Dall’inizio del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, la situazione è più volte cambiata e tuttora rimane fluida. Sono indubbiamente necessarie nuove riflessioni. E tuttavia rimane valida la regola aurea ricordata dall’ex segretario di Stato Colin Powell, e cioè che, come nei superstore Pottery Barn, “chi rompe paga”. Certo, dopo si può sempre gettare via l’oggetto rotto. È questo ciò che è accaduto in Afghanistan, noto come “il cimitero degli imperi”, perché storicamente estremamente difficile da governare, e ancora più difficile da conquistare.
Dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti vi avevano inviato una squadra d’assalto per catturare Osama bin Laden, e successivamente, come quell’ospite a cena che non se ne vuole andare, vi sono rimasti per vent’anni -giusto il tempo per rinfocolare un’infinita guerra civile, instaurare leader suoi delegati, e infine abbandonare la nazione in macerie. Tutto questo era già accaduto prima, in Vietnam, Iraq e Siria. Anche lì siamo arrivati, abbiamo seminato distruzione, abbiamo perso e ce ne siamo andati- seppure siamo ancora impegnati in qualche attacco con i droni e qualche inutile bombardamento.

Dopo la proclamata “missione compiuta” del Presidente George W. Bush in Iraq, circa un quarto della sua popolazione era stato ucciso, ferito, sfollato o esiliato. L’infrastruttura irachena è stata ridotta in macerie, con danni ambientali incalcolabili, ed è un miracolo che Bush e i suoi sgherri neo-conservatori siano riusciti a salvarsi da un’incriminazione da parte della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità.

Dopo aver scacciato gli ex invasori sovietici nel 1989, una coalizione di minoranze etniche nemmeno troppo coese al loro interno, cominciarono a scontrarsi tra loro e furono i talebani, nel 1994 a colmare il vuoto di potere. Ora, dopo decenni, anche gli Stati Uniti se ne stanno andando.
C’è caos negli aeroporti, a migliaia sono condannati a una situazione disperata. Come in passato, comunque, i civili si adatteranno. Il regime talebano potrebbe persino mantenere la promessa fatta di un’amnistia generale, per creare una società islamica sì, ma “inclusiva”. Naturalmente, un’agenda simile potrebbe anche entrare in contraddizione con l’identità estremista che ha ispirato i talebani negli anni.
È difficile presumere che degli estremisti religiosi porgeranno una mano amichevole all’“altro” -specialmente se consideriamo la minaccia costituita da Isis-K e Al-Qaeda, e i pericoli rappresentati da un costante incremento di ciò che Sigmund Freud ha definito il “narcisismo delle piccole differenze”.

Un’altra guerra civile incombe sul popolo afghano, una guerra che porrà fine a qualsiasi forma di pluralismo e al riconoscimento dei diritti delle donne. A quel punto infatti i talebani troveranno l’opportuna giustificazione a una forte repressione interna. Il fatto è che una volta che si scatena una campagna di terrore, non la si può fermare come si chiude l’acqua che scorre da un rubinetto. Comunque gli Stati Uniti non avranno voce in capitolo su tali eventi -è questo che comporta l’aver perso la guerra.
A trascinare gli Stati Uniti nel pantano afghano è stata la precipitosa volontà di vendicare l’11 settembre. La guerra andava considerata perduta sin da quando l’impossibilità di una cattura immediata di Osama bin Laden ci ha portato a impegnarci in un’invasione in piena regola. Gli Stati Uniti si sono fatti carico di una sgangherata coalizione di signori della guerra e tribù certo ostili ai talebani, ma privi di una qualsiasi sovranità riconosciuta e unificante. Le truppe americane hanno orgogliosamente occupato Kabul e l’antica città di Kandahar, ma è sempre mancato loro il sostegno delle campagne. Il comando militare poi ha contribuito a rendere ancor più sfavorevoli le condizioni sul terreno supportando le truppe afghane di terra con bombardamenti che hanno seminato il panico tra i civili.
Peggio ancora: nulla è stato fatto in merito alla radicata corruzione dello stato afghano e alla sua economia fondata sulla coltivazione e il traffico di droga.

Gli Stati Uniti non hanno mai saputo articolare un obiettivo strategico coerente e sono rimasti vittima di un grave caso di “mission creep”; cioè di quel male che porta a una trasformazione graduale e inconscia degli obiettivi strategici come pure delle giustificazioni che li sostengono. Insomma, l’apparentemente semplice piano di eliminare Osama bin Laden è rapidamente sfuggito di mano. ...[continua]

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