Il titolo del mio contributo, “il consenso totalitario”, potrebbe sembrare quasi un ossimoro, ossia due parole che stridono fra di loro: consenso e totalitarismo. Noi tendiamo a vedere il totalitarismo come una dittatura: c’è un capo che comanda e il popolo -vittima- che subisce e non reagisce. L’immagine di Stalin che manda la gente al Gulag non è mai molto lontana dalla nostra percezione della parola. In realtà, bisogna capire che il totalitarismo è un’operazione in un certo senso collettiva ed è questo che lo distingue dall’autoritarismo. Un regime autoritario si limita a reprimere, non cerca il consenso del popolo. I totalitarismi invece cercano di coinvolgere la popolazione, appartengono a un’epoca ­-quella della società di massa- in cui non è più possibile governare senza quel coinvolgimento. È per questo motivo che si parla di “consenso totalitario”. Il consenso riguarda, ovviamente, la popolazione, e quindi stimola numerose domande rispetto all’esperienza della popolazione. Soprattutto si cerca di capire come vivevano, che cosa pensavano le persone “comuni” sotto i regimi totalitari. Ci si domanda, ad esempio, come si comportavano gli italiani sapendo che c’era l’Ovra e la polizia politica sempre in ascolto. Ci si chiede  fino a che punto nella Germania dell’Est la gente temeva la Stasi. Si indaga sulla questione della penetrazione dell’ideologia del regime fra i cittadini; la gente ci credeva o no? Queste -e tante altre domande- ci possono aiutare a capire meglio il funzionamento dei regimi.

Qui farò riferimento soprattutto alle realtà dell’Unione Sovietica e del fascismo italiano; farò meno riferimento al nazismo, che secondo me è leggermente diverso come regime. Sarebbe utile fare qualche riferimento anche alla Corea del Nord, un perfetto esempio di regime totalitario ancora in piedi, ma purtroppo ne sappiamo troppo poco. Ci sono vari motivi per indagare su come viveva la gente comune sotto i regimi totalitari, ma il più importante è che, di solito, si pensa che in questi contesti il popolo sia fondamentalmente vittima del dittatore, che sia passivo e costretto a essere obbediente: porta le bandiere, si riversa in piazza nelle varie ricorrenze, applaude alle adunate, ecc. Siamo abituati a pensare che, sotto questi regimi, il pubblico si comporti come in un teatro: sta lì e ascolta quello che dice il capo, applaude, esaurendo così il proprio ruolo. Per questo motivo c’è stata la tendenza a ignorare la storia di queste popolazioni. Ma lo storico non può “dimenticare” le vicende di milioni di persone lungo l’arco di alcune decine di anni. Non possiamo comportarci come se, ad esempio, il popolo sovietico, fino al 1989, non fosse esistito, come se fosse stato solo una comparsa sulla scena, senza alcuna capacità di incidere sulla vita politica, come se fosse stato nascosto alla storia per settant’anni.
Esistono alcune parole chiave nello studio dei totalitarismi, di cui le due più importanti sono mobilitazione e partecipazione. Sono concetti centrali nella storia del totalitarismo. Per esempio, io sostengo che il regime di Franco in Spagna non è stato un totalitarismo, in quanto manca un vero tentativo di mobilitare, di far partecipare, la popolazione.
Ma cosa significa partecipare? La gente va all’adunata in modo spontaneo o coatto? La domanda di fondo è: la popolazione è soltanto passiva o in qualche modo agisce per sua spontanea volontà? Esiste un processo di auto-mobilitazione? Di contro, bisogna chiedersi se il regime controlla solo attraverso la coercizione, oppure se riesce a costruire un effettivo senso di approvazione fra la popolazione. Le risposte a domande di questo tipo sono importanti perché possono spiegare molto della durata di un regime totalitario, dei suoi successi e dei suoi fallimenti. Possono aiutare a capire, ad esempio, se il crollo del comunismo nel 1989 sia stato dovuto a problemi economici, oppure se si fosse incrinato qualcosa nel rapporto tra regime e popolazione.  

