Jeff Halper ha scritto su "Counterpunch” (https://www.counterpunch.org/2018/10/12/choices-made-from-zionist-settler-colonialism-to-decolonization/) un intervento sul conflitto israelo-palestinese. Pubblichiamo le due parti essenziali dell’intervento: la ricostruzione dei momenti decisivi, delle scelte che sono state fatte, e la proposta dei principi su cui costruire lo Stato unico democratico.
 
Il sionismo è un progetto di colonizzazione di insediamento
Un chiarimento che deriva dall’interpretazione del sionismo come colonizzazione di insediamento è la semplificazione, per quanto non riduzionistica, della storia di Israele. Le note pietre miliari politiche (l’"esilio” romano, i congressi dei sionisti, le ondate di immigrazione /aliyot/, il 1948, il 1967, ecc.) perdono il loro carattere decisivo e si fondono in un processo di colonizzazione continuo. Non solo il quadro della storia del sionismo diventa assolutamente coerente, ma ne deriva un contributo politico importante: si chiarisce cosa è necessario fare per costruire una vera realtà postcoloniale inclusiva.
1) La conquista di Canaan. Dato che il sionismo sostiene che i diritti nazionali degli ebrei risalgono ai tempi biblici, è utile sottolineare che gli antichi ebrei/israeliti/giudei -che in ogni caso non hanno un rapporto organico con gli ebrei moderni- erano anche loro colonizzatori. Fare riferimento a questa lontana storia rafforza la tesi del colonialismo di insediamento e indebolisce quella che gli israeliti/ebrei siano indigeni del paese. Mette anche in rilievo la responsabilità degli israeliti/sionisti/israeliani nei confronti dei cananei, vittime del genocidio israelitico. La conquista di Canaan -singolarmente al centro della pretesa di legittimità degli israeliani- è l’inizio di una storia di colonizzazione che arriva fino ad oggi.
2) Il sionismo sceglie la colonizzazione di insediamento (1897-1904). Saltiamo all’inizio del Sionismo moderno. Il "problema nascosto”, cioè cosa ne facciamo degli arabi, è già presente proprio dall’inizio del movimento sionista. Rivolgendosi al Settimo Congresso Sionista del 1905, Yitzhak Epstein (1907), che era stato in Palestina già 20 anni, disse ai delegati riuniti:
"Tra le questioni difficili che riguardano la rinascita del nostro popolo nella sua patria la più importante di tutte è il nostro rapporto con gli arabi... Siamo attenti a tutto ciò che riguarda la nostra patria, discutiamo di tutto, lodiamo e critichiamo in ogni modo, ma abbiamo trascurato fino ad ora un fatto banale del nostro amato paese: c’è un intero popolo che lo abita da secoli e a cui non verrebbe mai in mente di andarsene... Noi non dobbiamo sradicare quella gente dalla terra cui loro e i loro progenitori hanno dedicato i loro sforzi e il loro lavoro. Se ci sono contadini che annaffiano i campi col loro sudore, quelli sono gli arabi. Chi potrebbe quantificare il lavoro del fellah, che ara sotto piogge torrenziali, che miete nel caldo dell’estate, che carica e trasporta il raccolto…
Ma lasciamo da parte per un momento la giustizia e la sensibilità e guardiamo il problema solo dal punto di vista della fattibilità. Ammettiamo che nella terra dei nostri progenitori non dobbiamo preoccuparci degli altri e che possiamo – forse persino dobbiamo – comprare tutta la terra disponibile. Ma può andare avanti all’infinito questo tipo di acquisto? Gli espropriati staranno zitti e accetteranno ciò che gli viene fatto? Alla fine si risveglieranno e ci restituiranno in violenza ciò che gli abbiamo tolto con l’oro! 
