Ho letto prima con pregiudizio, poi con interesse e infine con irritazione il pezzo di Lucetta Scaraffia uscito sul n. 272 di “Una città”. Non dico nulla sulle  questioni interne della Chiesa Cattolica Romana non appartenendovi, e penso di non dover interferire nel loro regno terreno, così come loro non devono interferire nel regno terreno cui appartengo, come per altro stabilito dalla berit, o patto,  anche per chi crede.  
La questione purtroppo non è mai stata tra aborto sì o no, ma tra aborto illegale (clandestino, sui tavoli da cucina, con i ferri da calza) o legale e gratuito. Non conosco donna che abortisca tanto per passare la serata. È sempre stato un atto doloroso, conseguenza di una gravidanza non scelta, o di un cambio di circostanze di vita non previsto (per esempio la fuga di diossina 1976 quando la Chiesa Cattolica Romana si oppose a Seveso agli aborti delle donne che erano state esposte -vedi libro di Laura Conti); la questione non riguarda solo quel momento, perché la maternità dura una vita. Non so dove Lucetta Scaraffia abbia trovato e cito: “Femministe che si definiscono dalla maternità, ma a me pare che il volersi definire come persona in sé e completa porta a voler decidere se essere madre o meno; ci sono donne che hanno definito sé senza maternità e altre che si sentono incomplete senza”, et alors?
Lucetta Scaraffia dice e cito: “È giusto fondare la libertà delle donne sul diritto di aborto?” In realtà è il diritto di “Interruzione volontaria di gravidanza” (Ivg) che si fonda sulla libertà delle donne, che comunque è sempre stato il diritto all’autodeterminazione (ossia di abortire o di non abortire, il diritto sulla propria fertilità che è un concetto alieno ai maschi perché appunto alienano la loro fertilità nel corpo delle donne).
È utile guardare i dati su chi abortisca, e noi (Lucetta Scaraffia e io per esempio), che siamo vecchie, sappiamo che il desiderio delle giovani è diverso dal nostro così come sono diverse le conseguenze dei rapporti sessuali di desiderio con un maschio: sono le giovani avventate, le donne di gruppi emarginati e poveri -queste ultime spesso obbligate- a far figli o a non farne a seconda delle culture e dei soldi a fine mese.
Se invecchiare ha un senso (comunque anche se non ce l’ha invecchiamo lo stesso) è quello di ricordare, di ricordare come erano le donne che morivano per essersi fatte gli impacchi di prezzemolo inseriti con i ferri da calza.