Sempre riguardo al consenso, dobbiamo ricordare che i regimi e i movimenti che poi sfociano in regimi totalitari possono essere molto seducenti, in quanto, soprattutto all’inizio, promettono un nuovo mondo, un paradiso futuro, un “uomo nuovo”. Sia nel fascismo italiano che nel comunismo bolscevico, c’è la promessa di una futura utopia, con una società rigenerata dopo gli orrori della Grande guerra. Basta guardare alcuni dei manifesti di propaganda dell’epoca: le persone sono sempre sorridenti e guardano in lontananza, verso l’orizzonte; lì c’è il futuro, la felicità, il sole. Questi regimi, in fondo, vendono sogni e i sogni permettono alla gente di lavorare e impegnarsi verso un obiettivo. Nell’Unione Sovietica l’obiettivo è la costruzione del socialismo. L’idea di lavorare per costruire un futuro migliore permette la formazione di una cosiddetta “doppia realtà”, per cui la gente accetta le condizioni terribili di oggi perché convinta che la realtà di domani sarà migliore. Quindi le persone riescono a vivere in queste due realtà, quella di oggi e quella di domani; dove quella di domani rende sopportabile quella di oggi.



Emerge, fra i sostenitori di questi regimi, anche un rapporto molto particolare con la storia: la storia non sta nel passato per queste persone, bensì nel futuro; sono loro che stanno costruendo la storia. Ricordo che tutti questi regimi promettono di durare per sempre: il nazismo per mille anni, il fascismo per cento anni, il socialismo per sempre. Alexei Yurchak ha scritto un bel libro sul tardo comunismo sovietico intitolato significativamente: “Tutto era per sempre”; i giovani infatti non riuscivano a concepire l’idea della fine di quel regime, già durata settant’anni. C’è un altro libro molto bello sull’Unione Sovietica, che racconta la storia di Magnitogorsk, la città-acciaieria costruita in gran fretta in Siberia nel 1930 da squadre di lavoratori scelti. L’autore, Stephen Kotkin, ha intervistato alcuni dei sopravvissuti di queste squadre e quando ha chiesto loro: “Ma cosa pensavate di fare, come avete potuto sopportare quelle condizioni terribili?”, la risposta è stata sempre la stessa: “Stavamo costruendo il socialismo”. La capacità di guardare verso il futuro è stata sempre molto importante nell’ideologia totalitaria.  

Il sogno del futuro paradiso ha aiutato la realizzazione di un altro elemento che caratterizza i regimi totalitari:il tentativo di chiusura verso il mondo esterno. Un “buon” regime totalitario, si potrebbe dire, deve eliminare le alternative a quel sistema politico: le persone non devono contemplare la possibilità di avere altre opzioni. Si cerca pertanto di inibire il contatto, anche il contatto fisico, con il mondo esterno, nel tentativo di convincere la popolazione che stia vivendo nel miglior mondo possibile. Alla fine, la vita quotidiana, senza la possibilità di scelta, diventa la vita normale, l’unica possibile. Il trucco del totalitarismo è di rendere l’inevitabile normale. Al riguardo, va ricordato che tutti i regimi assistono a una certa evoluzione: c’è la fase rivoluzionaria, poi c’è un momento di assestamento; segue poi un lungo periodo (questo è accaduto nel caso sovietico come in quello italiano) che potremmo definire di “routinizzazione”, in cui il conformismo politico diventa un fatto di routine. Che fosse una vita di routine si avverte spesso nelle interviste fatte a persone vissute sotto il fascismo: “Sì, certo che ero fascista, non c’era altro”. La risposta fa pensare che all’epoca sembrasse perfettamente naturale essere fascista perché, in un mondo chiuso, non si percepivano alternative.