Cercheranno una rivincita a norma di legge contro gli stranieri che li hanno strappati dalla loro terra…
I principi che dovrebbero guidarci quando ci insediamo in mezzo a questo popolo sono i seguenti:
a) Il popolo ebraico, il più progredito quando si tratta di giustizia, di legalità, di fratellanza umana, rispetta non solo i diritti individuali di ogni persona, ma anche i diritti nazionali di ogni nazione e gruppo etnico.
b) Il popolo di Israele, che aspira a rinascere, è solidale -nelle parole e nei fatti-con tutte le nazioni che si stanno risvegliando a nuova vita; tratta le loro aspirazioni con affetto e benevolenza e incoraggia il loro senso di identità nazionale.
Questi due principi devono essere la base dei nostri rapporti con gli arabi… Dobbiamo quindi stipulare con gli arabi un patto che sarà utile a noi, a loro e all’umanità nel suo complesso.”
 
Preavvertiti da Epstein ed altri (sefarditi come Albert Entebbe e Nissim Behar, come il leader sionista Max Nordau che, arrivato in Palestina nel 1897, commentò: "La sposa è bella ma è già maritata”, "sionisti culturali” come Eliezer Ben Yehuda, Ahad Ha-Am ed Henrietta Szold, e ancora Musa Alawi e numerosi palestinesi) i leader sionisti presero la decisione di diventare un movimento di colonizzazione di insediamento. Avanzarono pretese sull’intero paese, negarono e violarono i diritti nazionali dei palestinesi, si impegnarono in una campagna intensiva di "ebraizzazione” che continua fino ad ora, quando si è quasi completata. Anche se il sionismo, un movimento che emergeva dall’Europa centro-orientale e dalla Russia, era portato ad un nazionalismo esclusivista, avrebbe potuto cercare di evitare la colonizzazione riconoscendo e tenendo in considerazione il nazionalismo palestinese, ma non lo fece.
3) Seconda possibilità: 1988-1996. Sia che si faccia cominciare formalmente il colonialismo sionista dalle scelte politiche fatte dall’Ufficio di Palestina [ente sionista incaricato dell’acquisto di terre e della colonizzazione, ndtr.] nel 1908, dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 o dalla rivolta araba (i "moti” o anche i pogrom, per usare le parole dei sionisti) del 1936, il sionismo è stato sempre un movimento di colonizzazione consapevole, che ha mantenuto la rotta durante eventi epocali come la Conferenza di Versailles, la Commissione Peel per la spartizione della Palestina durante il mandato britannico, la guerra del 1948 e quella del 1967, il Processo di Oslo, fino alla politica degli insediamenti, di annessione, di abbandono della soluzione dei due Stati, di oggi. 
Tutti questi eventi, così importanti, diventano dettagli in un processo di colonizzazione unitario, prolungato e unilaterale. C’è stato tuttavia un momento decisivo ulteriore in cui il Sionismo/Israele avrebbe potuto cambiare profondamente la natura del "conflitto” e superare realmente il colonialismo: il 1988, quando l’Olp accettò la soluzione dei due Stati e riconobbe lo Stato di Israele nei confini dell’armistizio del 1947. Si può persino dire che quello fu il momento del trionfo del sionismo, che ebbe l’opportunità di appianare le divergenze con i palestinesi e legittimarsi mantenendo il controllo del 78% della Palestina storica. Tuttavia, malgrado questa più che generosa offerta, Israele scelse di respingerla e di continuare fino alla fine -la piena ebraizzazione- la sua campagna coloniale. Quali che fossero le prospettive se Rabin fosse vissuto, il suo assassinio nel novembre del 1995 e l’elezione di Netanyahu nel marzo del 1996 posero fine a qualunque speranza dei palestinesi riguardo alla fine della colonizzazione. Se la Prima Intifada (1987) scoppiò come rivolta contro l’occupazione, la Seconda Intifada (2000) fu una sollevazione molto più profonda: contro il sionismo, l’ebraizzazione, la deportazione e il colonialismo. Da questo momento il colonialismo di insediamento sionista chiuse tutte le opzioni di decolonizzazione salvo una: la trasformazione dell’intero paese in un solo Stato democratico.
