Karl Ludwig Schibel
Deve essere lui, Franco Travaglini, l’unico uomo da solo, seduto nella sala da pranzo di un semplice albergo di Città di Castello, dove ho l’appuntamento per incontrare il coordinatore della Fiera delle Utopie Concrete, incarico che gli è stato affidato poco prima dal Comitato consultivo europeo di cui faccio parte. L’iniziativa era nata nel gennaio 1988 per “presentare esperienze e soluzioni di conversione ecologica” su impulso di Alexander Langer, membro storico di Lotta continua come buona parte del gruppo dei sostenitori. Suo padre, mi racconta Franco dopo qualche parola di saluto, è morto il giorno prima e dopo pochi minuti davanti a un piatto di verdure lui, vegetariano, e a una scaloppina io, parliamo da figli del rapporto difficile con i nostri padri. L’intimità e l’immediatezza con cui ci siamo intesi in questo primo incontro è rimasta con noi per più di tre decenni; i primi anni in un intenso lavoro comune organizzando la Fiera delle Utopie Concrete. Gli ultimi mesi che precedevano l’appuntamento annuale erano un grande sforzo a due, mirato e concentrato. La leggerezza del nostro agire insieme anche sotto stress mi sembrava già al tempo un miracolo, il cui merito era tutto suo. La gentilezza, insieme a una spiccata fermezza nel rispetto dei propri principi, era disarmante. Franco non si arrabbiava; aggressività, polemiche e battute ostili non facevano parte del suo repertorio, semplicemente non erano roba sua. Nel 1990 -stiamo lavorando alla terza edizione della Fiera delle Utopie Concrete- assume la direzione di “Cucina&Salute” (oggi “Cucina Naturale”) che porta avanti per un decennio. Ci vediamo a Milano, dove si trovano gli uffici della rivista, a Bologna, la sua città, dove la famiglia si traferì presto da Pescara, dopo la sua nascita,  per il lavoro del padre Carlo, ferroviere e anarchico, e nella nostra comunità intenzionale, Utopiaggia, nelle colline umbre. L’amore per la campagna e la natura prima e per Ildiko poi, membro storico di Utopiaggia, lo porta alla decisione di trasferirsi e aderire a questo gruppo di “alternativi” che nei primi anni Ottanta si è insediato in una bellissima valle al sud del Lago Trasimeno. Continua il lavoro da giornalista e dirige fino al 2008 il bimestrale “t” e il settimanale “Bioagricoltura Notizie”, entrambi editi da Aiab-Associazione italiana per l’agricoltura biologica. Continua a scrivere di animali, ambiente, alimentazione e agricoltura, ma sempre di più a occuparsi del territorio circostante, per esempio con l’ecomuseo dell’Alto Orvietano e il progetto sui grani antichi “Podere Comune”, e della terra, dell’orto, degli alberi da frutta. Se negli anni Novanta aveva scritto (con Daniela Garavini) Più gusto, più salute e La salute vien mangiando, adesso prepara per la moglie e i frequenti ospiti la pasta, offre il nocino e regala le marmellate -tutto fatto da lui in casa. È stato strappato a questo mondo, immerso nei lavori primaverili e con un orto pronto da seminare.
Da quel primo pranzo sono trascorsi trentatré anni e ne sono passati diversi prima che abbiamo cominciato a scambiarci le nostre esperienze con il movimento degli anni Sessanta, lui con Lotta continua e i Proletari in divisa. Non dai suoi racconti, ma più da qualche battuta qua e là degli amici e compagni, nasceva l’immagine di un militante-roccia, o per stare nel regno degli animali, orso. Come ricorda Adriano Sofri, “era grande e forte, aveva una testa leonina” e non conosceva paura (almeno così sembrava) né compromessi nelle “battaglie che erano da condurre”. Prima di tutto quella per l’organizzazione democratica dell’esercito, per neutralizzare una delle principali armi del nemico. La sua forza arrivava da una profonda “volontà di partecipare a una trasformazione sociale e individuale radicale”, come scrive nel 1980 insieme a Andrea Marcenaro. Quando Lotta continua si scoglie, alle fine del ’76, lui rimane “orfano” di un “grande movimento” che aveva dato senso e identità alla sua vita per quasi un decennio. Alexander Langer parlava di “atterraggio dolce” e altri sapranno raccontare la metamorfosi di Franco da attivista in prima linea di Proletari in divisa, in stivali e giacca di cuoio nero, in militante per i diritti animali. Da notare che già mentre si formava da giornalista nel quotidiano “Lotta Continua” scrisse una rubrica che si intitolava “...e gli altri animali”. Per i compagni e le compagne i diritti degli animali al tempo erano di sicuro una contraddizione secondaria, per Franco la trasformazione radicale dei rapporti tra gli uomini necessariamente significava un nuovo rapporto degli esseri umani con gli altri animali e con la natura vivente. Per questo è una stupidaggine che “si era rifugiato nella campagna”. Era diventato il suo centro di vita, con la convivenza nella sua comunità e il prendersi cura reciprocamente, lo stare insieme in più generazioni, per un futuro sostenibile del territorio, e non per ultimo il lavoro nell’orto e i suoi prodotti. E poi c’erano gli amici e compagni di Forlì e “Una città”, c’era Bologna con il figlio, il nipote, la nuora e gli amici e compagni di una vita, il suo hinterland sociale e sentimentale fino alla fine.
