Gli studi su Nicola Chiaromonte risentono del fascino che il suo carattere personale ha esercitato nel dispiegarsi di alcune intense amicizie, innanzitutto quella nata a Parigi nel 1932 con Andrea Caffi, considerato un maestro, fino al rapporto ad alta intensità mistica con la suora Melanie von Nagel Mussayassul con cui l’intellettuale negli ultimi anni di vita (fine anni Sessanta del Novecento) ha scambiato migliaia di lettere. Certo, la quantità di lettere inviate durante quarant’anni agli amici è significativa della personalità di Chiaromonte, ma in questa relazione viene piuttosto messo a fuoco il ruolo che l’intellettuale ha interpretato nella storia del Novecento, tra fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo, Occidente e totalitarismo, Guerra fredda e pacifismo.
Focalizzare l’attenzione sui rapporti personali di Chiaromonte con gli interlocutori fa perdere di vista il rilievo che egli ebbe nella storia politico-culturale del Novecento. Chi mette al centro della vicenda civile di Chiaromonte le venerate amicizie che culminarono nella affannosa corrispondenza con la suora benedettina, rischia di sottovalutare l’importanza di Chiaromonte quale protagonista della Guerra fredda culturale che negli anni trenta del Novecento ha connotato il suo antifascismo e, negli anni Quaranta e Cinquanta del dopoguerra, il suo anticomunismo.
Qui si mettono a fuoco i momenti essenziali della vita per rispondere alle domande del perché il rigoroso anticomunista Chiaromonte si distinse dall’anticomunismo incentrato sull’integralismo atlantico, e perché rifiutò sempre il pacifismo e il neutralismo, allora come oggi cari ai “progressisti” di sinistra.

Occidentalismo eretico
È vero che Chiaromonte è stato estraneo a tutti gli “ismi”, che rifiutava il pensiero sistematico e le ideologie totalizzanti, e che non si sentiva a suo agio in alcun movimento, neanche in quelli a lui più vicini. Mary McCarthy, che negli Stati Uniti e non solo gli fu buona amica, così lo descrisse: “le sue idee non rientrano in una categoria consolidata: non era né a sinistra, né a destra. Non ne consegue che fosse al centro: era solo”. Pur rifuggendo da qualsiasi inquadramento partitico e ideologico, è indubbio che Chiaromonte si schierò con l’Occidente tenendo fede a ciò che gli dettava la coscienza, e che non cedette mai alla ragion di Stato e di partito che veniva invocata dai militanti d’Europa, all’Ovest come all’Est. L’intellettuale deve perciò essere considerato, al tempo stesso, un militante dell’Occidente, e il più eretico tra gli intellettuali occidentalisti.   
Già le tappe del suo antifascismo giovanile sono eloquenti.
Nel 1932 entra nel movimento Giustizia e Libertà, ma dopo tre anni abbandona Carlo Rosselli quando il leader liberalsocialista converge nel fronte unico antifascista. Nel giugno 1935 accompagna Gaetano Salvemini al Congrés International des écrivains pour la défense de la culture di Parigi organizzato dalla sinistra, e solidarizza senza riserve con lo storico che con il suo discorso rompe platealmente con i filo-sovietici:
“Non mi sentirei il diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono le isole penitenziarie e nella Russia sovietica c’è la Siberia […] Forse occorre avere vissuto l’esperienza di uno Stato totalitario […] per rendersi conto dell’odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura, suscita nel mio animo […]”.

Dopo essersi arruolato nel 1936 tra i repubblicani nella guerra civile spagnola come bombardiere della squadriglia aerea di André Malraux, abbandona lo scrittore francese ritenuto filo-comunista e non si fa intimidire dai commissari politici filo-sovietici che gli contestano la partecipazione alle riunioni con i libertari del Poum. Tra le brigate internazionali comuniste e quelle libertarie si sente vicino alle seconde come George Orwell e Randolfo Pacciardi. Tornato in esilio a Parigi non aderisce ai tradizionali Partiti socialista e repubblicano, ma frequenta gli eretici della sinistra, Andrea Caffi, Angelo Tasca e Ignazio Silone. In  Algeria, in viaggio verso gli Stati Uniti, stringe amicizia con Albert Camus, che nei primi anni di guerra prende le distanze dai comunisti .