4) Il trionfo del colonialismo di insediamento. Il rifiuto di Israele di ogni possibilità di compromesso e di decolonizzazione -anzi l’affermazione del proprio impegno a completare la colonizzazione- arrivò con l’operazione Scudo Difensivo del 2002 che soffocò non solo la Seconda Intifada ma la resistenza palestinese in generale. 
Da allora, e in particolare durante il quarto governo Netanyahu, cominciato nel 2015, il processo di ebraizzazione è stato completato. Gerusalemme Est è stata formalmente annessa allo Stato di Israele, i "blocchi” di insediamenti che frammentano la Cisgiordania stanno per esserlo, Gaza è stata separata di fatto dalla Cisgiordania, del diritto al ritorno [per i profughi palestinesi, ndtr.] non si parla neppure più. In complesso, gli abitanti palestinesi della Palestina storica rappresentano il 50% dei suoi abitanti ma sono confinati nel 10% della terra, in decine di enclave separate. A meno che non venga imposta a Israele una decolonizzazione forzata, il sionismo ha raggiunto il suo obbiettivo principale: trasformare la Palestina nella Terra di Israele.
5) Verso il superamento del colonialismo: un solo Stato democratico. Se si usa il concetto di colonialismo di insediamento, solo un processo di decolonizzazione può portare alla fine reale del colonialismo, a una soluzione politica che affronti le strutture fondamentali e i meccanismi del dominio, non solo i suoi sintomi. Solo se c’è una decolonizzazione completa si può realizzare la riconciliazione tra indigeni e coloni, e tutti e due i popoli possono andare avanti verso la realizzazione di una società civile comune. È l’unico processo che può porre fine a una situazione di colonialismo di insediamento senza che i coloni se ne vadano.
 
Verso la decolonizzazione
Esistono pochi modi per porre fine a una colonizzazione di insediamento. I coloni possono andarsene fisicamente restituendo il paese agli indigeni. È accaduto in situazioni in cui la riconciliazione si è dimostrata impossibile e il dominio dei coloni è risultato insostenibile: i britannici in Irlanda, in Kenia, in Rhodesia; i francesi in Algeria; i portoghesi in Angola e in Monzambico; i sudafricani in Namibia. Altrimenti o i coloni riescono ad eliminare gli indigeni, come gli spagnoli in Argentina, o riescono a ridurli in una posizione marginale all’interno del sistema politico indipendente dei coloni, come in Brasile, Messico, gran parte dell’America Latina, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda. I coloni possono anche stabilire un sistema politico indipendente senza riuscire a sconfiggere definitivamente gli indigeni, che restano e costituiscono un elemento destabilizzante, lasciando aperta la possibilità di porre fine al dominio dei coloni. Il colonialismo di insediamento degli israeliani in Palestina è un tipico esempio di questa situazione instabile, come lo erano il Sudafrica prima della fine dell’apartheid e l’Irlanda del Nord prima della fine dei "Troubles” [lett.: disordini, termine con cui viene indicato il conflitto tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, ndtr.] (che devono ancora trovare una soluzione definitiva).
Nel caso di Israele e dei palestinesi, solo un processo di decolonizzazione riuscito e una riconciliazione tra indigeni e coloni può porre fine al "conflitto” (termine che i palestinesi respingono perché indica uno scontro tra due "parti” in guerra e non l’imposizione unilaterale di un regime coloniale repressivo). Il "processo di pace” dell’ultimo mezzo secolo si è limitato a cercare qualche formula pragmatica di compromesso. I palestinesi, nella loro debolezza politica, si sono adattati a subirlo. Negli ultimi trent’anni c’è stata sul tavolo un’ offerta estremamente generosa: noi, la popolazione indigena, non solo siamo disposti a riconoscere la vostra sovranità sul 78% della nostra patria storica, ma normalizzeremo anche i nostri rapporti con voi e faremo in modo che lo faccia anche il mondo mussulmano in generale. Ma, sottomettendosi a un "processo di pace” basato sui rapporti di forza e non sulla legalità internazionale, i diritti umani, la giustizia e la decolonizzazione, i palestinesi hanno dovuto accettare "compromessi” sempre più umilianti, fino a sottomettersi a un regime di apartheid. Questo processo ha indotto Israele a considerare l’accordo coi palestinesi come un gioco a somma zero, che Israele crede di aver vinto.