Perché ricordare Franco? Perché potrebbe infondere coraggio essere una persona più gentile, più generosa, più tollerante, con un occhio fermo sui propri principi.  

Beppe Ramina
È difficile scrivere di Franco Travaglini, che ci ha lasciato questa mattina: il dolore per la perdita di un amico gentile, affettuoso, intelligente, di un compagno senza paura occupa la memoria.
Lo ricordo nel 1969 davanti al bar Goliardo, ritrovo della sinistra rivoluzionaria bolognese; a Predappio nel 1971, quando ci ribellammo a una marcia fascista e mentre ripiegavamo davanti a un imponente schieramento di polizia, Franco ci fece tornare sui nostri passi per fronteggiarla.
Franco a Novara nel 1972, allora latitante (era stato già in carcere nel 1968 per una manifestazione contro la guerra nel Vietnam) e responsabile nazionale dei Proletari in divisa, che partecipava a una riunione con noi, militari di leva; a Roma, costeggiando un corteo femminista, negli anni Settanta, quando bloccò un poliziotto provocatore di marca Cossiga che aveva estratto la pistola; Franco in una notte molto complicata nel settembre del 1977 a Bologna; la casa dove abitò a lungo con Erri De Luca nei pressi di Bracciano; la redazione di Lotta Continua a Bologna e la battaglia per la libertà delle compagne e dei compagni arrestati con l’invenzione, da parte della procura, di una fantomatica “cellula perfughese delle Brigate Rosse”.
Non avevamo cellulari e spesso neppure telefoni in casa, ma Franco (come tante altre e tanti altri in quegli anni generosi) nei momenti difficili c'era, rassicurava con la sua calma. Era tosto e gentile, ha scritto un compagno. Era tosto e gentile.
Franco animalista, Franco vegetariano, Franco che organizza la Fiera delle Utopie concrete con Alex Langer e che dirige un mensile antispecista e vegetariano con la scusa della buona cucina; Franco che abitava assieme a Ildiko -con la quale, settantenne, infine andò a nozze- in un borghetto umbro recuperato con ostinazione; Franco nonno felice.
Oltre cinquant'anni fa è iniziato un dialogo che si è dipanato tra impegno, pranzi, telefonate, felicità e dolori condivisi. Continueremo a chiacchierare, caro Franco. Ma già manchi molto. Davvero tanto.

Giovanni Damiani
In Abruzzo sono stato il responsabile regionale dei Pid, e con altri compagni riuscimmo a organizzare lo sciopero del rancio nazionale, il 12 dicembre del 1975, con adesione incredibilmente totale dei soldati delle caserme aquilane (la Rossi, con alcune centinaia di alpini e la Pasquali, con 1.500 granatieri di Sardegna). Lo stesso a Sulmona ove avemmo un prete pacifista che collaborava e poi compagni latitanti per la successiva repressione... Anch’io beccai un quantità di denunce per “istigazione alle forze armate a ribellarsi ai poteri dello Stato”, per vilipendio alle forze armate, poi alla bandiera ecc... Io stesso fui Pid (esperto per forza di cose) quando partii militare e in Friuli vissi le vicende del terremoto del 1976-77, proprio mentre Lc si scioglieva all’insaputa di chi non poteva averci più contatti. Lo scoprimmo, con altri Pid, quando riuscimmo a partecipare a una riunione a Udine nella sede di via Pracchiuso e ci sarà da sorridere quando vi dirò come andò.