Ma torniamo alla questione del consenso totalitario. Come già detto, sembra strano parlare di consenso, perché abbiamo tutti una precisa immagine dei regimi totalitari: Gulag, neve, freddo, morte, lavoro forzato, ecc. Abbiamo in mente la Gestapo, la Nkdv, la Stasi, l’Ovra; l’immagine è quella di un mondo cupo, crudele, repressivo. Occorre tuttavia tener presente che nessun regime dura a lungo senza qualche elemento di consenso.
Ora voglio guardare un po’ più da vicino al rapporto fra repressione, coercizione e consenso in questi regimi. Parto da due storie. La prima riguarda l’Unione Sovietica del 1937. È la storia di una donna russa, Yulia Piatnitskaya, moglie di un alto funzionario del partito comunista. L’ha raccontata in un bel libro uno studioso tedesco-americano, Jochen Hellbeck. Nel 1937 il marito di Yulia viene arrestato con l’accusa di alto tradimento e viene portato via. Yulia inizialmente non sa che cosa pensare e cerca di elaborare la sua confusione scrivendo un diario. Non sa se credere al suo amato marito, il padre dei suoi figli, con cui è sposata da diciassette anni, o alle accuse del partito. Alla fine Yulia decide che è impensabile -sottolineo la parola “impensabile”- che il partito possa sbagliare. Pertanto pensa che è sicuramente lei a essersi sbagliata a fidarsi di suo marito, che il partito comunista aveva giudicato un traditore. Nel diario scrive a se stessa: “Tu sei più di una moglie, più di una madre, sei una cittadina dell’Unione Sovietica e quindi devi credere nel partito”. E così, costretta a credere nella giustizia comunista, abbandona il marito al suo destino.

La seconda storia illustra un tipo diverso di consenso e arriva da casa nostra, dall’Italia. Nel 1934 un operaio italiano viene arrestato per vilipendio verso le autorità. Temendo una condanna pesante, l’accusato si prodiga in dichiarazioni di fedeltà e amore verso il regime; sembra che da parte sua ci sia un consenso totale. Sono le sue stesse parole, mentre cerca di difendersi, a rivelare la natura del reato. Lui dichiara: “Quando ho colpito il busto di Mussolini con la sedia non avevo alcuna intenzione di mancare di rispetto al capo del fascismo”. Le autorità non credono alla sincerità del suo consenso e il poveretto viene condannato a cinque anni di reclusione.

Queste storie illustrano due diverse strade verso il consenso. La prima è guidata dall’ideologia, dalla convinzione nella causa, dall’incapacità di pensare l’impensabile. Qui si vede la forza dell’ideologia, che viene talmente interiorizzata da arrivare a far parte dell’identità della persona. La seconda, più semplicemente, è dettata dalla paura, dal terrore. Sono le linee guida classiche di qualsiasi analisi sull’opinione popolare sotto i regimi totalitari. Di questi processi abbiamo un bellissimo esempio nella figura di Winston Smith nel romanzo 1984 di George Orwell; alla fine il protagonista non può più resistere e viene totalmente condizionato anche in ciò che pensa. Oppure, più banalmente, la gente non offre resistenza perché terrorizzata dagli apparati di repressione e dalle possibili conseguenze. Quindi, da una parte, abbiamo un Grande fratello, le forze al potere che controllano anche il pensiero, con forme di “psicopolizia”; dall’altra ci sono gli strumenti di repressione: il Gulag, la Stasi, e simili. Il popolo è fondamentalmente vittima e, in un modo o un altro, subisce. Non c’è scampo: o accetti e credi o subisci il terrore.

Nei film dei regimi totalitari vediamo sempre le enormi folle applaudire i capi con entusiasmo. La folla delirante sotto il balcone di Palazzo Venezia è quasi una costante dei cinegiornali dell’Istituto Luce, e non potrebbe essere diversamente in filmati prodotti dal regime. Ma ci dobbiamo chiedere: quanto di questo entusiasmo è spontaneo, convinto, e quanto invece è coatto e determinato dalla paura delle conseguenze se uno non dovesse comportarsi come vuole il regime? In altri termini, quanto, in questo apparente “consenso”, è dovuto alla penetrazione dell’ideologia e quanto alla paura? Qual è il rapporto fra questi due fattori?

