Serena Padovani
Il 23 maggio scorso, l’Otello di Shakespeare è stato rappresentato nel carcere di Prato, davanti a un pubblico molto numeroso (almeno 200 spettatori), con la regia di Livia Gionfrida e con la scenografia, coreografia e costumi di Alice Mangano. La giovane regista ha voluto la partecipazione di due attrici, Alessia Brado e Ilaria Cristini, che impersonavano Desdemona e la sua cameriera Emilia (moglie di Iago), e di 15 detenuti di varie nazionalità: Otello era un marocchino, Cassio era un tunisino; Iago era un albanese; Rodrigo era un brasiliano; Brabanzio era un americano di California; il Doge di Venezia era un polacco; il narratore-animatore era un congolese. Le comparse che arricchivano e completavano le scene erano italiani, albanesi, marocchini, tunisini, polacchi, nigeriani.
La storia dell’amore fra il moro Otello, valoroso generale al servizio della repubblica di Venezia, e la bella Desdemona, figlia del senatore Brabanzio, è stata raccontata con una totale assenza di mezzi. Senza costumi di scena, le due attrici e i detenuti si presentavano in un moderno abbigliamento quotidiano.
Senza quinte o palcoscenico o sipario, gli attori si muovevano sul pavimento di cemento della grande palestra quadrata, completamente vuota, a eccezione dei sostegni dei due canestri alle estremità: su quelle strutture Otello e Iago si sono issati con controllata disinvoltura da acrobati professionisti recitando con impeccabile eleganza nelle posizioni più incredibili (anche a testa in giù) il loro dialogo centrale per la trama della tragedia. Unico elemento unificante e animatore, sorgente di infinite trovate brillanti e divertenti: l’acqua, allusiva al luogo della storia, la laguna di Venezia.
Il narratore accoglieva il pubblico con la distribuzione di bottigliette d’acqua che avevano sull’etichetta stampato il programma dello spettacolo; il duetto d’amore di Otello e Desdemona consisteva nello sputarsi addosso getti d’acqua da una bottiglia ciascuno; l’insinuarsi della gelosia nell’animo di Otello era simboleggiato dalle comparse: animali ipocriti e maligni, prima compassionevoli poi ironici e infine esplosi in una risata volgare accompagnata dal gesto delle corna, saltavano intorno e dietro di lui sul pavimento bagnato; Desdemona uccisa da Otello era portata fuori dalla camera nuziale con il volto coperto dal simbolico fazzoletto, sulla bara fatta di un carrello in uso nel carcere, pieno di taniche d’acqua. Intorno alla bara d’acqua, schierate lungo il perimetro della palestra verso gli spettatori, ne "commentavano” la morte le comparse che, munite di maschera e occhialini, tuffavano la testa ciascuna in un secchio d’acqua; fino all’esplosione finale, quando tutti si rovesciavano addosso le taniche d’acqua, in un liberatorio bagno generale.
Delle non molte iniziative possibili e realizzate in carcere per la "rieducazione”, fare teatro è, giustamente, una delle attività meglio organizzate e più seguite in tutta Italia, con punte di eccellenza ben note. Io comincio a conoscere un poco soltanto la realtà del carcere di Prato, e non solo ritengo doveroso, ma mi dà grande gioia e soddisfazione segnalare l’evento a cui ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere alla Dogaia.
La regista e gli attori ci hanno regalato una serata memorabile, piacevolissima e densa di messaggi, come ha detto a fine spettacolo il direttore del carcere, Vincenzo Tedeschi, sottolineando la validità della proposta: aver reso attuale, moderno, vivo, il testo di Shakespeare. È vero. La storia di Otello, scritta all’inizio del Seicento, dice cose profonde e terribilmente attuali, tocca temi fondamentali della vita umana, eternamente validi: l’amore, l’odio, la gelosia, l’invidia, la stupidità, la corruzione, la delazione, il tradimento, il razzismo, la violenza sulle donne.
