Questa nota è dedicata a quei radicali cancellati come tali -Leo Valiani, Ernesto Rossi e Guido Calogero- che furono in prima linea nel Partito radicale costituito nel 1955 e dissolto nel 1962 con il pretesto del “caso Piccardi”, ma in realtà a causa del diverso modo di concepire il partito che divideva i principali gruppi di vertice. Da un lato l’ala facente capo a Leopoldo Piccardi ed Eugenio Scalfari, che aveva ottenuto un successo con le liste Socialisti-Radicali nelle città del centro e del nord Italia alle elezioni comunali del 1961, e dall’altro il gruppo proveniente dalla sinistra liberale guidato da Leone Cattani, che concepiva il partito piuttosto come una appendice del “Mondo” di Mario Pannunzio tendenzialmente vicina ai repubblicani di Ugo La Malfa.
Non tanto per la mia memoria personale del Partito radicale di allora, quanto per la ricostruzione della realtà contemporanea, vorrei qui testimoniare di come i tre intellettuali politici citati siano oggi spesso espropriati della loro appartenenza al Partito radicale, quasi sempre ignorata nelle ricostruzioni del ruolo che ebbero negli anni Cinquanta. Leo Valiani è stato una personalità il cui percorso politico è significativo di una intera schiera di antifascisti europei che attraversò la stagione dei totalitarismi e delle democrazie post-totalitarie, trasmigrando dall’impegno comunista a quello nella sinistra democratica e liberale occidentale. L’intellettuale di origine ebraica, dopo il Partito comunista, aveva militato nel Partito d’Azione, tendenza “giacobina”, quindi nel 1948 si era pronunciato per il “Fronte popolare”, da cui prendeva molto presto le distanze per avvicinarsi, all’inizio del 1949, al nuovo settimanale “Il Mondo” di Mario Pannunzio, autorevole voce della liberaldemocrazia occidentale.
L’itinerario di Valiani è molto simile a quello di alcuni altri noti intellettuali europei -viene voglia di citare Albert Camus- che tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento passarono dal comunismo al dissenso occidentalista variamente espresso nei paesi europei e, in Italia, dal Partito d’Azione. Quando la sinistra liberale abbandonò il Pli per costituire, insieme a un gruppo di ex-azionisti, il Partito radicale, Leo Valiani fu tra i primi ad aderire in maniera convinta alla nuova formazione “terzaforzista” di cui delineò nel giugno 1956 la piattaforma programmatica: “I radicali devono guardare all’esperienza radicale occidentale, laburista, rooseveltiana, e devono non solo dedicarsi a smantellare le basi politiche ma anche le basi economiche e corporative del fascismo”. Noi radicali non abbiamo sostanziali differenze con i socialisti democratici “se non l’abitudine liberale allo studio obiettivo, disinteressato e coraggioso perché la nostra è cultura liberale mentre la loro è eclettica, praticistica sotto il manto di un marxismo nel quale in realtà credono ben poco”. Valiani fu subito chiamato a far parte della prima segreteria del Partito (composta da Nicolò Carandini, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Leo Valiani e Bruno Villabruna) e sviluppò un rapporto con il direttore del “Mondo”, Pannunzio, che andava al di là della collaborazione giornalistica continuata per tutti gli anni di pubblicazione del settimanale. I rapporti epistolari tra i due (pubblicati in M. Pannunzio, L. Valiani, Democrazia laica. Epistolario, articoli, documenti a cura di M. Teodori, 2 voll., Nino Aragno editore, 2012) testimoniano una singolare vicinanza politico-affettiva che era andata crescendo nel tempo, una autentica consonanza di visione della realtà interna e internazionale.