Quando cerchiamo di rispondere a queste domande ci troviamo spesso in difficoltà. Uno dei problemi di fondo è legato al modo in cui noi storici leggiamo i documenti. Nel gergo storico si parla della persistenza del “soggetto liberale”, che vuol dire che nelle nostre ricerche partiamo dall’idea che l’umanità sia formata da persone come noi, che istintivamente resistono a questi regimi, che lottano contro la repressione, perché tutti, come noi, vogliono la libertà e la democrazia. Pertanto la posizione default della gente di fronte al totalitarismo dev’essere quella di resistenza. Nelle ricerche siamo dunque portati a cercare episodi di resistenza ai regimi, perché se riusciamo a identificare moti di resistenza vuol dire che le nostre idee, i nostri preconcetti sui regimi, come regimi di repressione, sono giustificati. È una posizione che deve molto alla demonizzazione del regime sovietico durante la Guerra fredda -una demonizzazione che presumeva l’esistenza di una popolazione vittima di un comunismo repressivo.



In realtà, quando andiamo a guardare più da vicino ai comportamenti della gente, scopriamo che non possiamo ragionare in termini di bianco o nero, di consenso o terrore. È troppo semplice. Dobbiamo cercare di andare più in profondità. È necessario cercare di verificare quanto i valori del regime vengano assorbiti dalla popolazione; quanto il regime riesca a penetrare nella mentalità stessa delle persone, fino a che punto la popolazione “legga il mondo” attraverso la lente fornita dall’ideologia del regime, fino a che punto ci sia un’identificazione personale con il regime, con i detentori del potere e con i loro obiettivi. Ponendo queste domande scopriamo che il colore che maggiormente caratterizza i comportamenti e le convinzioni delle popolazioni è il grigio. Un grigio in tante sfumature, ma sempre grigio: non ci sono solo i convinti sostenitori del regime da una parte e gli oppressi, i terrorizzati dall’altra. Gran parte della popolazione sta nel mezzo: non accetta in pieno l’ideologia martellante del regime, ma non vive neanche in una condizione di terrore costante.
È sorprendente leggere interviste a persone che vivevano nella Germania dell’Est. Alla domanda ricorrente: “Com’era possibile vivere con l’onnipresenza della Stasi?”, molti rispondono che veramente non ci facevano caso, che non vivevano con questa minaccia sempre presente; che erano consapevoli dell’esistenza della repressione, ma questo pensiero non riempiva la loro quotidianità. Ecco, è possibile vivere in un regime totalitario senza accettarne l’ideologia e senza provare un costante terrore? Gli studi degli ultimi vent’anni hanno messo in luce il fatto che la dominazione di un regime non è mai totale.
Certo, la gente partecipa, va alle manifestazioni, non potrebbe agire diversamente, ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze. Ad esempio, le manifestazioni del 2 ottobre 1935 tenute in Piazza Venezia e in tutte le piazze d’Italia per sentire la dichiarazione di guerra all’Etiopia vengono presentate da Mussolini come un’iniziativa spontanea del “popolo italiano che vuole la guerra”. In realtà, se si va a vedere la documentazione, dietro le adunate c’è una programmazione meticolosa: ci sono le cartoline precetto mandate a tutti, che tra l’altro vanno riconsegnate agli ufficiali fascisti prima di entrare in piazza; gli assenti vengono puniti. Naturalmente, in queste condizioni, la gente partecipa. Il regime, insomma, crea le condizioni affinché la collaborazione sia necessaria e non evitabile. Il condizionamento è evidente in tutti quei casi in cui l’individuo ha rapporti con lo Stato. Ad esempio, chi ha bisogno di una licenza per un negozio o un ristorante deve fare molta attenzione a non offendere il partito. Al riguardo, dai documenti storici emergono vicende emblematiche: un giornalaio a Padova si lamenta con i clienti di “quel buffone di Mussolini”; ma due anni prima si era iscritto al partito perché aveva bisogno del permesso per vendere i giornali. Nella stessa maniera una madre che odia Mussolini iscrive i figli al Fascio perché pensa che così avranno un futuro migliore.
