come in Gentile, si identificano. È questa una caratteristica culturale che potrebbe essere interpretata come espressione ideologica che compensa l’impotenza politica della Germania nell’età napoleonica e quella dell’Italia all’inizio del Novecento. Una teoria dello spirito creatore che prende il posto dell’azione politica e del suo potere.
Anche per Gentile l’“atto puro” è identità di pensiero e azione, di filosofia e di politica, intelletto e volontà, e dove il volere è anche, immediatamente, conoscere:

Il punto di vista nuovo, infatti, a cui conviene collocarsi, è questo della attualità dell’Io, per cui non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di sé medesimo. Ogni tentativo che si faccia, si può avvertirlo fin da ora, di oggettivare l’Io, il pensare, l’attività nostra interiore, è tentativo destinato a fallire (...). La vera attività pensante non è quella che noi definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce (...).
Questo concetto può parere astruso. E pure è il concetto di cui noi viviamo, sempre che si abbia un certo senso della realtà spirituale.

E più avanti:

Intendere, anzi conoscere la realtà spirituale, è assimilarla a noi che la conosciamo. È una legge, si può dire, della conoscenza della realtà spirituale, che l’oggetto si risolva nel soggetto. Niente per noi ha valore di spirito, se non finisce con l’essere risoluto in noi che lo conosciamo.

Inoltre:

Non si creda tuttavia che il concetto di questa più profonda personalità della Persona che non ha plurale, escluda e annulli affatto ogni concetto dell’Io empirico. L’idealismo non vuol essere misticismo. L’individuo particolare non svanisce nel seno dell’Io assolutamente e veramente reale. Perché questo Io assoluto che è uno e il sé unifica ogni io particolare ed empirico, unifica, non distrugge. La realtà dell’Io trascendentale importa pure la realtà di quello empirico.

Perciò:

Vero è quel che si fa: il vero della natura è, secondo il Vico, per l’intelligenza divina che è creatrice della natura stessa; e il vero per l’uomo non può essere quello della natura, che non è fatta da lui, e nei cui segreti perciò non è dato a lui penetrare. Possiamo vederne solamente i fenomeni nei loro legami estrinseci di fatto (come dirà David Hume), ma non possiamo sapere perché un fenomeno debba succedere a un altro, né in generale perché quel che è sia. Dentro alla natura non vediamo se non buio, mistero. Di tutto quello invece che noi intendiamo come opera nostra, evidentemente il criterio sta dentro di noi.

(Teoria generale dello spirito come atto puro, in G. Gentile, Opere, vol. III, Sansoni, 1954, pp. 6-24, passim)

Benché la prosa di Gentile sia spesso stilisticamente sciatta e perfino non sempre perspicua, ubbidisce tuttavia a una logica fin troppo coerente e lineare, nonché tautologica. Il soggetto non può diventare oggetto di se stesso perché è di per sé un atto che fonda e crea i suoi oggetti. C’è in questa logica un’estremizzazione indebita dell’essenza del soggetto, che non solo dà forma e senso ai contenuti dell’esperienza empirica, come in Kant, ma li crea. Il soggetto spirituale di Gentile ha in effetti un carattere mistico perché unifica e contiene in sé i soggetti plurimi, gli individui reali. La creatività interpretativa viene come divinizzata, ma anche svuotata di limiti e confini e caratteri empirici. La realtà plurale è ridotta all’Uno che la trascende, come la società, con le sue divisioni, sarà ridotta, nel fascismo, all’unità stabilita dallo Stato.
Il riferimento alla filosofia di Vico, secondo cui la natura può essere conosciuta solo da Dio che l’ha creata, mentre la sola conoscenza vera e possibile agli esseri umani è la conoscenza della storia umana, di cui sono autori e responsabili, è un riferimento usato da Gentile per giustificare la divinizzazione creativa dell’atto umano di conoscenza. Così l’Io trascendentale diventa il Dio della storia e l’“atto puro” dello spirito fonde in sé sapere, volere, realizzare. Una tale filosofia mistico-attivistica, che sacralizza l’agire di un tale Io, era la più adatta a sostenere l’ideologia mussoliniana e fascista, presentata in questo modo come filosoficamente superiore alla prassi di Marx, che per attuarsi aveva bisogno di un presupposto di conoscenza scientifica della società, studiata come oggetto di scienza positiva (non a caso Marx ammirava Darwin).
Due dei più noti e dotati allievi di Gentile, Ugo Spirito (che fu fascista attivo per poi diventare, dopo il 1945, comunista a modo suo) e Guido Calogero (fondatore con Aldo Capitini del liberalsocialismo), criticarono Gentile sia come filosofo che come politico. Ma già Gramsci notò nei suoi Quaderni del carcere la vicinanza dell’“attualismo” di Gentile con l’avanguardia futurista di Marinetti e con il suo attivismo artistico, che abbatte la tradizione delle arti risolvendo tutto nell’assoluta libertà senza presupposti dell’atto creativo. Così, se pensare è agire, anche l’agire è di per sé pensare.
Nel capitolo intitolato “Il determinismo storico di Bucharin”, Gramsci parla di “rozzezza incondita del pensiero gentiliano”. Quando per esempio Gentile scrive frasi come questa: “L’uomo sano crede in Dio e nella libertà del suo spirito”, inventa un uomo in generale e come tale “sano”, fuori della società e della storia. Inventa un “senso comune” veicolo di verità, dimenticando che la filosofia dell’Io che crea la realtà nell’atto di conoscerla, cioè la filosofia di Gentile, è il contrario di ogni senso comune. In Gentile l’idea di un uomo comune eterno e sano serve a giustificare l’attivismo assoluto e insieme “populistico” del capo politico, la cui azione dittatoriale viene fatta coincidere con un senso comune immaginario.
Il gentiliano Ugo Spirito, fascista al seguito di Gentile (che fu ministro della pubblica istruzione con il primo governo di Mussolini), disse che con la filosofia di Gentile si tornava a Dio e alla metafisica, riassorbiti nella “mistica fascista”, o nel fascismo come religione politica.
L’interesse che può avere oggi la filosofia di Gentile non è filosofico, ma più genericamente culturale e sociale. Ogni volta che il senso della realtà si indebolisce e declina, ogni volta che nel senso comune si ingigantiscono le dimensioni, i poteri e i diritti dell’io e del soggetto ai danni della realtà di fatto, la filosofia dell’“atto puro” che fa coincidere pensiero e realtà, volere e potere, diventa una subcultura patologica di massa, che cova sotto la superficie della vita sociale, ma è sempre pronta a esplodere nelle forme più inaspettate e distruttive. L’io che nega l’evidenza rivendicando il diritto e il potere di farlo, immagina di creare un’antirealtà più reale.
L’altro maggiore allievo di Gentile, cioè Guido Calogero, andò presto oltre la neometafisica fascista del suo maestro di gioventù. I suoi studi di logica e di filosofia greca, in cui eccelleva, lo portarono da Platone e Hegel verso Socrate e la sua dialettica eticamente fondata, verso un antifascismo liberalsocialista. Per Calogero non esistono più né “essenze”, né “princìpi primi”, e neppure “leggi logiche”, ma solo la volontà morale, dialogica di evitare l’errore, la falsità e l’inganno. Come è stato detto, quella di Calogero diventò, dal 1939 in poi, una riflessione sulle condizioni di possibilità della democrazia moderna, fra gli opposti e complementari poli di “libertà” e “giustizia”.