Nel suo primo discorso alla Knesset, da capo dell’opposizione, il 13 giugno, Benjamin Netanyahu ha detto in sostanza due cose di un certo rilievo. La prima: il nuovo governo, in apparenza di Naftali Bennett, in realtà di tutti coloro che volevano vedere la caduta del premier uscente, non avrà la forza di opporsi alla politica di Joe Biden. La seconda: a Teheran sono contenti perché in Israele il nuovo governo non sarà capace di contrastare con energia lo sviluppo delle capacità nucleari dell’Iran. Ecco, nel tono, più che nel contenuto di queste due considerazioni, è insita la vera ragione della nascita dell’esecutivo alternativo a Netanyahu appunto.

Ci spieghiamo. Il problema non è tanto l’insinuazione del disfattismo, quanto l’idea coltivata negli ultimi anni dal capo del Likud, per cui la ragion di Stato si identificherebbe anche con le sue ragioni politiche e talvolta personali. Senza di lui alla guida del governo, Israele correrebbe seri pericoli, tanto che, nello stesso discorso, Netanyahu ha citato anche la Shoah e il mancato bombardamento dei campi e delle ferrovie che portavano gli ebrei nei lager, da parte di Roosevelt.
Il populismo, nella versione di Netanyahu (ma attenti, può essere un modello da imitare altrove nel mondo) è la convinzione che la sottrazione del potere da parte delle altre forze politiche, effettuata con manovre politiche estremamente complesse ma del tutto legittime in una democrazia liberale, sia un sopruso, una violazione di chissà quali regole del gioco; un sopruso perpetrato con la complicità ovviamente dei media, dei giudici e via elencando.

Come si diceva prima, in realtà il governo alternativo è frutto dello scontento dei leader dei partiti di destra, quasi tutti ex strettissimi collaboratori di Bibi che a un certo punto si sono sentiti (ciascuno per conto suo) delusi o traditi dall’ex capo. O meglio, usati e poi messi da parte, qualche volta in modi piuttosto sgradevoli. Vale per Naftali Bennett, vale per Gideon Saar, vale per Ayelet Shaked (astro nascente, anni fa, della destra), vale soprattutto per Avigdor Lieberman, che guida il partito degli immigrati dell’ex Urss e che da due anni andava ripetendo che lui con Netanyahu mai e poi mai sarebbe entrato in un’alleanza. Quella di sopra è una spiegazione di quanto la genesi del nuovo governo determini  il suo carattere. O, se vogliamo, il governo Bennett è quanto di più vicino possa esistere a quel modello, sperimentato in Italia, che viene definito “governo tecnico”. Un siffatto esecutivo nasce in genere (in politologia si chiama esecutivo degli esperti) quando il sistema è in crisi. E infatti il sistema è in crisi. Ora, in Israele, i nuovi ministri sono tutti politici, nessun esperto né tecnico. Eppure, a sentire il programma esposto da Bennett sempre alla Knesset il 13 giugno prima del voto di fiducia, si aveva l’impressione che questo fosse un governo che ha come programma una serie di interventi specifici, settoriali, ma non una linea politica vera. In altre parole e parafrasando le cose dette dal nuovo primo ministro in una intervista alla tv: ciascun ministro si occuperà delle questioni che gli competono. Sembra una banalità ma non lo è. Prima di tutto, perché si tratta di ripristinare una certa normalità in un paese in cui da due anni non era possibile costruire un governo stabile e quindi neanche un’amministrazione di cui avere fiducia e funzionante (il successo della campagna di vaccinazioni è un’eccezione). In secondo luogo: l’anomalia di un governo che promette la normalità, come quello di Bennett, potrebbe essere una novità interessante e foriera di sviluppi inattesi.

Semplificando. Nel governo ci sono forze politiche che vanno dalla destra dei coloni (il partito di Bennett) fino al Meretz, una forza politica di sinistra, ambientalista e da sempre in prima linea contro l’occupazione e per i diritti dei palestinesi. Uno dei ministri del Meretz è poi un palestinese israeliano. E ancora, per la prima volta, della maggioranza  di governo fa parte un partito arabo, Raam, di Mansur Abbas, un dentista della Galilea, vicino ai Fratelli musulmani.  Sapranno convivere insieme tutti quanti? E a quale prezzo? Il prezzo è: rimandare le decisioni cruciali, quelle che riguardano il futuro dei Territori. Però, la storia non è governata solo dai voleri degli umani ma anche dalle dinamiche che si innescano. Ecco la prima. Gli uomini e le donne di destra e di sinistra saranno costretti a confrontarsi cercando, non tanto lo scontro, ma punti in comune. Altrimenti rischiano di far tornare Bibi. E in questa conversazione parteciperà pure Abbas e il suo partito la cui non legittimità la destra non potrà più invocare.

Non sto facendo uno scenario roseo e di facile ottimismo. Sto dicendo solo che il governo di emergenza, tale è l’esecutivo Bennett, dovrà in continuazione rinegoziare ogni mossa in base a un linguaggio nuovo, mai sperimentato. La destra do­vrà tener conto degli interessi dei palestinesi d’Israele. I palestinesi d’Israele dovranno capire di più le paure recondite che portano molti ebrei a diffidare dei loro vicini di casa; la destra dovrà capire che gli uomini e le donne di sinistra non sono “traditori” né “belle anime” ma gente a cui sta a cuore il destino degli esseri umani cittadini d’Israele e abitanti dei territori occupati. Tutto questo, parlando di esigenze concrete, quotidiane,  e non dei valori o delle ideologie. Infine, il partito di Abbas chiede cose semplici: più soldi per le infrastrutture nelle località abitate dagli arabi. Niente di più ma neanche di meno. Voglio dire, semplicemente: tutti quanti dovranno mettersi nei panni degli altri. Può essere una premessa per andare verso la vera normalità. Non è detto che succeda ma non c’è motivo per non crederci. Anche questo, in fondo, è un programma minimo.
Wlodek Goldkorn