Rappresentare tutto ciò con intelligenza e rigore e proporlo in carcere dove si va a finire per le conseguenze estreme di quei sentimenti e di quelle passioni, ha acquisito un’intensità straordinaria. Con questo Otello, la regista e gli attori (tutti, senza eccezioni) hanno realizzato uno spettacolo di un livello di qualità tale da aver eliminato le sbarre e aver coinvolto tutti, con leggerezza ironica e brillante, in una riscoperta catartica di noi stessi.

Thekla Clark
Non era il Globe Theatre di Londra, ma la palestra della Casa Circondariale di Prato. Shakespeare non c’era, ma avrebbe apprezzato questo dramma del dubbio, del tradimento e della disperazione tanto quanto l’ha fatto, con vivo entusiasmo, il pubblico presente. Le lodi vanno innanzitutto a Livia Gionfrida e ai suoi assistenti, volontari di talento e pieni di immaginazione, che non hanno mai perso di vista l’originale. Molto facile è fare critiche intelligenti e sardoniche, molto più difficile tessere delle lodi. Tanto che mi scopro intenta a cercare critiche da avanzare. L’acustica era ben lungi dalla perfezione, c’era una leggera eco, l’illuminazione era irregolare, e sì, a volte era difficile seguire l’accento di qualche attore. Ecco, questo è tutto ciò che sono riuscita a trovare. Tutto è iniziato con l’attore congolese che distribuiva bottigliette d’acqua al pubblico. Aveva la grazia del ballerino professionista, di un danzatore molto bravo. Poi eccoci a Venezia e alla sua laguna, dove l’acqua veniva distribuita generosamente e con eleganza da carrucole caricate con enormi bottiglie. Lo Iago ("Io non sono quello che sono”), interpretato in maniera tanto brillante e sinistra da un albanese, ha esercitato le proprie astuzie su un poco disposto Rodrigo, e dichiarato in versi il proprio amore per Desdemona attingendo dalla scena del balcone di Giulietta. Otello stesso, il militare disabituato ai cosiddetti "modi civili” dei cortigiani ("Sono rude nel parlare e conosco assai poco la dolcezza delle frasi di pace”), appare dubbioso e vulnerabile. La scelta di un taciturno, bellissimo marocchino è parsa azzeccata per questa interpretazione. Non era questi un "ariete nero che monta la pecora bianca”, ma un uomo travagliato. Desdemona si mostra fragile e dal destino già segnato; suo padre, l’americano, dignitoso e convincente. I momenti speciali per me: l’ingresso delle bestie selvagge che conducono Otello alla follia; le prove atletiche di Iago e Otello, ciascuno vicino a un canestro ai due capi della palestra. Ma, più di tutto, la squisita collaborazione e il palese divertimento dell’intero cast.

Da me, Iago, il cattivo
Amleto, Macbeth, Otello...: amore, potere, soldi, gelosia, invidia, omicidio, violenza, donna, uomo, vita, morte, visti da Shakespeare. Questi sono gli ingredienti di un carcere che va oltre le sbarre, va oltre il pregiudizio, va oltre il dolore... Io che vi scrivo sono un detenuto del carcere di Prato, dove da sette anni frequento il corso teatrale "Metropopolare”. In questo tempo abbiamo affrontato la trilogia shakespeariana: "Amleto”, "Macbeth” e ora "Otello”. È stato proprio "Otello” l’opera che ha regalato a me e ai miei compagni, un gruppo di 15 detenuti attori, delle emozioni indescrivibili, uniche, meravigliose. Grazie al loro lavoro fantastico, la regista Livia Gionfrida, la scenografa Alice Mangano e le attrici Ilaria Cristini e Alessia Brado ci hanno permesso di sentirci, la sera del 23 maggio, uomini liberi. Sì, perché proprio quella sera, al di là delle mille difficoltà superate con infinita dedizione da parte di tutti i protagonisti, abbiamo visto le lacrime negli occhi degli spettatori... una cosa che può succedere anche in carcere. Era impossibile non condividere quelle lacrime. Ma naturalmente la serata è stata solo la fase finale di un percorso. Il lavoro per la realizzazione di "Otello” ci ha permesso di abbattere le nostre barriere. Analizzando i personaggi e immergendoci nella