Enrico Deaglio, torinese, dal 2012 risiede a San Francisco. Si occupa di mafia da quarant’anni. Nel 2021 è stato consulente della Commissione antimafia della Regione Sicilia sul depistaggio del delitto Borsellino, diretta da Claudio Fava. Ha raccontato storie di mafia con Il figlio della professoressa Colomba, Sellerio, 1992, Raccolto rosso, Feltrinelli, 1993, Il vile agguato, Feltrinelli, 2012, Indagine sul Ventennio, Feltrinelli, 2014 e la trilogia di Patria, La bomba, Cinquant’anni di Piazza Fontana, Feltrinelli. Il libro cui ci si riferisce nell’intervista è Qualcuno visse più a lungo, Feltrinelli, 2022.

Il tuo ultimo libro è avvincente come un grande libro giallo, ma purtroppo racconta cosa è successo in Italia negli ultimi quarant’anni a proposito di mafia e quant’altro ed è sconvolgente. Già dieci anni fa avevi pubblicato un libro incentrato sull’omicidio di Borsellino e sul depistaggio delle indagini, che in qualche modo resta al centro anche di questo tuo ultimo.
Premetto che seguo da quarant’anni questi avvenimenti, diciamo che come giornalista la mafia e tutto il resto è la mia area di intervento. Ora, mi ero stupito che a un certo punto, nel 2009 più o meno, fosse venuto fuori questo Spatuzza, così dal nulla, a raccontare di essere stato lui a fare l’attentato e che Scarantino, in galera da anni per via d’Amelio, non c’entrava nulla. Tutti e due, Scarantino e Spatuzza erano stati arrestati da tempo, il primo nel 1992, il secondo nel 1997, quindi erano passati poco meno di vent’anni. Spatuzza, nei primi verbali che vennero resi pubblici, diceva che un ruolo importante, nella strage di via D’Amelio, l’aveva avuto un certo Vitale, un inquilino della casa scoppiata che, quella domenica mattina, aveva portato via tutta la famiglia e soprattutto aveva spostato la sua macchina dal parcheggio per far posto alla famosa 126. E allora mi ricordai che in quei giorni della strage il mio amico Bebo Cammarata, con cui collaboravo -a quei tempi lavoravo sia per la televisione che per “La stampa”- mi aveva accennato a questo Vitale “che in qualche modo c’entrava”: era una storia di scuderie e cavalli, in cui si incontravano la Palermo bene e la Palermo di Cosa Nostra. All’epoca io mi ero già trasferito negli Stati Uniti, ma proposi lo stesso alla Feltrinelli di scrivere un librettino al volo su questa cosa qui, e uscì Il vile agguato, in cui raccontavo l’assurdità di tutte le indagini che avevano seguito via D’Amelio, compreso il fatto che questo Vitale non fosse mai stato interrogato, che avessero lasciato cadere tutte le piste e soprattutto che nei cinquantacinque giorni che separano l’uccisione di Falcone da quella di Borsellino, quest’ultimo avesse avuto innumerevoli annunci di quello che stava per succedere. Insomma, era il delitto più annunciato che ci fosse stato. Il libro uscì nel 2012 ed ebbe anche un buon successo. Lì chiedevo: qualcuno riesce a dare una spiegazione di questo depistaggio? La vulgata generale era che sì, c’era stato un depistaggio, ma perché il commissario La Barbera, che gestiva tutte le indagini, aveva -la definirono così- un’ansia di prestazione a fronte di un paese in uno stato pressoché comatoso.
In effetti stava crollando la Borsa, stavano crollando i partiti per Mani pulite, stava crollando la politica, l’economia, insomma stava crollando l’Italia e bisognava trovare subito qualcosa. E lui trovò questo Scarantino, un ragazzo, si disse, che aveva rubato la macchina e via dicendo. Ma per rassicurare l’opinione pubblica il risultato grosso da raggiungere era la cattura di Riina e così fu. Riina venne arrestato nel gennaio ’93 e tutti gridarono: “Vittoria, vittoria, la mafia è finita, hanno preso il capo”. Solo che poi, invece, ci sarà una coda di tutta questa vicenda, che sono le bombe del ’93, a Firenze, a Milano, a Roma, e si scoprirà che c’erano stati anche tanti altri episodi più piccoli che all’epoca non erano stati neanche considerati, ma che avevano creato un’aria di trame eversive, di colpo di stato. Il fatto più grave fu il black-out che ci fu a Palazzo Chigi, dove saltarono le linee telefoniche, e la macchina piena di esplosivo che trovarono lì davanti. Insomma, questo era il clima.  