Soltanto un processo di giustizia-e-pace basato sulla decolonizzazione può realizzare un accordo politico che affronti i temi più profondi implicati e dia alle richieste della parte indigena, che è più debole, il peso morale maggiore, oltre al pari peso politico e alla pari visibilità. Cosa ci vorrebbe allora per decolonizzare veramente la Palestina? Cosa ci vorrebbe per un accordo, se non proprio una riconciliazione, tra gli indigeni e i coloni?
Bisogna disfare il "patto di insediamento” in base al quale i coloni hanno convenuto di essere legittimati a colonizzare il paese. Questo aprirebbe lo spazio per fare l’atto più pericoloso per loro: riconoscere la presenza sovrana del popolo indigeno e il suo diritto all’autodeterminazione. È questo atto che rende possibile il "patto” costituzionale: la legittimazione della presenza dei coloni in cambio dei diritti degli indigeni.
Bisogna realizzare il diritto dei palestinesi a tornare nel loro paese e, nella misura in cui è possibile, nei luoghi da cui sono stati scacciati. I rifugiati -sia quelli deportati all’interno che gli esiliati- devono poter ricostruire le loro vite ed essere pienamente reintegrati nella società, nell’economia e nel sistema politico del paese.
Bisogna costruire un regime democratico in cui alla comune cittadinanza, alla parità dei diritti civili, alla giustizia riparativa e alle forme collettive di associazione culturale e religiosa si unisca il riconoscimento dei crimini coloniali passati e la concessione ai coloni di un processo di riconciliazione.
Gli indigeni devono essere "rimessi al loro posto” nella storia. Bisogna riempire il "vuoto narrativo” per cui la storia degli indigeni era ignorata, non riconosciuta, contro intuitiva, minacciosa, repressa, combattuta dalla popolazione coloniale dominante. Quel "vuoto” ha reso invisibile la lotta anticoloniale degli indigeni, negando il fatto stesso del colonialismo di insediamento. Mentre parte della storia dei coloni può essere integrata in un quadro più completo, alcuni elementi vanno cancellati: la storia dei coloni che arrivano in una terra desolata, vuota di abitanti e di storia e degli indigeni violenti, primitivi, illegittimi, opposti ai coloni "civili”. Bisogna de-ebraicizzare la storia della Palestina.
Le strutture e i meccanismi del domino devono essere smantellati (de-ebraicizzazione): in particolare il governo della popolazione, della terra, i controlli militari e di sicurezza, il governo dei diritti. Bisogna decolonizzare la testa -degli indigeni e dei coloni.
 
Verso un piano politico
[…] Dobbiamo tradurre i requisiti per la decolonizzazione in un piano politico, in una visione del futuro e in una strategia politica per raggiungerlo.
La Campagna per uno Stato unico democratico (Csud, o Odsc con le iniziali inglesi) un gruppo di palestinesi e di ebrei israeliani con cui mi sono impegnato durante lo scorso anno ha formulato dieci punti per costruire un unico Stato democratico fondato sulla decolonizzazione nella Palestina storica:
1) Un’unica democrazia costituzionale. Bisogna costituire uno Stato Unico Democratico tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, un Paese che appartenga a tutti i suoi cittadini, inclusi i rifugiati palestinesi in grado di tornare alla loro terra natale. Tutti i cittadini avranno gli stessi diritti, la stessa libertà e la stessa sicurezza. Lo Stato sarà una democrazia costituzionale, con l’autorità di governare e legiferare che emana dal consenso dei governati. Tutti i cittadini avranno lo stesso diritto di votare, di candidarsi per le cariche elettive e di partecipare al governo del Paese.
