Al Festival della Letteratura di Mantova si apre Scienceground, uno spazio di eventi e discussioni scientifiche per iniziativa di un gruppo di giovani studenti, dottorandi, ricercatori che hanno scelto come filo conduttore i microbi. I batteri che ho in pancia e dintorni sono all’incirca centomila miliardi (e alcuni chili di peso) e interagiscono col cervello, tanto che qualcuno ne parla come un organo pensante, un secondo cervello. Batteri si trovano anche direttamente nel cervello, nella substantia nigra, nell’ippocampo, nella corteccia prefrontale: a tutt’oggi non si sa da dove arrivino e come, essendo il cervello un sistema fortemente protetto da intrusioni esterne. Insomma esisterebbe una popolazione di microrganismi che “colonizza” il cervello (microbiota cerebrale) con conseguente microbioma (la totalità del patrimonio genetico posseduto dal microbiota). Inoltre i batteri sono fondamentali nel sistema immunitario preposto a difenderci dagli attacchi di “nemici”, le malattie. Per dare un numero complessivo sulla totalità delle cellule costituenti il nostro sistema biologico, soltanto il 43% delle cellule è “umano”, mentre il 57% è composto da batteri di vario tipo. E della cui funzione non sappiamo molto. Per cui credo che l’amicizia nei confronti dei batteri che ci abitano sia il solo atteggiamento saggio. Qualcosa di più della convivenza civile. Intendo proprio una amicizia. Come si faccia a costruirla e praticarla non so, e se abbia a che vedere con la scienza, epperò mi pare la sola dimensione. Diciamo: un tentativo di armonia. Che però può anche infrangersi. Come accade quando si scatenano le pesti.
Quando la peste sopraggiunge, la città rattrappisce. Più precisamente dall’esterno viene circondata, messa in quarantena, talchè chiunque cerchi di uscire ne viene con la forza impedito, e lo stesso accade a chi cerchi di entrarvi. Ovvero la città diventa un sistema chiuso sui due versanti. Se si vuole una sorta di carcere a cielo aperto, un luogo di reclusione che accomuna malati e sani, morti, moribondi, e viventi. Si tratta di una condizione innaturale perché la città è per sua intima costituzione un sistema aperto. In questo senso la peste distrugge la città ancora prima di avere ucciso i suoi abitanti. Questa chiusura, insieme alla paura -se non panico- per il contagio, disgregano le relazioni sociali di prossimità nonché di buon vicinato fin dentro i rapporti amorosi: quando l’amato/a cade ammalato, l’amante viene subito allontanato/a dalle autorità sanitarie, che con quelle di polizia, rimangono le uniche in campo, mentre l’appestato/a viene rinchiuso con gli altri/e che soffrono la stessa condizione. Inoltre i luoghi abituali di frequentazione sociale, caffè, ristoranti, sale da ballo, giardini pubblici, strade del passeggio, scuole, negozi, spiagge se siamo sul mare, insomma l’intero tessuto degli spazi pubblici d’incontro vengono disertati, o piuttosto: desertificati. In questo senso la peste è metafora di una annichilazione della civiltà urbana come un incubo adagiato nel profondo dell’inconscio collettivo. Un incubo dormiente ma con sonno leggero, che un piccolo niente può risvegliare: un virus sconosciuto proveniente da chissà dove, gli spazi interstellari tanto quanto un qualche laboratorio di apprendisti stregoni delle biotecnologie, o conosciuto che credevamo debellato e invece riprende vigore fino all’esplosione, o qualcos’altro ancora ben oltre la nostra immaginazione. E d’altra parte la battaglia tra virus e antivirus già infuria nella città virtuale globale, internet e il web.
Il problema delle epidemie e/o pandemie quindi può diventare cruciale in un mondo caratterizzato da una grande mobilità globale con un interscambio di popolazioni e migrazioni di ampiezza intercontinentale, rete globale di mobilità di cui le città sono i nodi e, per quanto attiene la trasmissione di malattie epidemiche, anche i punti critici trattandosi di luoghi ad alta densità di persone potenzialmente contagiabili, e in genere poco controllabili. Il che implica una grande responsabilità sociale, e direi anche politica per i ricercatori che in un modo o nell’altro devono uscire dalle “torri d’avorio” dei loro laboratori per misurarsi con l’intera società. I suoi sogni tanto quanto i suoi incubi, i suo bisogni tanto quanto i suoi desideri. Per dirla in una formula: sarà questione, è già questione, di scienza e democrazia.