L’altra cosa che mi aveva interessato era la scoperta che tutta la storia di Scarantino era stata un’impostura. Dieci anni dopo la morte di Borsellino, nel ’92, viene fuori questo Spatuzza che dice: “Sono stato io a piazza D’Amelio, non solo, sono quello che ha messo le bombe in continente”, il che, insomma, cambiava molto. Ebbene, non ci fu una particolare levata di scudi, nessuno si stupì più di tanto. “Ah, va beh, non è stato Scarantino, ci siamo sbagliati, è stato Spatuzza”... Ma poi Spatuzza subito dopo tirò fuori che i suoi capi erano questi fratelli Graviano che erano in rapporti d’affari con Berlusconi e lì, allora, la cosa cominciò a diventare torbida. Non so se ti ricordi, ma Spatuzza disse proprio: “Io mettevo le bombe perché erano gli industriali del nord, era Berlusconi che ce l’aveva ordinato”.
Così sono andato avanti nella ricerca. Mi aveva colpito che questo Spatuzza fosse stato arrestato a Palermo nel ’97, quindi solo cinque anni dopo le stragi, e di lui non si era saputo mai niente, era uno dei tanti, non fece neanche notizia, mentre lui, in ­realtà, parlò subito, appena arrestato, ma la cosa venne tenuta segreta per una dozzina d’anni! E alla Procura nazionale antimafia, che lo andò a trovare nel carcere speciale, lui non solo confessò tutta la cosa, ma raccontò molto di più. E allora cominciò praticamente una trattativa fra Vigna, quello di Firenze, del mostro di Firenze, che era il Procuratore nazionale antimafia, e Piero Grasso, il suo vice, e Spatuzza, su cosa poteva ottenere se diceva quello o quell’altro. Praticamente si è scoperto che la Procura nazionale antimafia, già nel ’97, ma secondo me da prima ancora, era al corrente che tutta la pista Scarantino era una bufala totale. E se ne stette zitta. Se ne stette zitta mentre restavano in galera una quindicina di persone, accusate da Scarantino, che erano innocenti! Io nel libro, quest’ultimo, ho messo in appendice la registrazione del colloquio investigativo che ci fu. È un documento di ottanta pagine, da cui si vede che tutti sapevano tutto. E hanno lasciato correre. C’era chiaramente un coinvolgimento da parte della magistratura, ma anche della politica, perché non è pensabile che una cosa del genere non fosse nota ai governi che si erano succeduti, non fosse nota al capo dello Stato, ai servizi… Quindi eravamo di fronte a un grande inganno che andava avanti da vent’anni.
Così ho cominciato a interessarmi della vicenda in termini generali. Ho scritto diversi articoli con un po’ di notizie e un po’ di attenzione su questo tema l’avevo ricevuta. Sono stato chiamato a testimoniare in commissione antimafia da Rosi Bindi, e poi dall’ultima istituzione che ha seguito questa vicenda, che è la commissione antimafia della Regione siciliana, presieduta da Claudio Fava, che mi ha chiamato ufficialmente come consulente. Da tutte queste esperienze è nato questo secondo libro.
Nel libro, una delle figure centrali è il commissario Arnaldo La Barbera, che fu il primo grande depistatore, un personaggio a dir poco inquietante... La presunta ansia da prestazione è verosimile?