2) Diritto al ritorno, alla restituzione, al reinserimento nella società. Lo Stato unico democratico applicherà integralmente il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi espulsi nel 1948 e in seguito, sia che vivano all’estero sia che vivano in Israele o nei territori occupati. Lo Stato li aiuterà a tornare nel loro Paese e nei luoghi da cui sono stati espulsi. Li aiuterà a ricostruire le loro vite e a reinserirsi pienamente nella società, nell’economia e nel sistema politico. Lo Stato farà quanto è in suo potere per restituire ai rifugiati le loro proprietà private e comuni o per risarcirli.
3) Diritti individuali. Nessuna legge, istituzione o pratica dello Stato può discriminare tra i cittadini in base all’origine nazionale o sociale, al colore, al genere, alla lingua, all’opinione politica o all’orientamento sessuale. Un’unica cittadinanza conferisce a tutti i residenti dello Stato il diritto alla libertà di movimento, il diritto a risiedere ovunque nel Paese, uguaglianza di diritti in tutti i campi.
4) Diritti collettivi. Nel quadro di uno Stato unico democratico, la Costituzione proteggerà anche i diritti collettivi e la libertà di associazione, nazionale, etnica, religiosa, di classe e di genere. Le garanzie costituzionali assicureranno che tutte le lingue, le arti, e la cultura possano fiorire e svilupparsi liberamente. Nessun gruppo o collettività sarà privilegiata e nessuna avrà la possibilità di assicurarsi il controllo o il dominio sulle altre. Il parlamento non avrà l’autorità di emanare leggi che discriminino gruppi o collettività, secondo la Costituzione.
5) Immigrazione. Saranno previste normali procedure per ottenere la cittadinanza per quelli che scelgono di immigrare nel Paese.
6) Costruzione di una società civile condivisa. Lo Stato favorirà la nascita di una società civile vitale costituita di istituzioni civili comuni, in particolare educative, culturali ed economiche. Accanto al matrimonio religioso, lo Stato prevederà il matrimonio civile [che attualmente in Israele non esiste, ndtr.].
7) Economia e giustizia economica. La nostra visione cerca di raggiungere la giustizia, inclusa la giustizia sociale ed economica. La politica economica deve affrontare decenni di sfruttamento e discriminazione che hanno creato grandi differenze socio-economiche tra coloro che vivono nel Paese. La distribuzione del reddito in Israele/Palestina è la più diseguale tra i Paesi del mondo. Uno Stato che cerca la giustizia deve sviluppare una politica economica redistributiva creativa e di lungo periodo per assicurare che tutti i cittadini abbiano uguali opportunità di raggiungere l’istruzione, un lavoro produttivo, la sicurezza economica e un livello di vita dignitoso.
8) Impegno per i diritti umani, la giustizia e la pace. Lo Stato rispetterà le leggi internazionali e cercherà la risoluzione pacifica dei conflitti attraverso il negoziato e la sicurezza collettiva, in accordo con la Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato firmerà e ratificherà tutti i trattati internazionali sui diritti umani, rigetterà il razzismo e promuoverà i diritti culturali e politici secondo le risoluzioni dell’Onu in materia.
9) Il nostro ruolo nella regione. La Campagna per lo Stato unico democratico si unirà a tutte le forze progressiste del mondo arabo che lottano per la democrazia, la giustizia sociale e una società egualitaria, libera dalla tirannia e dal dominio straniero. Lo Stato cercherà di realizzare la democrazia e la libertà nel Medio Oriente, nel rispetto delle sue molte comunità, religioni, tradizioni e ideologie che si battano per l’eguaglianza, la libertà di pensiero e l’innovazione. Raggiungere un accordo politico giusto in Palestina, seguito da un rigoroso processo di decolonizzazione, contribuirà in maniera significativa a questi sforzi.
10) Responsabilità internazionale. A livello globale, la Campagna per lo Stato unico democratico si considera parte delle forze progressiste che lottano per un ordine globale alternativo, cioè giusto, egualitario, libero dall’oppressione, dal razzismo, dall’imperialismo e dal colonialismo.
(traduzione a cura di Francesco Ciafaloni)