In questi esempi esiste chiaramente una sorta di “collaborazione coatta”, ed è, attraverso una collaborazione di questo tipo che il regime cerca di rendere la gente complice. Il regime crea le condizioni per cui la gente non può evitare di essere coinvolta. Pensiamo all’atto di alzare la mano e dire “Heil Hitler!”: puoi decidere se farlo o no, se lo fai, però, in qualche modo diventi complice del regime, e il regime vuole proprio questo, renderti suo complice.

Nasce, così, il conformismo, di cui esiste un bell’esempio proveniente dalla testimonianza di un operaio di Certaldo, vicino a Firenze: “La maggioranza delle persone si adeguava alla situazione, partecipava alle adunate, perché diceva: ‘Tanto mangio e lavoro’ e sapeva mentire […] Perché noi si veniva contaminati: o pigliare la tessera del fascio o andare via dal lavoro […] o convivere con questo sistema o morir di fame”.
Sappiamo poi che i regimi non utilizzano solo il bastone, ma anche la carota. I regimi premiano la collaborazione. Nell’Unione Sovietica ti possono dare una medaglia, Hitler ti promette una Volkswagen; nella Germania dell’Est puoi guadagnare una vacanza pagata sul Baltico, oppure buoni per il supermercato; in Italia il regime può aiutare tuo figlio quando ha bisogno di un lavoro. Negli anni Trenta, la Fiat di Torino, quando cerca operai giovani, a chi si rivolge? Al Fascio. E i fascisti che cosa fanno? Tirano fuori i documenti, le schede, e controllano quali giovani abbiano una “buona” famiglia, cioè una famiglia fascista o che comunque non ha offeso il fascio. A quel punto aiutano chi ha tenuto un buon comportamento. Altri regimi offrono sicurezza e benessere in cambio di adesione popolare. In riferimento alla Germania dell’Est, uno studioso tedesco ha parlato di “dittatura del welfare”. In questi casi lo Stato opprime, ma contemporaneamente garantisce alla popolazione un certo livello di vita e una certa sicurezza.
Pur riconoscendo il forte condizionamento rappresentato dal regime e dalla repressione, studi recenti mostrano come la gente riesca spesso a preservare degli “spazi” di vita non controllati, delle “zone franche”. Spesso la vita privata viene tenuta distinta dalla vita controllata dal partito. In Italia, la famiglia resta uno degli ambiti più difficili da penetrare per il regime e i “fiduciari fascisti” (gli informatori) si lamentano sempre di questo; scrivono: “Noi sappiamo quello che succede al bar, sappiamo quello che succede sull’autobus, sappiamo quello che succede al mercato, ma non sappiamo quello che succede intorno alla tavola della cucina”. Sospettano che le donne abbiano grande influenza (“le donne sono formidabili propagandiste”) e che siano loro a parlare contro il fascismo; però non hanno modo di penetrare in quello spazio.