Nel 1943, sbarcato in America, Salvemini lo propone come braccio destro a Pacciardi che prepara una brigata antifascista per combattere in Italia a fianco degli Alleati: “[…] a man like Nicola Chiaromonte would be of great use on such a committee. He is not Jew and this is a point in his favor…”. Nicola entra così a far parte dei circoli radicali americani, scegliendo come compagni gli eterodossi ex comunisti, ex troskisti, libertari, socialisti e democratici liberal e radical piuttosto che i realisti di “Partisan Review”, e stringe una comunanza con gli eccentrici-utopisti della nuova rivista “politics”, tra cui, oltre al direttore Dwight Macdonald, vi sono Hannah Harendt, Mary McCarthy, Paul Goodman e Charles Wright Mills.
Come negli anni Trenta, Chiaromonte aveva avversato il frontismo antifascista, così negli anni Quaranta rifiuta la ragion politica degli atlantici muscolari e l’anticomunismo della destra americana ed europea. Nel 1949, a New York, contesta insieme agli amici radicali il raduno dei “Partigiani della pace” del Waldorf Astoria, ma scrive a Mary McCarthy di guardarsi dal liberal Sidney Hook per i suoi contatti governativi. Nel 1947 aveva fatto pubblicare a Macdonald sulla loro nuova rivista “politics”, il saggio di Albert Camus “Ni Victimes ni Bourreaux” apparso un anno prima in Francia sul quotidiano resistenziale “Combat”, documento che divenne un riferimento per quella nuova sinistra che negli anni Sessanta prende le distanze dal marxismo in nome della “conciliazione della lotta per una società più giusta con il rispetto della vita umana”. In quell’atmosfera nacque nel 1946 l’European-American Group (Eag) che coinvolse anche Camus, una sorta di precursore del Congrès International de la liberté de la culture fondata più tardi a Berlino nel 1950.

La Guerra Fredda culturale
La cornice dell’antitotalitarismo -storico e non dottrinale- di Chiaromonte è la Guerra fredda culturale. Chiaromonte non era un filosofo politico che discettava di teorie, ma un protagonista pienamente consapevole della realtà occidentale che negli anni Trenta ruotava intorno al conflitto tra democratici e fascisti e nel dopoguerra intorno allo scontro tra comunisti e anticomunisti. In Europa alla linea di divisione tra Est e Ovest si sovrapposero le contrapposizioni culturali nei singoli Stati di cui furono protagonisti gli intellettuali, individualmente e associati.  
In Francia e in Italia dove erano presenti forti partiti comunisti che avevano avuto un ruolo primario nelle Resistenze, molti intellettuali furono attratti dal comunismo considerato come una rigenerazione dal nazifascismo che aveva dominato in Europa  per un ventennio. Per molti uomini di cultura il comunismo significava il cambiamento radicale, la speranza di una società diversa, la rivincita sul mondo conservatore e liberale che aveva consentito l’avvento dei fascisti, lo sterminio degli ebrei, il rafforzamento del capitalismo e dei vecchi gruppi di potere. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, in Italia ancor più che in Francia, l’università, l’editoria, le riviste culturali e il cinema furono profondamente influenzate dalle sinistre filo-comuniste.
