Riguardo al titolo: ovviamente è nostro e sarà pure infelice. Riguardo al modo di far l’intervista: è vero, noi non incalziamo mai l’intervistato; anni fa un’amica del Manifesto, riferendosi a un’intervista assai provocatoria, disse che si vedeva benissimo dalle domande che l’intervistatore era rimasto sdraiato durante tutta l’intervista. Può essere vero che ci “sdraiamo”. E può essere che questo dipenda da una certa codardia da dilettanti, dovuta alla scarsa padronanza degli argomenti. Però, come per fortuna a volte capita, un difetto può poi diventare un pregio. E pensiamo che questo modo di fare l’intervista, volto esclusivamente a far venire fuori al meglio, al “suo meglio”, il punto di vista dell’intervistato, abbia dato in questi anni buoni risultati. Si potrebbe dire: ma è proprio incalzando l’intervistato che si può raggiungere meglio quell’obiettivo. Può darsi ma può anche darsi di no.
Riguardo a una qualche “opportunità” dell’intervista teniamo a ribadire (ma questo lo diciamo in generale, per scrupolo, non per polemica con gli amici che ci scrivono, che non sembra ci rimproverino a tal proposito) di aver sempre voluto evitare qualsiasi preoccupazione “pedagogica” del tipo: “Si rischia di essere fraintesi”, “il pubblico non è preparato” o, peggio: “Si porta acqua al mulino degli altri” (vien sempre in mente la frase di Sartre, a proposito dell’eventualità di andar a raccontare agli operai gli orrori dello stalinismo: “Non portiamo disperazione a Billancourt”). Ora, i fatti sono fatti e qualsiasi autocensura, sia pur operata paternalisticamente a fin di bene, è antidemocratica perché usurpa un diritto di tutti, quello alla pubblicità, e considera l’altro un minore, bisognoso di tutela. A Billancourt bisogna andare a dire proprio tutto; sempre, comunque.
Riguardo all’intervistato, infine: nell’intervento che pubblichiamo corrono anche parole grosse, come razzismo e negazionismo, che andrebbero usate con una certa prudenza, perché sono infamanti, e dalla critica anche durissima delle argomentazioni di uno scritto si passa quindi alla condanna della persona, delle sue idee e della sua storia. Allora, però, come minimo, bisogna saperne di più. Diciamo solo questo: Ephraim Kleiman è stato uno dei primi in assoluto a pubblicare in Israele uno scritto in cui si denunciava che nel 48 c’era stata un’espulsione programmata dei civili palestinesi. Questo ben prima dei “nuovi storici” e quando in tutto il mondo si radicava l’idea, complici anche tanti ebrei di sinistra, che i palestinesi fossero venuti via quasi solamente su incitazione dei leader dei paesi arabi. Non c’è male per un sospetto negazionista.
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Detto questo passiamo a contraddirci e a tacciare di razzismo qualcuno.
Abbiamo visto in tv una trasmissione dove Giuliano Ferrara e Carlo Panella avrebbero dovuto discutere con Khalida Messaoudi, invitata a partecipare da Algeri. Per tutta la trasmissione Khalida non è riuscita a dire le sue ragioni, la sua voce è stata sovrastata, interrotta, ma quel che è peggio è che ogni volta che pronunciava la parola democrazia, un regista, furbo o servile poco importa, sicuramente maleducato, inquadrava i visi dei due che sogghignavano con sufficienza. Il fatto è che era già capitato, quando avevano invitato dei palestinesi democratici. Anche quella volta il Panella non faceva che sorridere e scuotere la testa. Lì poi capitò anche di peggio: quando uno dei palestinesi, prendendo la parola per la prima volta, citò il muro, Ferrara gliela tolse dicendo che andava fuori tema, quasi avesse davanti un ragazzino di scuola media. E anche lì il regista, con un certo sadismo, ritornò a inquadrare spesso, per tutto il resto della trasmissione, il viso un po’ impacciato del professore universitario che non potè più aprire bocca. Questi, poi, ci disse, sorridendo con una certa serena superiorità: “Non angustiatevi, ci siamo abituati”. A El Sarraj, palestinese che da psichiatra affermato a Londra se n’è tornato a vivere a Gaza per esercitare la professione fra i giovani palestinesi traumatizzati e fra quelli affascinati dal richiamo islamista, e che lì è s ...[continua]
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