Ma no, non ci fu alcuna ansia di prestazione! La Barbera, per il fatto di aver scoperto l’assassino e aver risolto il caso, fece una carriera strepitosa. Già è una bella stranezza che fossero stati dati pieni poteri nelle indagini a un capo della Squadra mobile, già da allora associato ai Servizi, che tra l’altro aveva fatto tutta la sua carriera a Venezia, dove ne aveva combinate di tutti i colori con la banda di Felice Maniero, coi confidenti, compiendo illegalità di ogni genere, ma poi diviene responsabile della sicurezza di Falcone e Borsellino e ambedue vengono uccisi; è nominato capo delle indagini di via d’Amelio, annuncia di aver risolto il caso ed era tutto falso, diopodiché, forte del presunto successo, è nominato questore di Palermo, poi questore di Napoli, poi capo dell’Ucigos, cioè di tutto l’antiterrorismo: insomma, una carriera formidabile. Infine ottiene la vice-direzione del G8 di Genova come capo dell’antiterrorismo ed è lui a entrare materialmente alla Diaz e poi a costruire le falsità, ma per questo non ha avuto nemmeno un’incriminazione, anzi venne nominato vice-capo dei servizi segreti italiani. Dopodiché, per un tumore al cervello dal decorso rapidissimo, morì nel 2002 e, praticamente, ebbe dei funerali di Stato: ci andarono tutti, magistrati, politici, senatori, insomma, tutta l’Italia ufficiale, l’antimafia, e tutti lì a sperticarsi in lodi, pur sapendo tutti di quale specie fosse il personaggio. Impressionante!
Ma perché è successo tutto questo? Chi volevano proteggere?
Beh, questa è stata la chiave di partenza per il libro. La vera essenza di quello che è successo sta nel fatto che in quel periodo l’Italia si era trasformata praticamente, in Sicilia e in Calabria, in un narcostato. Il traffico di eroina, poi di cocaina, era diventato il principale asset dell’economia italiana e non sto esagerando, quindi dobbiamo immaginare un volume d’affari finanziari, economici e politici enorme, che pertanto non poteva essere rivelato. Lì ci fu proprio un patto, sottoscritto da tutti i grandi del cemento, in cui ognuno aveva il proprio interesse. C’era la Calcestruzzi, c’era Gardini, che all’epoca era il primo o il secondo industriale italiano, c’erano le cooperative come la Cmc di Ravenna, la Confindustria Sicilia, la Regione...
D’altra parte è anche logico, se uno ci pensa, che un industriale edile del nord che ha bisogno di soldi per lavorare possa incontrarsi con chi detiene una quantità di liquidi enorme da investire e riciclare. Pensa solo a cosa vuol dire costruire Milano 2, quanti soldi servono, e di che enormità di finanziamenti hai bisogno per realizzare una televisione commerciale su scala nazionale. Ecco, in quel periodo gli unici ad avere i liquidi sono loro, i mafiosi. D’altra parte non c’è solo lo “stalliere” Mangano a testimoniare di questi rapporti, sono gli stessi fratelli Graviano a dire di aver prestato i soldi a Berlusconi e che, fra l’altro, “non li ha mai restituiti”… Quando poi le elezioni del ’94 le vinse a sorpresa Berlusconi, diventava assolutamente irrealistico che la magistratura si mettesse a perseguire il Presidente del consiglio. E quindi si inventarono un’altra pista, un’altra soluzione per far contenti tutti.
Ecco, i due fratelli, i Graviano, del tutto sconosciuti al grande pubblico sembrano al centro di tutto...
Questa è l’altra cosa impressionante, che, cioè, allo snodo di tutta questa vicenda, dal lato criminale, ci siano questi due fratelli Graviano. Sono loro i capi di questo Spatuzza e si arriva a loro tramite lui. È lui che dice: “Sono loro”. E questo è l’altro aspetto incredibile di tutti quegli anni, perché, come hai visto nel libro, erano sulla piazza da sempre e nessuno se n’era accorto.
Se ne stavano al nord…
Se ne stavano latitanti al nord, a Omegna, allora provincia di Novara, e da lì hanno gestito tutto. E poi evidentemente dovevano essere andati un po’ fuori dalle righe, perché quando vengono arrestati tutto l’impianto militare di Cosa Nostra finisce. Se ci facciamo caso, loro vengono arrestati il 27 gennaio del ’94, a Milano, tra l’altro mentre stavano preparando un grande attentato allo Stadio olimpico, dopodiché sono passati  ben ventotto anni e non è più successo niente, nessuno è stato più ammazzato, nè un poliziotto, nè un carabiniere, nè un giudice, nè un uomo politico. Solo in Calabria ci fu l’omicidio di Fortugno, ma è un’eccezione, la realtà è che queste regioni sono praticamente pacificate, ma con il potere della mafia praticamente intatto.