Chiaromonte, che dal 1947 al 1950 fece la spola tra gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia, aveva le idee chiare sulla natura della Guerra fredda culturale, quindi sul dovere morale per l’intellettuale di prendere posizione, come avevano fatto i suoi amici americani della sinistra radicale Dwight Macdonald e Hannah Arendt, autrice nel 1948 di The Origins of Totalitarism. Non era un ex comunista, come la maggior parte degli intellettuali che si mobilitavano per arginare l’espansione in Europa occidentale del comunismo, tra cui alcuni erano scampati ai gulag di Stalin oltre che ai lager di Hitler, come nei casi di David Rousset e Margarete Buber-Neumann, e altri come Arthur Koestler, Ignazio Silone, Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Stephen Spender che diedero alle stampe il libro Il dio che è fallito.Testimonianze sul comunismo con introduzione di Richard Crossman. In un’Italia in cui la sinistra aveva un notevole peso negli ambienti culturali, Chiaromonte rilanciò la polemica sugli intellettuali che si schieravano con il Pci a cui dedicò nel 1953 il saggio Il tempo della malafede come opuscolo della neonata Associazione italiana per la Libertà della cultura, testo in seguito riedito più volte insieme ad altri saggi sullo stesso argomento. A  me pare che Il tempo della malafede possa essere considerato il manifesto politico-culturale dell’anticomunismo antitotalitario:  
“[...] C’è il comunista militante, persona seria benché intollerabile. C’è poi il comunista dilettante. Una Chiesa, se consistesse solo di preti, cesserebbe presto di esistere: il suo prestigio si misura sull’ascendente che essa ha sui laici, devoti e meno devoti, praticanti e non praticanti, e perfino scettici, purché non empi […].
Il comunista dilettante non è né un finto noncomunista né un aspirante comunista […]. Lungi dal sentirsi incerto, egli si sente certissimo, a posto non solo con la politica, ma anche con la logica, con la morale con la filosofia in genere, senza parlare della Storia. Diventa una specie di totalitario in partibus, e cumula il prestigio dell’uniforme comunista, che egli si rifiuta d’indossare, con i vantaggi dell’abito borghese di cui continua ad andare fiero […]”.

Il movimento dei partigiani della pace
Già nei giorni della resistenza sovietica ai nazisti e del movimento partigiano egemonizzato in Italia dalle formazioni rosse “Garibaldi”, Stalin promosse una massiccia campagna ideologica, che gettò le premesse della “Guerra fredda culturale”. Nell’agosto 1948, il Cominform guidato da Zdanov, decideva di lanciare una campagna all’insegna del pacifismo patrocinata da intellettuali quali Julien Benda e Pablo Picasso (con la colomba) per penetrare ideologicamente nel mondo occidentale compresi gli Stati Uniti, dove alle presidenziali del 1948 si presentò il “terzo candidato” progressista Henry Wallace, già ministro di F.D.Roosevelt, che puntava sull’accordo tra Usa e Urss. Nell’aprile 1949 fu costituito a Parigi il Movimento internazionale dei partigiani della pace che doveva raccogliere tutti coloro che condividevano il neutralismo di marca sovietica contro il bellicismo degli americani, fossero comunisti o genericamente di sinistra, cristiani o moderati, purché disposti a divenire docili compagni di strada.
Quando gli Stati Uniti lanciarono il piano Marshall proponendolo ai Paesi europei distrutti dalla guerra, alcuni Stati dell’Europa orientale occupati dall’Armata rossa in un primo tempo si dichiararono disposti ad accettare gli aiuti americani che dovevano combinarsi con eguali investimenti nazionali. La cortina di ferro, che Winston Churchill aveva intravisto nel discorso di Fulton (Stati Uniti) del marzo 1946, non era ancora scesa sull’Europa a dividere occidente e oriente. Ma Stalin impose subito agli Stati dell’Europa orientale di respingere il programma americano ritenuto uno strumento dell’economia di mercato. È allora che prese forma insieme allo scontro politico quel conflitto culturale che avrebbe tenuto banco nel successivo quarto di secolo.
