Cinquant’anni fa, il 22 settembre 1970, Pietro Chiodi morì per le complicazioni di un’operazione cui si era sottoposto per alleviare i dolori artritici che lo tormentavano fin da giovane. Dal 1964 era professore di Filosofia della storia all’Università di Torino. È sepolto nel suo paese natale, a Corteno Golgi, nell’alta Val Camonica, dove era nato nel 1915.
Beppe Fenoglio, che prima della guerra lo ebbe come insegnante al Liceo Govone di Alba, disse in una intervista: “Il prof. Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienza. Quanti di noi andammo nei partigiani perché sapevamo che c’era anche lui? E quanti gli devono la propria formazione intellettuale e civica?”.
Il diario partigiano di Chiodi Banditi (ultima edizione: Einaudi 2015) è secondo Fortini e Pavone uno dei migliori esempi di memorialistica resistenziale. Per la riedizione del libro nel 1960, scrisse: “La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente a esso, vengano in chiaro, senza illusioni, del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valori – come la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapporti – siano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia”. (Cesare Pianciola)

La porta si è aperta brutalmente. Un ufficiale delle Ss - Alzatevi banditi! - Ci alziamo lentamente mi passo una mano sulla fronte e rientro in me. Ci guarda in volto uno ad uno e poi esce senza parlare. Ci sediamo di nuovo. Nessuno parla più. Cocito è sdraiato e guarda verso il muro. Elio si tiene la testa tra le mani. Marco guarda fisso oltre le sbarre.

Lino si è tirato il berretto sul volto, ed è sdraiato in un angolo.
Fuori si sentono voci tranquille di passanti e grida di bambini.
Un terribile pensiero mi prende.
Perché mi sono impegnato in questa lotta? Perché sono qui quando tanti più sani e forti di me vivono tranquilli sfruttando la situazione in ogni modo? Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo?
Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: - È meglio morire che sopportare questo -.
Sì, è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo, ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve. Una strana pace mi invade l'animo a questo pensiero. Ripeto dentro di me: «Non potevo vivere accettando qualcosa di simile. Non sarei più stato degno di vivere».
(da Banditi. Un diario partigiano 1939-1945)