Ma Falcone e Borsellino cos’erano? Due persone del tutto incompatibili con l’Italia di quel tempo…
Incompatibili. Falcone è molto intelligente, molto preparato e ha importanti contatti internazionali, aspetto decisivo vista la dimensione internazionale, soprattutto americana, del fenomeno, e quindi, come nel film, “L’uomo che sapeva troppo”,  si trova nella situazione tragica di uno che capisce tutto, capisce l’entità della cosa e si rende conto che la cosa sarebbe andata a finire male. Se ne rende conto con il caso Sindona, perché lui è il primo a capire che cosa era successo. D’altra parte la vicenda Sindona è assolutamente fantastica.
Quest’uomo -nel libro lo descrivo a lungo- che nasce proprio con lo sbarco americano, viene associato alla mafia e così comincia a fare grandi affari internazionali su quest’asse Sicilia-Stati Uniti, capisce che lì non basta fare affari, bisogna dominare la grande finanza, e lui ci riesce! Diventa uno dei più grandi banchieri americani e uno dei più grandi banchieri italiani e tutti a far finta di prenderlo sottogamba, anche dopo che aveva dato la scalata ai più grandi centri finanziari italiani, da Mediobanca alla Bastogi ed essere diventato il banchiere del Vaticano. Godeva dell’appoggio di Andreotti, della massoneria, da quel giro lì, ma era certamente un genio della finanza, che sapeva raccogliere denaro e poi usarlo su tutte le piazze possibili. Certo, era un gioco delle tre carte e a un certo punto questa cosa gli è andata male. Falcone aveva capito il giro, aveva capito cosa ci stava sotto. Poi glielo conferma Buscetta, siamo a metà degli anni Ottanta, glielo confermano gli americani, quindi lui si va a trovare in una situazione molto pericolosa, in cui tutti lo odiano, i suoi colleghi, i politici, tutti. Credo che l’unica persona con cui alla fine si sia confidato sia stato Borsellino. Camminava sul filo del rasoio e l’unica possibilità che aveva di venirne a capo sarebbe stata quella di fondare finalmente la Procura nazionale antimafia, per centralizzare le indagini, avere cioè un corpo di polizia giudiziario assolutamente autonomo, una Fbi italiana. Si trattava di dichiarare uno stato di emergenza nazionale con le dovute conseguenze. Ovviamente questo non piaceva alla mafia e neppure a tutta la parte di politica e di economia che a quel mondo è legata. E quindi la sua fine, a mio avviso, è segnata dall’inizio. E ci sono sicuramente molti indizi che lo dicono. Borsellino era a parte delle inchieste di Falcone. Ci sono altre persone, che erano a parte delle inchieste, che hanno cercato di salvarlo, però insomma, alla fine è stato tutto insabbiato. Questa è la storia.
Dell’omicidio di Cassarà, un altro protagonista della lotta alla mafia, fai una descrizione veramente impressionante…
In quegli anni, lì a Palermo, sembra di essere nel Far West. La guerra di mafia è provocata essenzialmente dal fatto che i denari del traffico di eroina sono troppi e le varie famiglie non sono abituate a gestire una tale mole di denaro, non hanno dei buoni consiglieri, perdono la testa e si odiano tra di loro. Ricordiamolo, è una guerra che provoca migliaia di morti. Ebbene, lì alla procura, alla squadra mobile di Palermo e anche nell’Arma dei Carabinieri, c’è un piccolo gruppo che fa riferimento a Falcone, alle sue indagini, poi al servizio centrale di Polizia, che piglia a cuore la cosa. È il tempo della preparazione del maxiprocesso. Fra questi c’è Cassarà, che è giovane, intelligente, politicamente è di sinistra, ha voglia di fare e usa pure metodi spicci. Non solo seguiva gli ordini di Falcone che gli chiedeva riscontri sulle dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, soprattutto di Contorno, ma aveva messo le mani su un altro grandissimo e sconosciuto giro di traffico di eroina, quello del clan Cuntrera-Caruana, una famiglia tuttora poco valutata, poco trattata, di broker di eroina, sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in Canada.