Con Franco la mia storia si è intrecciata più volte, anche inconsapevolmente. Sua madre , ostetrica, comunista, esercitava a Pescara viaggiando in bicicletta, ed è quella che... mi ha fatto nascere da mia madre giovanissima. Abitava con Franco ragazzino a via Brandimarte, una stradina che è rimasta immutata fino agli anni Ottanta. Io ho incontrato e conosciuto Franco in Lc e per il Pid e l’avevo saputo sempre bolognese e non mio concittadino e per di più figlio della mia “levatrice”, come si diceva una volta per l’ostetrica. Finita Lc ci siamo ritrovati, grazie alla fantasia operativa di Alex, a Città di Castello, nell’88, ove Franco è stato una delle locomotive che tirava la Fiera delle Utopie Concrete, una straordinaria iniziativa che ci vide lavorare insieme per alcuni anni. La prima edizione sul tema dell’acqua, argomento di cui mi occupo da una vita (i successivi temi furono il Fuoco, la Terra e l’Aria) mi vide impegnatissimo con Franco che coordinava assieme a Karl Ludwig Schibel. In un comitato consultivo europeo ci vedevamo con personaggi tipo Peter Kammerer, Hans Glauber, Wolfgang Sachs, Mario Agostinelli, Franco Lorenzoni... una volta venne pure Adriano [Sofri] e ci passò anche Cesare Moreno. Assieme a Wolfgang Sachs, Franco è venuto anche a Pescara a casa mia per scrivere a più mani il libro Acqua, Risorsa, Cloaca e Maraviglia (ed. Macro), che voleva essere una sintesi dopo la prima edizione della Fiera. Alex era assai determinato perché, alla fine di ogni edizione, vi fosse una “carta” sul tema trattato, una sorta di manifesto e memoria dell’evento. Da quella esperienza Franco mise le radici in Umbria e quando veniva a Pescara, molto saltuariamente, immancabile era la visita a via Brandimarte. In quella viuzza non di passaggio, perché finisce contro la ferrovia, c’erano alcune vecchie case basse di ferrovieri e un’officina che sembrava uscita da un romanzo del 1800. Disordine alle stelle, poca luce naturale, attrezzi sparsi ovunque ma tanto spazio. Era il regno di due fratelli, i Getto, che erano in grado di fare pezzi meccanici introvabili, di auto, di moto antiche, restauri di lavori in ferro, pezzi speciali di ogni genere, piccoli, grandi o grandissimi di macchine agricole, di motori di imbarcazioni... e per questo ricevevano lavori da tutta Italia: pochi, ma ci campavano dignitosamente e lavorando con creatività e mai su cose ripetitive. Si diceva che non c’era cosa che non riuscissero a fare. Una volta restai incantato a vedere come realizzavano un grandissimo ingranaggio di una giostra antica, in sostituzione dell’originale che era andato alla malora. Non solo Pid, anche, ma il Franco ecologista, amico degli animali, rispettoso delle galline che allevava libere prendendo loro solo le uova che gli servivano, è una bella storia. Un amico straordinario...  Mentre scrivo lo ricordo ai tempi di Lc quando fece di persona riunioni nelle regioni perché c’era aria di colpo di Stato e noi prendemmo a dormire fuori casa mentre di giorno, come concordato, svolgevamo una vita assolutamente “normale”... e in qualche modo ci preparavamo. Adesso che ci penso, nella nostra militanza ecologista non abbiamo mai parlato dei Pid, del Servizio d’ordine, della Controinformazione, del periodo delle minacce di colpo di Stato. Cose superate, evidentemente, ma non rimosse: forse era giusto lasciarle nella memoria di ciascuno. Però adesso che Franco non c’è più forse ritirare fuori quel che è rimasto nella memoria di noi sopravvissuti è giusto. Ciao, Giovanni

Fausto Fabbri
Mi dispiace tanto, tanto, tanto. Franco era uno di quelli che quando lo incontri ti si apre il cuore. Ci siamo incontrati varie volte in tempi recenti, dopo che l’avevo conosciuto tanti anni fa, ai tempi del movimento studentesco e della lotta politica, a Bologna. Quando ci siamo rivisti gli ho raccontato del ricordo che avevo di lui e ne abbiamo riso. Un ricordo leggendario, trasfigurato ma vero. Era il ’69, c’era una manifestazione studentesca fronteggiata dalla polizia in tenuta antisommossa, non più di 20 metri fra noi e loro, sotto il portico del teatro comunale, in piazza Verdi. Franco era davanti a tutti e si fece avanti per trattare con il comandante dei poliziotti. La trattativa andò male, improvvisamente abbassarono i fucili caricati con lacrimogeni e partirono con la carica, potevano travolgerci, lo spazio era stretto. Indietreggiando e cercando di scappare lo vidi, era da solo, gigantesco, usando quello che aveva in mano come una spada combatteva di scherma con i loro fucili rallentando la loro corsa. Per me tu sarai sempre quello, gli ho detto, un gigante coraggioso, generoso e leale che sa combattere e amare. E così sarà.

