Cari amici, in questi giorni la televisione marocchina trasmette un’efficace pubblicità che sostiene la candidatura del Paese per i Mondiali del 2026. Viene mostrato un Paese abbastanza realistico, quello "a due velocità”: il Marocco benestante e promettente e quello povero e a volte disperato. Entrambi esultanti nel tifare per i Leoni dell’Atlante, la nazionale di calcio (la squadra tra l’altro parteciperà al Mondiale di quest’anno in Russia). Un’immagine sincera, quella della tifoseria che con convinzione attraversa trasversalmente ogni classe sociale: in primavera avevamo già assistito a Torino all’eccitazione generale per una semplice amichevole ospitata in città, Marocco-Serbia, con diversi pullman zeppi di immigrati marocchini giunti apposta da ogni dove nella "capitale” marocchina d’Italia… Nel girone dei mondiali russi al Marocco toccherà di confrontarsi con l’Iran, Paese col quale proprio in questi giorni ha interrotto le relazioni diplomatiche a causa di un’accusa di interferenza nella questione del Sahara Occidentale.
Era appena stato approvato un rinnovo del mandato della missione Onu nella regione contesa, anche se solo per sei mesi, quando lo scontro tra Marocco e Polisario è piombato nella contrapposizione dei due blocchi facenti capo a Russia e Stati Uniti di cui oggi fanno le spese soprattutto i siriani. Sulla questione del Polisario, il Marocco è appoggiato abbastanza largamente dal blocco occidentale. Il fatto è che sono proprio gli Stati Uniti il paese concorrente per i mondiali 2026.
Certo è stridente il contrasto tra un paese in ritardo e abbandonato a se stesso, e la scelta di esporsi internazionalmente per ospitare un evento tanto costoso. Sono le stesse istituzioni marocchine, in questo caso l’alto commissariato per la pianificazione, a segnalare statistiche non confortanti: quasi l’80% dei lavoratori non beneficiano di copertura sanitaria né avranno pensione; pochi sono i lavoratori con una formazione adeguata; poco meno del 60% sono senza titolo di studio. La disoccupazione colpisce soprattutto le donne delle zone rurali e del sud; il 64% delle diplomate della regione di Guelmime è senza lavoro.
Pochi mesi fa un fotoreporter franco-marocchino residente a Casablanca è stato arrestato e poi espulso dalla Mauritania: Seif Kousmate aveva cercato di indagare sulla schiavitù nel Paese vicino. Ufficialmente abolita soltanto nel 1981, di fatto è ancora una realtà per 40.000 individui, secondo le più affidabili fonti internazionali. In Marocco non si può parlare di formale presenza di schiavi, e tuttavia ancor oggi si presentano situazioni non dissimili. È il caso di molte "petite bonnes”, ragazzine cedute per miseria e ignoranza dai genitori a famiglie benestanti che le sfruttano e spesso le maltrattano. La legge è intervenuta recentemente per stabilire regole, tra cui l’età minima di 18 anni e un salario di 800 dirham mensili (circa 70 euro). Purtroppo, come spesso succede, la legge impiega anni per essere rispettata; intanto esistono casi documentati di bambine di 8-9 anni sfruttate come schiave al chiuso delle ricche case dei benestanti. Molto spesso poi il salario non viene garantito.
Le ragazzine che riescono a scappare da queste situazioni, vengono aiutate da associazioni per la difesa dei diritti umani e delle donne come Insaf, ma gli operatori lamentano la difficoltà di individuare i colpevoli, in quanto troppo spesso le "petite bonnes” non conoscono neppure l’indirizzo e il cognome della famiglia per cui lavoravano.
Intanto in Marocco si diffonde un senso di frustrazione per l’ingiustizia sociale imperante. Più sui social network che nelle piazze (dove la repressione è più facile in uno stato di polizia capillare).
Il 20 aprile scorso è comparsa una campagna anonima di boicottaggio di alcuni importanti prodotti nazionali: si chiede alla popolazione di non comprare carburante presso le stazioni Afriquia, latticini della Danone e acqua minerale Sidi Ali. Lo scopo è di fare pressione contro una politica dei prezzi elevati. Ora, Afriquia appartiene al potente e ricchissimo Akhannouch, ministro dell’agricoltura e figura emergente del Makhzen (il sistema di potere monarchico) e la Sidi Ali è di proprietà di un’altra ministra, la signora Bensalah. Una commistione tra affari e politica certo non nuova. La campagna di boicottaggio sta facendo presa sulla gente comune, mentre solo i partiti amministrativi e liberali la criticano apertamente e maldestramente, rivelando la crescente distanza tra Makhzen e Blad (il paese reale, governato): il primo cerca di accreditarsi nel quadro internazionale, ma è sempre più lontano dal sentire della maggioranza più povera, che è distante da quel Blad As Siba (Paese non sottomesso) dei tempi del colonialismo francese, ma è sempre più cosciente dell’ingiustizia sociale di cui è vittima.