Il loro rappresentante più importante era questo Francesco Di Carlo, morto poco tempo fa di Covid. Anche di lui si è sempre sottaciuta l’importanza, mentre è stato l’artefice di tutto questo sistema di brokeraggio che partiva dalle raffinerie italiane e andava in Canada e negli Stati Uniti. Ed era, questo lo dice lui, un membro sia di Cosa Nostra che del Sisde, in amicizia intima sia con Miceli che con Maletti e Santovito, i capi del Sisde e del Sismi negli anni Settanta, uno quindicoperto, protetto. Cassarà aveva intuito tutto questo.
A un certo punto Di Carlo viene arrestato a Londra, dove era una potenza, gestiva un traffico di eroina nascosto in mobili d’antiquariato, e però l’accusa regge e non regge e quindi la giustizia inglese chiede agli italiani di venire a dare una testimonianza su chi sia questo Di Carlo. E gli italiani mandano Cassarà. Lì c’è una scena molto drammatica perché Cassarà spiega loro che Di Carlo è un delinquente, ricercato dalla polizia, un grande boss mafioso, eccetera, e Di Carlo, presente lì, nella gabbia dell’aula, lo minaccia di persona, dicendo che lo uccideranno. Cassarà capisce che a causa di quel viaggio a Londra la sua fine è segnata, e così è. E lo uccidono nel modo più spettacolare, con più di una decina di killer, appostati su tre piani del palazzo prospiciente a quello dove abita, con 250 proiettili di kalashnikov sparati… Lì, con Cassarà morirà l’agente Antiochia.
Bisogna tener conto, per capire l’importanza di questo omicidio, di che tempi stiamo parlando. Temo che la gente si dimentichi abbastanza presto di quel che è successo in quegli anni. Quelli sono i tempi in cui Calvi, il capo della più grande banca privata italiana, viene ucciso a Londra. Calvi era il Banco Ambrosiano, una banca cattolica, la banca della borghesia milanese più conservatrice, più tradizionalista, che lì, insomma, ha i suoi depositi, le sue cassette di sicurezza e Calvi è quello che si mette in società con la mafia, con Gelli, con Ortolani, con tutta questa banda di delinquenti che gli spolpano la banca, fino a quando lui si trova nella situazione di dover restituire soldi che non ha più, e cerca l’ultima avventura a Londra dove viene ucciso dalla mafia medesima. Se uno pensa di fare quel mestiere, il banchiere soprattutto, deve essere una persona che non parla e purtroppo per lui Calvi non aveva più questa reputazione. Avevano paura che parlasse e che raccontasse tutto. Quindi lo uccidono. E chi lo uccide? Di Carlo. Lo strangola personalmente.
Io racconto queste cose perché quel che è successo in quegli anni in Italia è abnorme e sconosciuto!
Hanno attaccato veramente i capisaldi della democrazia italiana: il sistema bancario, l’indipendenza della magistratura, tutto è stato messo in discussione e quando si arriva al fatto che Andreotti fa arrestare i vertici della Banca d’Italia per salvare Sindona, quando si arriva al punto che il più grande banchiere viene ucciso a Londra e si maschera un suicidio e i servizi segreti sono coinvoltissimi… Insomma, tutto questo sembra dimenticato. Di quel periodo resta solo la versione che c’era un contadino di Corleone, semianalfabeta, feroce, dominato dallo spirito di vendetta. Tutto qui. La politica non c’entrava, non c’entrava l’economia e i soldi di tutto questo grande traffico non si sa dove siano finiti.
Ma i Graviano c’entrano anche con l’arresto di Riina?
Certo, anche questo è un grande scandalo. Nel libro faccio molti riferimenti al cinema, in particolare al “Padrino”, un vero capolavoro, e la storia dell’arresto di Riina è la stessa di Salvatore Giuliano che venne raccontata magistralmente da Rosi nel suo film. Riina è stato consegnato.