La difesa della famiglia dall’intrusione del partito è evidente in un altro episodio. A Torino a un certo punto 1.500 militanti fascisti vengono chiamati a un incontro; il federale spiega loro: “Qui il fascismo va male, non facciamo abbastanza tessere. Possiamo fare una cosa per migliorare: le vostre mogli verranno tutte tesserate e parteciperanno alle riunioni del Fascio”. L’idea viene subito bocciata dagli uomini fascisti presenti, proprio perché non vogliono che lo spazio privato, dove dominano, venga messo a repentaglio dalla partecipazione delle loro mogli ad attività pubbliche. Cercano, questi uomini, di proteggere una zona privata. Alla fine i federali fascisti devono accettare il rifiuto. Un altro “luogo” dove è difficile penetrare è la chiesa. Ma poi, cercando, si scoprono tanti altri “spazi”. Ad esempio, nella Germania dell’Est, negli anni 70-80 la musica rock è una zona non controllata dal partito, che esprime, non opposizione, ma autonomia. Sempre nella Ddr, lo skate-boarding, disprezzato dal partito, diventa una mania tra i giovani; è un modo di esprimere autonomia e di uscire dal controllo del partito. I genitori di questi giovani trascorrono il tempo con il giardinaggio e il bricolage -altro “spazio” di autonomia. Alcuni storici hanno visto nell’alcolismo, così diffuso nell’Unione Sovietica, la costruzione di uno spazio dove, almeno temporaneamente, le autorità non potevano dare noia. Una mezza bottiglia di vodka consentiva di “uscire”, almeno per qualche ora, da Mosca e dal comunismo.

Tutto questo ci dice che, per quanto il regime sembri controllare tutto, le persone in qualche modo imparano a “navigare”, a barcamenarsi, scegliendo comportamenti di collaborazione quando non possono farne a meno o quando sono vantaggiosi, evitando invece (quando possono), di collaborare quando il prezzo da pagare è troppo alto o quando la stessa sopravvivenza richiede di rompere le regole. Ricorrere al mercato nero sarebbe un buon esempio di quest’ultimo tipo di comportamento. Va detto, inoltre, che la capacità di simulare diventa molto importante. Tu ti devi comportare come se fossi un buon fascista, un buon comunista; se non dai nell’occhio, più facilmente puoi condurre una vita privata fuori dal controllo del partito. La sfida sta nel conformarsi ai dettami del regime nella quotidianità e al contempo conservare zone franche.
Un buon esempio di questo tipo di comportamento (“come se fosse”) viene dal fascismo. Il 18 dicembre 1935 è la giornata degli anelli nuziali: le donne devono consegnare al regime le loro fedi per contribuire alle spese militari della guerra di Etiopia. In cambio della fede ricevono un anello di lega, di acciaio, che rappresenta una sorta di ricevuta del contributo versato. Se hai l’anello di lega al dito vuol dire che hai consegnato la fede al regime. Risulta dai documenti di archivio che in quell’occasione molte donne acquistano un anello di lega per mostrarlo pubblicamente, mentre la fede viene nascosta in un luogo protetto. È un’operazione perfetta, perché formalmente le donne sembrano aver fatto quello che chiede il regime e al contempo tutelano il loro interesse privato. Qui si vede bene la capacità di aggiustare, accomodare, di piegare le regole in modo da poter sopravvivere ed è chiaro che la parola consenso non riesce a descrivere in modo adeguato la situazione, che è molto complessa.
Tuttavia, questo tipo di comportamento, del fare/non fare, del collaborare/non collaborare, del simulare, non va visto come una forma di resistenza al regime. È un comportamento che si situa in realtà all’interno del regime, che non cerca di rovesciarlo; sono persone che accettano l’esistenza del regime, probabilmente non vedono alternative, ma, allo stesso tempo, cercano di ritagliarsi condizioni di vita accettabili. Non dimentichiamo che in questo contesto molto spesso c’è anche una forte dose di rassegnazione.
Ciò che va sottolineato, nello studio di questi fenomeni, è che quando la gente assume comportamenti di rottura o di aggiustamento delle regole del regime, rifugiandosi nella sfera privata, in realtà sta anche incrinando il progetto totalitario, in quanto nel vero totalitarismo l’interesse privato dovrebbe scomparire davanti all’interesse dello Stato. Se l’interesse personale, privato, resiste, il progetto totalitario è monco, perché vuol dire che l’ideologia dello Stato non è penetrata fino in fondo. Che poi questo tipo di comportamenti effettivamente ostacoli l’azione del regime è più controverso. Alcuni storici sostengono che un regime non riceve scossoni da queste strategie di adattamento, che vengono accettate come inevitabili; altri ne sono meno sicuri.