L’arma impugnata dai comunisti era l’unità antifascista come leva morale. Come osserva Tony Judt  in Dopoguerra, al centro della retorica della sinistra ufficiale c’era una concezione binaria della fedeltà politica: “Noi siamo ciò che loro non sono. Loro (fascisti, nazisti, franchisti, nazionalisti) sono la destra, noi siamo la sinistra. Loro sono reazionari, noi siamo progressisti. Loro vogliono la guerra, noi la pace”. In gran parte gli intellettuali europei si divisero tra Est e Ovest, se pure con diverso spirito di identificazione. In Francia due autorevoli personalità scelsero con diverse modalità l’Occidente: Raymond Aron dichiarò “O ci si trova nell’universo dei paesi liberi, oppure in quello dei paesi sottoposti al dominio sovietico”; e Albert Camus fu ancora più esplicito: “Oggi le cose sono chiare; e se una cosa è da campo di concentramento, dobbiamo chiamarlo con questo nome, anche se si tratta di socialismo”.
In Italia l’influenza culturale comunista fu maggiore che altrove perché il Paese usciva dalla dittatura e l’antifascismo dei non comunisti -laici, socialisti e cattolici- era offuscato dall’anticomunismo muscolare della destra clericale. Le elezioni politiche del 1948 avevano approfondito il solco tra il fronte social-comunista e il blocco cattolico-clericale, che di gran lunga prevalse nelle urne. Chi non accettava la bipartizione manichea, come il socialista Giuseppe Saragat, era destinati ai margini della politica e altrettanto accadde al gruppo che aveva firmato il manifesto “Europa, cultura e libertà” promosso da Benedetto Croce, dal cattolico Gaetano De Sanctis, dal liberale Luigi Einaudi e dall’azionista Ferruccio Parri. Il Pci di Togliatti attraverso L’alleanza per la difesa della cultura, un’appendice del Fronte democratico popolare per la libertà, la pace e il lavoro con l’effige di Garibaldi, attirò per il breve periodo elettorale anche una schiera di intellettuali di tradizione laica e antifascista tra cui Luigi Russo, Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Nino Valeri,  Arturo Carlo Jemolo, Lionello Venturi e altri ancora.
Fu l’inizio della vicenda dei compagni di strada che nei decenni successivi avrebbe attirato molti intellettuali di rilievo tra cui Alberto Moravia, Carlo Levi  e altri ancora, come fiancheggiatori del Pci all’insegna dell’unità antifascista trasformata in un tabù da non infrangere. Fu proprio quella calamita politico-culturale della sinistra a provocare la nascita anche in Italia del Movimento per la libertà della cultura che divenne il variegato accampamento occidentale in cui piantò la sua originale tenda anche Nicola Chiaromonte.  

Il movimento per la Libertà della cultura
Avere accettato di essere considerato un “Cold War warrior” significava per Chiaromonte disattendere quel tabù della sinistra per cui non si poteva essere anticomunisti se si era antifascisti. Certo, in lui la scelta, pur con riserve, della democrazia liberale comportava molti distinguo che tuttavia non misero mai in questione il suo rifiuto del neutralismo e del pacifismo. La sua scelta occidentale avvenne all’interno del Movimento per la libertà della cultura a cui rimase legato, pur da una posizione autonoma, nei secondi trent’anni  della sua vita politica e culturale.
L’importanza del rapporto con quel gruppo internazionale è testimoniato dalla rottura dell’amicizia con il venerato maestro Andrea Caffi. Per la prima volta, dopo vent’anni, Chiaromonte lacerò la consonanza con il maestro che lo accusò di avere tradito la fede libertaria e l’autonomia di coscienza accettando un ruolo di vertice nel Congresso per la libertà della cultura. Nella lettera a Caffi del settembre 1951, Nicola passò dall’usuale e fraterno “tu” a un “lei” freddo e distaccato rimarcando la distanza tra la scelta di essere un “guerriero culturale anticomunista” e il paradigma rivoluzionario-nichilista di Andrea Caffi. Quella rottura con Caffi insegna molto dell’idea che Chiaromonte aveva della politica. In una discussione epistolare con Silone per mettere a punto il progetto di “Tempo Presente”, così scriveva nell’ottobre 1955:
“In questo dopoguerra quelli come noi che han fatto il giro delle ideologie e, in particolare, delle ideologie socialiste, si sono ritrovati a difendere con certezza le “libertà concrete”, il rifiuto in ogni caso e a ogni costo del Totalitarismo e delle ideologie che vi conducono: la sostanza delle quali, a guardar bene, è il primato morale della politica su ogni altra attività politica. Contro questa perversione, ci troviamo pure a difendere il principio liberale […]”.