Venetia Villani
Franco Travaglini, giornalista, ci ha lasciati questa mattina. È stato il fondatore di “Cucina Naturale”, che in origine (era il 1990) si chiamava “Buono”: Franco ne era direttore e il suo volto, caratterizzato dagli immancabili baffi, salutava i lettori dalla pagina dell’editoriale.
Per affinità sui temi trattati, sono stata una lettrice della prima ora della nostra rivista: ho tutte le annate. Così, quando una decina d’anni dopo ci conoscemmo a un Sana (la fiera di Bologna sul biologico), ricordo ancora l’emozione nel trovarmelo davanti: il mio timore reverenziale era al massimo! Aveva lasciato la direzione per trasferirsi a vivere in Umbria, e per un po’ di anni diresse “BioAgricoltura”, il mensile dell’Associazione italiana agricoltura biologica. Nel 2006 ero una collaboratrice esterna della rivista quando l’editore mi chiese di dirigerla. Franco collaborava regolarmente con la rubrica InformaBio. Con la creazione del sito, iniziò a curare la sezione dedicata al biologico, ed è andato avanti a pubblicare più volte a settimana fino a un paio d’anni fa: potete trovare ancora tanti articoli a sua firma.
Oggi, la notizia ha rattristato tutti noi della redazione. Il mondo del giornalismo e del biologico perdono una figura importante, e tanti hanno perso un caro amico.
(cucina-naturale.it)

Enrico Deaglio
Ciao Franco, è stato bello passare molti anni con te. Sei stato il mio “capo” e hai salvato la ghirba di tanti di noi, in quel lontano 1977. Amavi la terra, davvero; e quindi si può davvero prevedere che la terra ti sarà lieve. Te lo deve. Enrico

Gianni Sofri
Cari amici, il modo che avete scelto di ricordare Franco mi piace molto, perché lascia libertà ai pensieri spontanei e al rimpianto, rinviando una meditazione più organica a quando i ricordi avranno avuto modo di depositarsi.
Già mi avevano molto commosso i tanti pensieri arrivati subito sulla mailing list di Sergio Sinigaglia, così uniti in un sincero dolore e in un grande amore, e pur così diversificati. Andavano dal “bello, forte, buono” di Franca Fossati all’ammirazione coltivata per anni da Fausto Fabbri per questo “gigante coraggioso, generoso e leale”, capace di tirare di scherma con la polizia e i suoi lacrimogeni. E ancora, più sensibili alla politica e alla responsabilità, gli accenni di Deaglio (così come quelli di Langer riportati da Adriano) al post-Lotta Continua e al ’77.
Io mi sono ritrovato in tutte queste rapide testimonianze. Avevo conosciuto Franco a Bologna un po’ dopo la metà degli anni Sessanta, e con lui Sonia Villone e tanti altri giovani e giovanissimi, alcuni dei quali gravitavano attorno al Centro marxista degli “intellettuali” come Scalia e Stame e altri. Due sentieri distinti, ma che a volte si intersecavano. E a favorire questi incontri, oltre alla critica alla Sinistra ufficiale, era allora il Vietnam, per il quale Franco andò in prigione (penso fosse il ’66 o il ’67).
Mi sentivo vicino a Franco, già allora. Era molto coraggioso e battagliero, ma sensato, con la testa sulle spalle. Forse ad aiutare questa vicinanza era il fatto che Franco fosse più vicino alla mia età della maggioranza degli altri giovani che si avviavano all’esperienza del ’68.
Più tardi si mise a combattere un’altra battaglia, quella per la natura e le utopie concrete. E senza che lui facesse nulla per costruirlo, diventò poco per volta il soggetto-oggetto di un altro mito, quello della sua personale sobrietà. Franco viveva con poco, serenamente, nella bella campagna umbra. Qualche amico vero, per aiutarlo, cominciò a trasmettergli dei lavori editoriali, che Franco non solo faceva con piacere, ma vi si appassionò sempre più, perché amava il lavoro ben fatto e perché aveva molte vere curiosità. Ne parlava volentieri con gli amici, e dopo qualche anno era diventato un esperto redattore.
