Quando si pensa alla Coscienza di Zeno, capolavoro e ultimo romanzo di Italo Svevo, che per la prima volta a più di sessant’anni, nel 1923, ebbe una positiva accoglienza non solo in Italia, si pensa di solito alla nevrosi del protagonista, ai suoi tentativi di guarire, al suo ambiguo e beffardo rapporto con la psicanalisi da poco inventata e alla comicità e casualità dell’esistenza. Si pensa cioè al rapporto fra il caso e il destino. Chi poi ama e cerca le spiegazioni sociologiche pensa alla “crisi dell’individuo borghese” tra fine Ottocento e primo Novecento. Questo romanzo, che forse è la più felice performance narrativa del Novecento italiano, può contare ormai su una tale massa di interpretazioni critiche che viene voglia di leggere o rileggere il libro come se fosse uscito ieri.
Scritte ieri o oggi sembrano comunque le due pagine finali del romanzo. Concludono la vicenda, ma vanno improvvisamente, a sorpresa, oltre la narrazione. Un paio di pagine che possono essere lette come un fulmineo saggio visionario sul destino dell’umanità votata a un catastrofico progresso. Solo Leopardi, mi sembra, ha scritto qualcosa di simile in una delle più famose Operette morali, “Il cantico del gallo silvestre”. A distanza di un secolo, il senso della fine si impadronisce di due dei nostri scrittori più lucidi e solitari. Scrive Svevo:

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo.
Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Chi potrebbe negare questo stato di cose? Eppure non si riesce ad averne una consapevolezza chiara e continua, la sola che renderebbe capaci di prevedere e affrontare le conseguenze di quanto è già avvenuto, avviene e avverrà. Se è vero che “la vita attuale è inquinata alle radici” è anche vero che quelle radici affondano nella natura particolare che distingue e separa noi esseri umani dagli altri esseri viventi, che conoscono “un solo progresso, quello del proprio organismo”.
La rondine, la talpa, il cavallo hanno dovuto adattare la propria conformazione corporea e la propria fisiologia all’ambiente per sopravvivere in determinate condizioni. Ma noi, quel “triste e attivo animale” che siamo, abbiamo inquinato l’aria, rubando lo spazio che è “degli alberi e delle bestie”. Siamo tristi e attivi, dice Svevo, associando tristezza e attività: attivi perché tristi, in attività dalle tristi conseguenze. Mettendo al nostro servizio sempre nuove forze nella natura, ci difendiamo e ci moltiplichiamo occupando tutto lo spazio fino a soffocare, intossicare, la nostra esistenza. Gli animali sono progrediti senza danneggiare la propria salute:

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.

Noi animali con gli occhiali, animali intelligenti, ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!