Del resto la frattura tra Chiaromonte e Caffi seguiva la logica degli schieramenti internazionali della Guerra Fredda. È vero che Caffi aveva una profonda ripugnanza verso lo stalinismo e tutto ciò che a sinistra era filo-sovietico, ma il filosofo libertario non abbandonò mai la contestuale lontananza dalle democrazie liberali a guida americana secondo un’idea ben diversa dalle riserve che a proposito pure Chiaromonte nutriva sul modo di condurre la Guerra Fredda da parte degli oltranzisti occidentali. Qualche anno dopo, Chiaromonte testimoniò il suo modo di concepire il rapporto tra l’intellettuale e la politica interrompendo anche la sua prevenzione nei confronti dei partiti aderendo per la prima e unica volta a un partito, quello radicale, comunicata con l’articolo L’intellettuale e la politica apparso su “Il Mondo” del 28 febbraio 1956:
 “La mia firma si trova fra quelle di coloro che hanno aderito all’atto di fondazione del Partito radicale […]. Finora non avevo appartenuto che a Giustizia e Libertà (dal 1932 al 1935)…  Gli amici che mi hanno chiesto di aderire al Partito radicale non mi hanno chiesto né di aderire a un’ideologia né di dare una firma in bianco […]. Io sono convinto che questo è un tentativo da fare e rifare […] quindi partecipo”.

Chiaromonte nel movimento
per la Libertà della cultura
Tre sono i momenti del coinvolgimento di Chiaromonte nel Movimento per la libertà della cultura dagli anni Quaranta al 1968: a) il Congresso internazionale di fondazione del movimento per la libertà della cultura (Ccf) tenutosi a Berlino nel 1950, b) la costituzione a Roma dell’Associazione italiana per la libertà della cultura (Ailc) nel 1951, e c) la pubblicazione nel 1956 di “Tempo Presente”, l’ultima  rivista della costellazione del Congresso internazionale comprendente la tedesca “Der Monat”, la francese “Preuves”, l’inglese  “Encounter”, la spagnola “Cuadernos”, e l’austriaca “Das Forum”.   
Il Congress for Cultural Freedom (Ccf) fu la prima organizzazione internazionale antitotalitaria di ampio respiro nel dopoguerra. Nel promuoverla gli americani riattivarono le reti europee della resistenza antifascista che erano state in contatto con gli Alleati facenti capo ad Allen Dulles in Svizzera. Gli antifascisti-anticomunisti europei e americani, liberali, cristiani, socialisti e conservatori, si resero conto che la Guerra fredda andava affrontata anche sul terreno culturale per arginare l’espansione delle campagne pacifiste e neutraliste di Mosca veicolate dai partiti comunisti nazionali.
Alla fondazione del Congresso erano presenti intellettuali di diverse provenienze tra cui ex-comunisti che avevano combattuto il fascismo, resistenti antinazisti, federalisti europei e reduci scampati ai gulag di Stalin. Un ruolo determinante lo ebbero gli americani Melvin Lasky e Michael Josselson che durante la guerra erano stati agenti dell’ Office of Strategic Services (Oss), il servizio antenato della Cia statunitense, quali agenti di collegamento tra le forze armate alleate e le resistenze europee. Patrocinavano il Congresso  eminenti personalità tra cui Bertrand Russel, Julien Huxley, Herbert Read, Leon Blum, André Gide, Raymond Aron, Francois Mauriac, Karl Jaspers, John Dewey, Salvator de Madariaga, Jacques Maritain e Benedetto Croce, e leader socialdemocratici e federalisti quali l’austriaco senatore Hans Thirring e il francese André Philip. Chiaromonte nonostante l’opposizione di Arthur Koestler fu chiamato come supplente di Silone a far parte del comitato esecutivo internazionale di cui facevano parte Raymond Aron, Stephen Spender, Nicolas Nabokov e Denis De Rougemont.