In conclusione, vorrei proporvi lo schema interpretativo suggerito da uno storico inglese, Ian Kershaw, che cerca di spiegare l’attrazione dei tedeschi per Hitler. Riprendendo Max Weber, egli fa una distinzione fra l’“ordinario” della vita quotidiana e lo “straordinario”, fatto dalle speranze della gente verso il futuro. Kershaw osserva che, nella Germania nazista del 1938-’39, la popolazione si lamentava per le numerose mancanze di beni e di risorse; i nazisti che dominavano nelle province tedesche, poi, erano arroganti e corrotti, trattavano male la gente e creavano un certo livello di scontento. Tuttavia, Kershaw fa notare come questo malessere nella vita di tutti giorni non incise troppo sul regime, perché i tedeschi comuni tenevano distinte la vita ordinaria, quotidiana, e quella “straordinaria” delle speranze e delle promesse per il futuro. La visione “straordinaria” non veniva intaccata dalle difficoltà della vita quotidiana. Così, anche se le cose non andavano tanto bene, i tedeschi continuarono a credere in Hitler e a seguirlo fino alla fine.  
Per l’Italia fascista, secondo me, lo schema funziona male. Anche in questo paese, verso la fine degli anni Trenta, la gente cominciò a lamentarsi della qualità della vita quotidiana, arrivando addirittura a riconoscere che: “dopo vent’anni di fascismo stiamo peggio di prima”. Nel mio libro, Italia fascista, documento lo scontento; ci sono diversi capitoli dedicati all’arroganza e alla corruzione dei segretari federali provinciali, ai casi di abuso di potere, spesso realizzati con l’intento di perseguire interessi personali e di famiglia. Secondo alcune denunce, i fascisti in potere stanno facendo “soldi a palate” e vengono definiti la “nuova casta”. Come in Germania, sono comportamenti molto comuni. Alla fine degli anni Trenta la popolazione si rifugia sempre più nel privato o comunque in spazi non controllati dal partito; privilegia strategie di sopravvivenza per proteggere la famiglia. Ma ciò che si nota è che in Italia, anche prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e a differenza della Germania, il sogno fascista sembra svanito di fronte alla prospettiva di guerra. Mussolini resta popolare, la gente si fida di lui, ma non più per costruire un mondo nuovo, ma per evitare il peggio. In fondo, non hanno scelta. Quel sogno, fatto di promesse e di speranze, era sempre stato più debole del “messaggio” del nazismo, è alla lunga non è sopravvissuto.   Sono partito parlando del “consenso totalitario” e, come avrete capito, in realtà questa relazione non ha una vera conclusione, perché quello che la gente pensa e fa sotto i regimi è colorato di mille sfumature di grigio. La gente, poi, non è neppure sempre coerente. La donna russa che piange quando muore Stalin nel 1953 ammette: “Sì, lo so, Stalin ha ucciso mio padre, ma io piango lo stesso”. Il rapporto fra capo e popolo è molto complesso; è un territorio caratterizzato da ambivalenza e ambiguità che rende difficile parlare di “consenso” nell’accezione normale della parola. Impostare la questione in termini di contrapposizione -come se ci fossero da una parte le persone, dall’altra il regime- è sbagliato; sono tanti i fattori che interagiscono. Basti pensare alla forza, in Italia, della famiglia, della chiesa, dei contesti territoriali. Sono tutti elementi che si intrecciano e che rendono problematica la questione del “consenso”. Ciò che si può affermare è che le società sottoposte ai regimi totalitari non sono mai totalmente passive; la gente reagisce e in qualche modo si difende. Sarebbe molto interessante sapere se questo è vero anche per la Corea del Nord.  
(Relazione tenuta al 900fest del 2015)