A un certo punto Riina non andava più bene a nessuno, era veramente esagerato, era pazzo, tra l’altro odiato anche dai suoi perché aveva promesso che avrebbe fatto assolvere le persone in Cassazione e non c’era riuscito. Quindi è stato consegnato. E lì devo aggiungere qualcosa sulla mia attività di “investigatore dilettante” a cui, in realtà, è capitato un colpo di fortuna. Mi aveva stupito da subito che Giuseppe Graviano avesse detto: “No, io ho l’alibi, non stavo neanche a Palermo, perché ho fatto tutta la mia latitanza a Omegna”. Ora, Omegna è questo paese magnifico sul Lago d’Orta che io frequentavo un po’ perché lì avevo un carissimo amico, Carlo Torre, il famoso perito, medico legale, che ogni tanto andavo a trovare. Lui aveva una casa sull’isola e passavamo qualche giorno lì. Allora mi aveva incuriosito il fatto un po’ strano che Graviano stesse lì e poi che questo Di Maggio, grazie al cui tradimento Riina, di cui era l’autista, sarà catturato, fosse stato arrestato a Borgomanero, che dista da Omegna dieci chilometri. Sono due palermitani che stanno lì… Mi parve curioso. E poi mi ricordo che Carlo, una volta che eravamo andati in gita, mi aveva fatto vedere un grande castello, di quelli che costruivano all’inizio del Novecento copiando i castelli medievali -in Piemonte ce ne sono parecchi- e mi aveva detto: “L’ha comprato Pasquale Galasso”, che è un eminente boss della camorra. E io: “Mah, strano…”, e lui: “Sì, non solo! Ma a un quando venne incarcerato, dopo essersi pentito fu messo agli arresti domiciliari qua, nel castello medievale. Lo si vedeva in giro”. Insomma, era tutto un po’ strano.
Poi succede che siccome una clinica di Omegna è un’eccellenza nella sostituzione delle anche e mia moglie aveva bisogno di una sostituzione, sono stato lì una ventina di giorni. Così, non sapendo come passare il tempo, ho cominciato a informarmi su questa presenza di Graviano tanti anni prima. E dei vecchi giornalisti, perché sono storie di trent’anni fa, qualcuno si ricordava le cose e quindi ho raccolto un po’ di informazioni. La prima delle quali era che l’arresto di Balduccio Di Maggio non era avvenuto come l’avevano raccontato. Era avvenuto in un’altra maniera, era stato anche questo concordato... Nel libro ci sono i dettagli su questa vicenda. Poi, l’altra cosa che mi ha aiutato, siamo nel 2020, è la lettura delle dichiarazioni che Graviano rende quando è accusato, a Reggio Calabria, di aver fatto un patto con la ’Ndrangheta e di aver ucciso due carabinieri, che è tutto vero. Lui approfitta di questo processo per fare dichiarazioni spontanee che durano ininterrottamente per tre giorni. Racconta tutta la sua vita. Nella storia della mafia non si è mai vista una cosa del genere, racconta proprio tutto: il papà, la mamma, i fratelli, come ha ucciso questo, come ha ucciso quell’altro e via di seguito.
A un certo punto, però, ed è quello che mi ha colpito, si mette a parlare di Omegna, della sua latitanza lì, e dice: “Io qui godevo di una favolosa protezione”, e lo ripete tante volte. E colpisce che nessuno gli chieda niente su chi fosse a proteggerlo. Finché si mette a parlare apertamente dell’arresto di Balduccio Di Maggio, e racconta che loro, Graviano e i suoi amici, stavano giocando a poker quando vennero avvertiti che lo avevano arrestato e che lo tenevano lì in una villa, ma era prima della data dell’arresto ufficiale, e aggiunge: “Io lo sapevo che stavano preparando l’arresto di Riina perché nel mio albergo a Palermo erano arrivate le squadre speciali per preparare l’irruzione nella sua casa e la mia gente nell’albergo mi aveva avvertito”. Ancora: “Certo, avrei potuto avvertire Riina, ma non l’ho fatto”! Praticamente fa capire che l’ha tradito e forse quello è il patto per cui godeva di una favolosa protezione.
Concludendo?