Al Congresso internazionale seguì, su iniziativa di Silone e Chiaromonte, la costituzione nei primi mesi del 1951 a Roma della Associazione italiana per la libertà della cultura (Ailc) a cui aderirono molti intellettuali laici, liberali, socialisti e cattolici tra cui Guido Calogero, Mario Ferrara, Adriano Olivetti, Mario Pannunzio, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, e Lionello Venturi con il patrocinio di Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Edoardo Ruffini, Luigi Salvatorelli e Umberto Zanotti Bianco. L’associazione meritò subito un attacco di Roderigo di Castiglia, alias Togliatti, che dalle colonne di “Rinascita” definì l’associazione “il rosario dei cretini”, forse perché riannodava quel fronte di intellettuali di sinistra democratica che era stato operante nell’antifascismo non comunista. Nel manifesto dell’Ailc si indicavano gli obiettivi:  
“[…] Noi riteniamo che, in quanto uomini e cittadini, anche coloro che professano le arti e le scienze siano tenuti a impegnarsi nella vita politica e civile, ma che al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una o l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica, sia loro dovere custodire e difendere la propria indipendenza e che gravissima e senza perdono sia la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa”.
Il terzo e più importante capitolo nella Libertà della cultura fu la pubblicazione nel 1956 della rivista “Tempo Presente”. Chiaromonte, oltre a dirigerla insieme a Silone, ne rappresentò l’anima che impresse l’originalità culturale, l’autonomia politica e il rigore morale fino alla chiusura nel 1968. Nell’annunciare il progetto editoriale, i direttori precisarono di non guardare al mondo attraverso filtri ideologici o politici, ma con uno sguardo alla realtà:
“[…] Nel proposito di considerare problematico e degno di particolare attenzione ciò che sta succedendo agli individui e alle comunità: il tempo presente, ossia la forma che prende giorno per giorno il mondo in cui viviamo”. Si tratta di una rivista internazionale “di informazione e discussione fondata sul principio della libertà di critica […] in quanto nessuno è in grado di offrire una verità globale e sistematica, tranne i seguaci di idee fatte e di ideologie settarie […]. Ci preoccupiamo più della verità che delle sue conseguenze. Siamo infatti convinti che la verità, quale che sia, rende liberi e che la libertà mantenuta e difesa è la migliore prova che l’intellettuale possa dare della sua solidarietà con i propri simili”.

L’anticonformismo di Silone
e Chiaromonte
La comune avventura di Silone e Chiaromonte che procedettero di conserva per vent’anni, ebbe un indirizzo autonomo rispetto al Congresso internazionale per la libertà della cultura di cui facevano parte in posizione dirigenziale. Per quanto provenienti da storie diverse e mossi da temperamenti divergenti, Chiaromonte e Silone si sentivano legati da valori simili. Per entrambi il valore della coscienza doveva prevalere sui sistemi ideologici o politici e sui dirigismi statali, chiesastici o di partito.
Indipendenza dai partiti, rifiuto dei fiancheggiamenti, separazione delle responsabilità politiche da quelle culturali, tutela delle libertà, drastica opposizione ai totalitarismi e agli autoritarismi, contestazione del comunismo non per i suoi ideali di solidarietà umana, ma per i metodi praticati dalla dittatura nei confronti dell’arte e del pensiero, rispetto per la verità, per l’individuo e per le convinzioni personali: tale fu, in sostanza, l’antitotalitarismo praticato da Silone e Chiaromonte, diverso dall’anticomunismo ideologico che nel Congresso internazionale faceva capo a Arthur Koestler. I rapporti dei responsabili dell’Associazione italiana e di “Tempo Presente” con gli americani furono immuni da qualsiasi subordinazione politica e culturale.