In generale, l’idea di arricchirsi, o almeno di migliorare sostanzialmente la sua situazione economica, non lo avrebbe mai sfiorato. Gli bastava avere il necessario E ha quindi ragione Guido Viale quando scrive che ha avuto “una vita bella perché intensa”; e, aggiungo, quella che gli piaceva e che per questo aveva scelto. Non ricordo se Franco avesse fatto letture particolari di scritti di Gandhi. Il quale diceva di amare una persona quando “pratica quello che pensa”. Franco ha sempre praticato quello che ha pensato.

Gianni Saporetti
L’amicizia fra noi di “una città” e Franco viene da lontano, da quando, dopo la tragica fine di Alex Langer (che già collaborava e aiutava la nostra rivista) ci ritrovammo insieme a dare una mano a Edi Rabini nel varo della Fondazione Alexander Langer e, di lì a poco, a collaborare con Karl Schibel alla Fiera delle Utopie Concrete che si teneva ogni anno a Città di Castello. Da allora il suo sostegno, i suoi consigli e anche le sue critiche alla rivista non sono mai venuti meno. Ricordo una riunione nazionale sulle colline di Predappio in cui, dopo un’accesa discussione sul Kossovo fra non-violenti e interventisti, in cui era risuonata più volte la parola “bombardamenti”, mi prese da parte per dirmi che forse bisognava “moderarsi” nell’interventismo, che la misura e la scelta dei mezzi importava eccome, per non passare dalla parte del torto.
Più avanti ebbe modo di dare un contributo, forse decisivo, alla sopravvivenza della rivista. Insieme all’amico comune Giorgio Albonetti, direttore editoriale di una casa editrice “verde”, ci chiamò a impaginare (grazie alla competenza da noi acquisita nel fare la rivista) i libri di una collana che dirigeva. Fu uno dei pochi periodi in cui non avemmo preoccupazioni economiche. Per questo lavoro soggiornava spesso da noi ed era un piacere vederlo arrivare e pranzare insieme.
Furono tanti i suoi consigli, purtroppo a volte inascoltati per incapacità nostra. Ad esempio il tema degli animali, a lui così caro, che non siamo mai riusciti a portare avanti. Lo intervistammo sulla vivisezione.
Un giorno ci disse che avremmo potuto raccontare l’esperienza della “comune dei tedeschi”, che da tempo era diventata anche sua. Ma a noi, che avevamo solo sentito favoleggiare di questi giovani intellettuali tedeschi emigrati da anni su un greppo umbro a piantare patate per “vivere diversamente”, raccomandò di indagare sui problemi, le difficoltà, i cambiamenti “più prosaici” avvenuti nel tempo, e, anche, che intervistassimo solo le donne della Comune. Così facemmo e ne venne fuori un bel racconto (consultabile sul nostro sito. Il titolo è ”Un bar chiamato Rosa L”, dove elle sta per Luxemburg).
Ricordo bene anche, all’ultima delle nostre riunioni nazionali, un suo consiglio che forse era anche una “critica preventiva”: dovevamo stare attenti a non ridurre lo spazio alle interviste, perché “far raccontare” era la cifra della rivista.
Oggi, leggendo e ascoltando tanti episodi della sua vita, colpisce la sua riservatezza. Di sé non raccontava molto, di certo nulla di quello di cui si sarebbe potuto a buon diritto vantare. Di suo padre anarchico, sì, raccontava volentieri.
Quando abbiamo avuto bisogno della firma di un direttore responsabile ha accettato subito. Ma da allora non ci siamo quasi più sentiti. Forse lui non ha chiamato anche per via di quella “carica”, a quel punto e in qualche modo imbarazzante per dare consigli e fare critiche. Ma noi, no, non siamo giustificati. Forse, invecchiando e volendo continuare a darsi da fare, casomai con ancor più ansia, ti sembra di non aver più tempo e allora, degli amici, vivi di rendita. Ci sono, sai che ci sono e tanto ti basta. Di Franco una comune amica ci aggiornava regolarmente, se era in Umbria o in Germania, se stava bene, se di passaggio a Bologna l’avevano visto sereno. Questo bastava. Ma è un errore, della cui gravità ci accorgiamo solo quando, all’improvviso, diventa irreparabile.