Quando nel 1962 quel Partito radicale si avviò verso la scomposizione, Valiani si adoperò fino all’ultimo giorno per tenere in vita la piccola ma significativa forza politica di cui aveva redatto il manifesto di costituzione. E con la stessa passione parlò sei anni più tardi al convegno di scioglimento di quella esperienza: “Ieri ho vissuto la fine del Partito d’Azione, che doveva essere l’alternativa democratica al Partito comunista, come una grave perdita per la democrazia italiana, e oggi stiamo ripetendo lo stesso errore liquidando il Partito radicale, una forza democratico-liberale che poteva rappresentare un segmento importante dell’alternativa europea al moderatismo e al comunismo e che, invece, decide di autodistruggersi per un caso di scarsa rilevanza”. La maggior parte dei radicali non seguirono le esortazioni di Valiani e così il vecchio Pr scomparve. Malgrado che il suo impegno radicale fosse stato il più lungo e intenso delle sue partecipazioni a gruppi politici, il Valiani radicale oggi è quasi completamente ignorato dai cantori degli “antifascisti doc” del dopoguerra.
Il caso di Ernesto Rossi è parallelo a quello di Valiani, anche se di altro genere. L’economista, anticlericale per eccellenza, proveniva anch’egli dal Partito d’Azione o, meglio, da “Giustizia e Libertà”, di cui era stato uno dei principali rappresentanti dell’antifascismo, dopo aver trascorso lunghi anni di carcere e confino. In realtà, la sua attività nel Partito d’Azione non era stata centrale così come lo era stata in “Giustizia e Libertà” di modo che, alla fine del partito della Resistenza, Rossi scelse di non impegnarsi in altri partiti per dedicarsi, oltre che alle campagne giornalistiche, alla prospettiva europea insieme ad Altiero Spinelli. Mantenne lo stretto rapporto di fedeltà con il maestro Gaetano Salvemini, che seguì anche nel voto del 1953 per un partito della coalizione della cosiddetta “legge truffa”, che truffa non era per nulla, piuttosto che partecipare al gruppetto di Unità popolare (Ferruccio Parri, Antonio Greppi e Piero Calamandrei) contro la legge maggioritaria.
Ernesto non era un animale partitico, ma quando il direttore del “Mondo” (dove, unico, aveva una stanzetta a lui riservata) lasciò il Pli di Giovanni Malagodi e si mobilitò alla ricerca di possibili interessati al nuovo partito (che originariamente si chiamò “Partito radicale dei liberali e democratici italiani”), l’economista anticlericale si gettò con decisione nella nuova impresa. A lui il compito di coinvolgere gli ex-azionisti che non erano entrati nel Psi e nel Pri per quanto temessero la contaminazione moderata con i dissidenti liberali. Scrisse perciò una lettera-circolare ad alcune centinaia di ex-azionisti per invitarli ad aderire al nuovo partito, dopo avere convinto anche Salvemini (“se ci sei tu, allora va bene anche a me”). Alcuni azionisti risposero positivamente, cito tra gli altri Carlo Ludovico Ragghianti, Tullio Ascarelli, Gino Frontali, Guido Calogero e Mario Boneschi, mentre Aldo Garosci scrisse a Pannunzio in questi termini: “Io sono sempre stato e rimango favorevole alla costituzione di un partito della terza forza liberal-socialista, radicale, o quello che sia; e ritengo che la vostra scissione [dal Pli] sia solo un passo su questa strada. Io verrò in un partito organico il giorno in cui vi sarà possibile riunirvi in esso con apprezzabili forze socialiste…”.
Ernesto Rossi fu subito nominato alla testa del comitato studi insieme a Mario Boneschi, Guido Calogero, Francesco Compagna, Francesco Messineo ed Eugenio Scalfari, e restò fino alla dissoluzione uno dei principali simboli del partito. Alle elezioni politiche del 1958 fu uno dei candidati radicali di punta nella lista con i repubblicani, che risultò un clamoroso fallimento (poco più di 400.000 voti) e segnò la fine dell’ipotesi terzaforzista su cui avevano puntato Ugo La Malfa e i radicali anche dopo l’incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni. Ma l’obiettivo di studio e programma proprio dei radicali si espresse al meglio nella seconda metà degli anni Cinquanta con un arco di proposte tese alla modernizzazione della Repubblica proprio grazie al contributo del gruppo di studio guidato da Ernesto Rossi e aperto agli esperti di diversi orientamenti. I Convegni degli amici de “Il Mondo” su un’ampia gamma di problemi -il petrolio, la scuola, la città, l’atomo, Stato e Chiesa, la stampa, l’elettricità, la politica economica...- proposero di fatto una piattaforma riformatrice che poteva divenire il programma davvero riformatore del centro-sinistra.