In tal senso si deve fare un cenno a quello che fu l’atteggiamento dell’Associazione italiana per la libertà della cultura e di “Tempo Presente” nei confronti degli Stati Uniti.  Fin dall’inizio l’Ailc proclamò apertamente il dissenso dalle campagne (“maccartismo”) di Joseph McCarthy:
“Perfino in quegli Stati che sono nobilmente impegnati nella difesa della libertà, della civiltà e della cultura del mondo occidentale, quali gli Stati Uniti d’America, sorde correnti attentatrici alla libertà tentano di insinuarsi e di farsi strada e, talora, si impongono, nonostante l’opposizione degli uomini più avveduti e maggiormente responsabili”.

A entrambi gli ispiratori della Libertà della cultura restò estranea l’idea della ragione di Stato o di partito, elemento distintivo dell’intellettualità di sinistra. Negli anni in cui il conformismo culturale e ideologico regnava incontrastato a destra come a sinistra, Chiaromonte sviluppò il tema dell’autonomia intellettuale con una polemica senza ipocrisie contro le forme spurie di engagement, il cui paradigma era allora rappresentato da Sartre. Nel filosofo, simbolo del movimento per la pace, vedeva “il gran bisogno da cui è posseduto l’intellettuale moderno di una religione non religiosa, e cioè di un’ideologia efficace”, a cui sottomettersi “nel segno visibile della forza collettiva, ossia della realizzazione di una moralità integrale”, attraverso “uno Stato rigidamente organizzato e diretto”.
La polemica nei confronti dei “compagni di viaggio” divenne così una costante di Chiaromonte conosciuto in Europa e in America sia come maître à penser che “provava ribrezzo davanti alle interpretazioni generali” della società e della storia e diffidava delle “ombre ideologiche che coprono la ­realtà”, sia come acuto polemista che non temeva di disapprovare il diffuso conformismo degli intellettuali “progressisti”. Negli anni Cinquanta e Sessanta, non risparmiò critiche ai mostri sacri dell’intellettualità di sinistra a cominciare da Antonio Gramsci (“un farraginoso studioso di provincia che ha insegnato a scrivere male ad almeno due generazioni di intellettuali italiani”), per proseguire con Alberto Moravia (“la sua stoffa di grande romanziere è purtroppo bucherellata dal suo timore reverenziale per il nuovo principe comunista”), Carlo Levi (che definì la Cina di Mao “un mondo artigiano di esili farfalle”) fino a Pier Paolo Pasolini (“un pedagogo petulante ed equivoco, un catto-marxista tutto bandiere nere e rosse e un rigurgito parrocchiale”). Altrettanto critico fu la sua polemica verso quel gruppo di intellettuali, Piero Calamandrei, Franco Fortini che in compagnia di Norberto Bobbio tesserono le lodi del regime socialista al ritorno di un viaggio culturale in Cina su invito del presidente Mao Zedong.  

Che cos’è il finanzamento della Cia
Nel discutere del Movimento per la libertà della cultura, è d’obbligo non ignorare i finanziamenti americani, in particolare quelli attribuiti alla Cia per sostenere l’organizzazione internazionale. Va subito precisato che l’ala italiana del Ccf facente capo a Silone e Chiaromonte, fu sempre ben distinta dal Congresso internazionale godendo di una sostanziale oltre che formale autonomia di indirizzo politico-culturale. Nessuno può escludere che Ignazio Silone, uomo di profonda esperienza internazionale, conoscesse o supponesse che il denaro ufficialmente proveniente dalla Fondazione Ford e dalla centrale sindacale americana Afl-Cio avesse un’origine direttamente legata al governo degli Stati Uniti. Certamente si può escludere che Chiaromonte conoscesse o soltanto sospettasse qualcosa dei fatti relativa alla Cia venuti alla luce nel 1966 su riviste e giornali americani. Senza entrare nei dettagli, vorrei esprimere qui il mio punto di vista sulla questione che portò alla fine del Movimento per la libertà della cultura quando erano stati già archiviati i momenti più caldi della Guerra Fredda culturale. Mai nelle iniziative della Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, di “Tempo Presente”, e negli scritti dei suoi direttori è possibile trovare un segno del condizionamento della Cia, mentre sono numerosi i segni dell’indipendenza: infatti il gruppo italiano facente capo a Silone e Chiaromonte era esplicitamente distinto dal Congresso internazionale di cui, come narrano le storie, rappresentava una specie di ala sinistra. Fin dalle origini il gruppo italiano aveva respinto il conformismo filoamericano.