loro personalità e nella loro vita, abbiamo potuto capire perché Iago aveva dentro tutta quella cattiveria, perché ha usato tutti gli altri per il suo scopo diabolico, trattando come un cane persino sua moglie; perché Otello ha ucciso l’amore della sua vita, lasciandosi ingannare dal perfido Iago; perché non ha saputo sconfiggere la gelosia e uscire da quella trappola... E così, la preparazione dello spettacolo ci ha permesso di vedere dentro di noi, di capire perché ciascuno di noi ha sbagliato e di analizzare a fondo i nostri sbagli. Siamo in carcere e la maggior parte di noi è colpevole, qualcuno anche di reati gravi. Non è facile rendersi conto davvero dello sbaglio commesso. Però, con l’amore, l’amicizia, la pazienza delle persone che ci sono state vicine, si può fare. Questo lavoro teatrale ha dato tanto a ciascuno di noi. E poi, arrivati a portare lo spettacolo di fronte al pubblico, credetemi, vedere mentre si recita un bambino che ci guarda, o una sconosciuta signora anziana che si commuove, ci dà una soddisfazione unica; per certi versi ti senti ripagato e per qualche istante sollevato dal peso dei pensieri soliti. Per qualche istante, un uomo di 30 anni si ferma e pensa che magari c’è un’alternativa a quella vita senza senso di sette anni fa... che si può essere capaci di regalare e di regalarsi delle emozioni indimenticabili. Sono venuto in questo gruppo per scherzo, per ammazzare la noia carceraria. Ma ormai sento che quest’esperienza fa parte di me, e ogni settimana non vedo l’ora che arrivi il mercoledì, quando l’agente ti chiama per scendere al corso teatrale. È davvero importante ed è segno di un carcere che funziona consentire e promuovere un’iniziativa come questa, che ti dà la possibilità di riflettere e, per una sera, di sentirti libero, anche se con la consapevolezza che finito lo spettacolo ti aspetta una cella buia, senza affetto, senza amore. Vorrei ringraziare Livia, la nostra regista, che ci dà la possibilità di far parte di questo gruppo e ci guida nel nostro impegno con la sua serietà e la sua umanità.
E grazie ad Ale, alla nostra scenografa Alice Mangano, che con le sue invenzioni illumina il nostro palcoscenico e i nostri cuori. Infine, vorrei ringraziare tutti i miei compagni, uno a uno. Anche se di colori diversi, di lingue diverse, di religioni diverse, siamo riusciti in questi anni a essere un gruppo, in grado di regalarci una sera fantastica come quella del 23 maggio. Noi siamo qui, e al prossimo spettacolo spero che ci sarete anche voi, per sentirci ancora tutti liberi... Un saluto dal carcere di Prato.

R. R. Do Brasil
Quest’occasione che ci è stata data è molto importante, il teatro è una disciplina che ci permette di dimenticare il posto dove ci troviamo, e di essere altro che un detenuto. Il teatro ci permette di essere qualsiasi cosa, da una scimmia a un generale veneziano, di socializzare anche con i nostri compagni detenuti sparsi in sezioni diverse, e con le persone esterne che vengono ogni settimana ad allenarci ed insegnarci le tecniche teatrali.
Grande è stata l’attesa, e il 23 Maggio è stato per noi un grande giorno, quando abbiamo fatto lo spettacolo davanti ad un numeroso pubblico esterno. C’erano all’incirca 200 persone, fra le quali diverse personalità: autorità varie, attori professionisti, critici, studenti universitari. E c’erano anche dei bambini.
È stato molto emozionante, ce l’abbiamo fatta. È andato tutto nel verso giusto, siamo stati bravi ! E alla fine non è restato che ricevere gli applausi. Tutti in piedi ad applaudirci, gioia, commozione, lacrime. Una serata magica che ha ripagato i nostri sforzi, le nostre incertezze e tutte le difficoltà che abbiamo affrontato lavorando duramente alla preparazione dello spettacolo.
Il messaggio è stato dato. Ecco, siamo persone normali come tutti gli altri, siamo capaci di emozionare, di far ridere e anche di far riflettere. E di riflettere. Siamo qui e siamo vivi.
Grazie a tutti.