Guarda, se vogliamo essere realisti, uno potrebbe anche vederla così: c’è stata una situazione, negli anni Ottanta, che è andata completamente fuori controllo. Però alla fine, anche se in maniera, come possiamo dire, molto eterodossa, molto illegale, la soluzione s’è trovata. La mafia non è più un pericolo, non è più una forza militare, il paese è in pace, i cattivi sono in galera al 41bis… Se uno vuole, può sostenere questa tesi. Non regge tanto rispetto alla Calabria, dove i calabresi sono a detta di tutti i più grandi importatori di cocaina dal Messico, dalla Colombia e hanno in mano la distribuzione in tutta Europa, però è vero che i siciliani hanno sicuramente diminuito il loro volume d’affari; il mercato dell’eroina non lo posseggono più, quindi si può dire che il pesce grosso è stato preso.
Però nello stesso tempo vediamo com’è andata l’elezione recentissima per il sindaco di Palermo. La lancetta dell’orologio è stata riportata esattamente a trenta-quaranta anni fa, quando le persone legate alla mafia davano indicazione di voto e venivano elette queste figure che al tempo si chiamavano Lima, Ciancimino, eccetera. Diciamo che il potere amministrativo sulla Sicilia rimane assolutamente in mano a questi con tutto quello che vuol dire per la spesa pubblica, la corruzione dei politici, adesso col piano Pnrr, e tutto quanto.
E la magistratura?
Ecco, questa fa un po’ impressione, anche dal punto di vista culturale, sociologico. Con Falcone e Borsellino abbiamo pensato veramente che la magistratura potesse essere l’elemento fondamentale per vincere questa battaglia. E quindi abbiamo dato molto credito ai magistrati che sono venuti dopo. Nessuno avrebbe mai pensato che fossero, non dico corrotti, ma così incapaci.
Tutte le indagini condotte negli ultimi trent’anni sono quasi ridicole. Noi abbiamo passato i primi quindici anni sul delitto Borsellino con l’impostura di Scarantino. Quindici anni! Una pista falsa a cui hanno partecipato tutti, tutti i magistrati! Questo ragazzo accusato era uno che non sapeva fare la propria firma e nessuno se n’è accorto in quindici anni? L’hanno manipolato in tutte le maniere. Sono cose da pazzi! Poi questo processo “della trattativa” che ormai va avanti da una ventina d’anni e dove si spiega che tutto quello che è successo in Italia lo si deve a una trattativa per eliminare il carcere duro del 41bis, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Tutto l’aspetto reale, decisivo, della questione, quello economico, i soldi, gli interessi, scompare. E hanno montato su un castello di sciocchezze, coinvolgendo addirittura Napolitano, con le telefonate segrete, Conso, e, tra l’altro, venendo sempre bocciati. Adesso questo processo è alla fine, e hanno sempre assolto tutti, perché la cosa non sta in piedi. E nello stesso tempo questi magistrati, in particolare Di Matteo, che ha condotto questa inchiesta, sono diventati delle star politiche. Di Matteo è l’uomo dei Cinquestelle, chiede che gli sia data la direzione delle carceri, mentre in realtà non ha mai combinato nulla.
Faccio un ultimo esempio, un caso su cui nel libro mi dilungo e che mi sta a cuore, quello di Nino Gioè. Un altro scandalo mostruoso. Gioè è una persona che partecipa a tutti i fatti più gravi, a cominciare da Capaci, voglio dire che l’ha fatta lui materialmente, ha messo lui l’esplosivo. Ebbene, viene fuori che è arruolato dai servizi segreti fin da quando era giovane! E poi lo ammazzano a Rebibbia e dicono che si è ammazzato per il rimorso e nessun magistrato ha mai indagato!  Francamente non so cosa pensare. Quello che vorrei è che ci fosse, da parte della magistratura in particolare, un atto di contrizione, di pentimento, perché queste persone sono state degli irresponsabili. Hanno dato al popolo italiano un’idea sconvolgente di che cosa sia la giustizia nel nostro paese.
Perché si sono comportati così? Non lo so, un po’ perché ci si sono trovati in mezzo, e ognuno ha pensato solo a salvaguardarsi, a non denunciarsi l’uno con l’altro, a fare carriera, poi ci sono tutte le cose venute fuori con Palamara, ognuno che si spia con l’altro, le correnti... Purtroppo è così. Uno poi immagina che ci sia sempre un grande male, ma spesso è la banalità della vita di questi corpi separati a fare la parte principale...
(a cura di Gianni Saporetti)