Nel 1991, Enzo Forcella, presente al congresso di fondazione del movimento di Berlino nel 1950, futuro collaboratore di “Tempo Presente” oltre che del “Mondo” di Mario Pannunzio, ammonì dalle pagine di “Repubblica” di non fare un caso della questione dei soldi della Cia perché non era stato per nulla scandaloso che Silone avesse ricevuto aiuti americani: “Quanto ai canali attraverso cui arrivavano gli aiuti, il chiasso che si sta facendo sul coinvolgimento della Cia mi sembra, francamente, anacronistico e tartufesco”.
È del resto difficile sostenere che le personalità che patrocinarono la Libertà della cultura Bertrand Russel, Julien Huxley, Leon Blum, Raymond Aron, Carlo Schmid, John Dewey, Eleonor Roosevelt, Arthur Schlesinger, Salvador De Madariaga, Jacques Maritain, Benedetto Croce e Wilhelm Roepke potessero essere strumentalizzate al soldo della Cia.
È proprio qui la questione essenziale. Di fronte all’offensiva culturale di Mosca condotta in Occidente attraverso il movimento internazionale del partigiani della pace, l’Amministrazione degli Stati Uniti, presidenti Harry Truman (1945), Dwight Eisenhower (1952) e John F. Kennedy (1961) decise di reagire anche sul piano culturale. Negli stanziamenti prima del Piano Marshall diretto all’Europa, e poi in quelli dell’Alleanza atlantica furono introdotti dei capitoli per il finanziamento del settore culturale con l’obiettivo di contrastare la pressante propaganda sovietica in Europa occidentale.
Furono finanziati una serie di programmi ben noti come, ad esempio, le biblioteche dell’Usis, le borse di studio Fulbright, il cinema di Hollywood, radio Free Europe a Vienna, le edizioni qualificate di volumi sulla storia degli Stati Uniti tra cui la “collana rossa” di scienza politica edita in Italia dal Mulino, il Salzburg seminar in American studies, e tanti altri. Gli stanziamenti governativi erano gestiti da una catena di agenzia che, oltre la Cia, comprendeva il dipartimento di Stato, la centrale sindacale Afl-Cio, le fondazioni Ford e Rockfeller e altre, e i comitati per gli scambi culturali con gli Stati Uniti che nel corso del tempo hanno assegnato in Italia migliaia di borse di studio nelle università statunitensi.
Il Congresso internazionale per la libertà della cultura e le riviste collegate, tra cui “Tempo Presente”,  furono i terminali di queste azioni condotte dalla nazione leader dell’Occidente a beneficio dei paesi collegati da alleanze politiche e dalla comunanza di culture a sostegno della ricostruzione democratica e capitalistica post-bellica.
C’è qualcuno che può affermare che Nicola Chiaromonte sia stato corrotto nei dodici anni in cui ha diretto “Tempo Presente”, oppure che abbia cambiato le sue opinioni, lui come i molti giovani che hanno usufruito delle borse di studio nelle università americane che per cinquant’anni hanno formato una parte della classe dirigente dell’Italia post-bellica? Se si vuole davvero comprendere il ruolo che l’Occidente a guida americana ha avuto nella Guerra Fredda culturale, mi pare che occorra uscire dai luoghi comuni che dovrebbero essere lasciati nella pattumiera della storia.