L’altro “cancellato” dalla storia radicale è Guido Calogero, che aveva seguito, come Leo Valiani, un analogo percorso politico dal Partito d’Azione al cauto sostegno nel 1948 al Fronte popolare con l’illusione di arginare il clericalismo fino all’approdo nel 1949 all’occidentalismo democratico-liberale de “Il Mondo” e, dopo alcuni anni, al nuovo Partito radicale. In quella sede Calogero rappresentava un riferimento culturale per i vari gruppi che volevano ascoltare dalla sua voce in cosa consistesse nella prassi politica il dialogo. Attivo nel centro studi guidato da Ernesto Rossi, quando si scatenò la bagarre sul “caso Piccardi”, il filosofo cercò in tutti i modi di portare al compromesso i duellanti, da una parte i sostenitori di Piccardi tra cui Ernesto Rossi e dall’altra i giustizialisti capeggiati da Leone Cattani, con l’obiettivo di non disfare ciò che era stato costruito con tanta fatica politica: la convergenza in un unico partito di liberali, azionisti e di una massa di giovani che avevano portato l’Ugi al successo politico nel voto universitario a fronte dei cattolici e degli sconfitti comunisti. Ma a nulla valsero le buone intenzioni di Calogero e Valiani che si adoperarono per un onesto compromesso. Se ciò si fosse verificato, dismettendo i dissidi moralistici che incalzavano da entrambe le parti in conflitto sul caso Piccardi, forse il destino dei democratici laici sarebbe stato meno azzerato di quello che in realtà è stato, e lo stesso centrosinistra si sarebbe giovato di quelle energie che erano emerse nei Convegni degli amici de “Il Mondo”. Guido Calogero, Leo Valiani e un altro ex-azionista, futuro deputato radicale, Bruno Zevi, aderirono nel 1966 all’Unificazione socialista, ma anche quel tentativo di dare una forza significativa alla sinistra laica e socialista precipitò nel fallimento.
La cancellazione di Leo Valiani, Ernesto Rossi e Guido Calogero come politici direttamente impegnati nel Partito radicale non è un caso. Tutti loro -e qui mi piace ricordare che anche Nicola Chiaromonte dichiarò di aderire al Pr, unico partito della sua vita- facevano parte di quella schiera di intellettuali politici che abbandonarono già negli anni Trenta il Partito comunista e divennero tra la guerra e il periodo successivo “occidentalisti” nella versione di dissidenti tutt’altro che integralisti alla maniera della destra anticomunista. Molti di loro sperarono che in Italia potesse prendere corpo qualcosa come il Partito d’Azione, il Partito radicale e l’Unificazione socialista, che poteva rappresentare un’alternativa al Partito comunista. Non è questa la sede per analizzare le cause di tanti fallimenti (compreso quello del Partito radicale pannelliano) nel costruire una forza al tempo stesso riformatrice e liberale, certamente dovuti alle debolezze intrinseche alle diverse esperienze, ma che non sono la sola causa.
L’opera incessante del Partito comunista volta a corrodere pezzo a pezzo tutte le forze e i gruppi che ne rifiutavano l’egemonia ha certamente contribuito al fallimento delle ipotesi riformatrici democratiche e liberali estranee alla pratica dei “compagni di strada”. Questo discorso vale anche per la storia dei grandi antifascisti a cui nel dopoguerra non è stato mai riconosciuto il ruolo che svolsero in una dimensione politica autonoma. Cancellare la memoria dell’impegno radicale di Leo Valiani, Ernesto Rossi e Guido Calogero, che divennero militanti attivi in una forza politica minore, fa parte di quella banalizzazione dell’antifascismo che ha il sapore di una vulgata volta a descrivere la nostra storia politica in termini binari -destra fascista e sinistra comunista- e a negare le vicende di cui furono protagoniste le sinistre democratiche e liberali.