Di fronte alla tragicità del momento storico in cui viviamo e di fronte al pericolo del cosiddetto scontro di civiltà che rischia di divenire una profezia che si autoavvera, come ebrei riteniamo nostro dovere mobilitarci per dare il nostro apporto alla costruzione di una convivenza tra popoli e religioni che richiami l’origine comune dell’esperienza umana, schierandoci contro la strumentalizzazione a fini di potere di versioni riduttive e chiuse delle proprie e altrui culture e religioni.
In particolare, ci appelliamo a quella “sinistra ebraica” italiana che, soprattutto dagli anni ’80, si mobilitò per la fine della prima “avventura militare in Libano” dell’esercito israeliano e poi sviluppò significative iniziative di dialogo con i palestinesi residenti in Italia e di appoggio al “campo della pace” israeliano. Questa azione procurò nell’ebraismo italiano una svolta che ebbe anche i propri frutti nella gestione dei suoi organi dirigenti con la predominanza di quella stessa sinistra. La situazione oggi appare ribaltata, con la destra ebraica che governa l’Unione delle comunità e in particolare le comunità più significative come quella di Roma e Milano. Ciò appare il risultato di un indebolimento della “spinta propulsiva” della sinistra ebraica che sempre più, in rapporto alle scelte politiche del governo israeliano, sembra essersi allineata alle parole d’ordine della destra che approva d’ufficio qualsiasi scelta di qualsiasi governo israeliano. Questa posizione rischia di mettere in discussione un caposaldo dell’identità plurale ebraica, in cui l’ebreo diasporico deve essere ben distinto dall’israeliano, perché trasformare il legame con Israele in un’appartenenza sostanziale non può che ingenerare confusione e indirettamente favorire chi, in chiave antisemita, questa distinzione ha sempre ignorato. Serve un ritorno alla specificità e alle radici di un impegno ebraico di sinistra. Per far questo, occorre ricominciare a riflettere su alcuni temi chiave dell’identità ebraica oggi, a partire dal sionismo, abbandonando le sterili polemiche tra sionisti e antisionisti; e riconsiderare la realtà effettiva dello Stato ebraico in modo da trarne elementi di valutazione al di là dei miti basati su coinvolgimenti soprattutto emotivi e su meccanismi psicologici di difesa.

Si è spesso detto che il sionismo era un movimento laico con una componente d’ispirazione socialista, laica e libertaria, contigua al socialdemocratico Bund, cui si aggiungeva una minoranza d’ispirazione nazionalista. Vero, ma con una differenza fondamentale: mentre il Bund lottava “qui e ora” contro l’antisemitismo cercando di organizzare le masse ebraiche, il sionismo teorizzava il ritorno degli ebrei alla “terra promessa”, pur avendo in certi momenti preso in considerazione altri progetti però presto accantonati. Tale richiamo biblico -oltretutto in una versione terribilmente semplificata e mondata di tutti i commenti che i maestri avevano elaborato intorno a questa promessa negli anni della diaspora- insieme all’idea della costruzione dell’ebreo nuovo, forte e combattivo, da contrapporre all’ebreo “molle” e pavido della diaspora, introduceva nella visione del sionismo, anche in quello d’ispirazione socialista e libertaria, un elemento forte di nazionalismo e militarismo e nello stesso tempo un tabù che mal si conciliavano con la sua visione laica e socialista. Inoltre questi elementi si sono consolidati proprio grazie al fatto che Israele fu considerato il simbolo della rinascita ebraica dopo la Shoà, e ne hanno determinato le scelte successive a partire dalla sua fondazione nel ’48 con tutto ciò che ha comportato.

Fino a oggi, salvo rare eccezioni, gli ebrei della diaspora hanno continuato a considerare Israele nella suddetta luce, e a vedere nella sua sopravvivenza in quanto tale la garanzia della propria stessa possibilità di sopravvivenza, senza tenere in gran conto che la realtà israeliana è ben più complessa della sua idealizzazione. Israele, infatti, non è solo e “assolutamente” lo Stato degli ebrei ma uno Stato che come tutti gli altri ha dinamiche materiali che rimandano a interessi non meramente riconducibili a quelli dell’ideale comunità mondiale ebraica. Tali interessi sono inseriti in una geopolitica particolare, dettati, da un lato, da alleanze internazionali con risvolti non trascurabili - e certamente discutibili- a livello globale e, dall’altro, dallo sviluppo della propria popolazione, anche se, come dappertutto, ...[continua]

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