Il tono e l’impostazione oracolare, unilaterale, negativa, acrimoniosa, paradossale, in cui mi riconobbi, oltre l’autorità di chi parlava dalla diretta pratica sociale, mi fecero in realtà ignorare le proposte più direttamente pedagogiche che non condividevo e che non ho mai condiviso: la rabbiosa discriminazione punitiva nei confronti dei ragazzi non proletari; la violenza anche fisica nei confronti degli scolari (quelli proletari! insomma, da chi si doveva nascere per avere un po’ di rispetto?); l’assolutismo pedagogico che tratta i ragazzi come materia inerte da plasmare secondo i nostri (interamente e solo nostri) progetti, a nostro insindacabile arbitrio.
Ero, anzi, convinto di un’educazione spontaneista e libertaria (con molto Rousseau), ed ero anche persuaso che l’oppressione della società adulta su bambini e ragazzi fosse una manifestazione dei più generali rapporti di espropriazione e violenza che avevano al centro la fabbrica. E mai mi sarei sognato di operare distinzioni di classe, a partire dai genitori, entro la categoria in sé dei giovani. E non era questione di ideologia, ma di carattere. In realtà, personalmente avevo subito ben poca oppressione dagli adulti e a scuola, figlio di proletari, c’ero stato benissimo. E tuttavia, accolsi facilmente in me quel parossismo negativo che pervadeva senza requie ogni frase del libro.
Di don Milani, ch’era già morto, non sapevo nulla né del cattolicesimo fiorentino né dell’uso ideologico che nella sinistra istituzionale si faceva dell’esperi-mento di Barbiana. Quella dose di estremismo andò a sedimentarsi confusa con gli altri materiali dei miei umori negativi: il tempo se li è portati via insieme con le idee che li contestavano.
Una decina d’anni fa -in un periodo in cui m’era parso di poter fare il pacifista- partecipai in un paesino del Mugello a un convegno organizzato da discepoli diretti e indiretti di don Milani, sul tema, più o meno, “Don Milani e l’educazione alla pace”. Che rapporto avesse don Milani con la pace non lo capii. In quell’occasione vidi esposto in bacheca un documento -una rarità, mi si disse-, una lettera volantino del priore rivolta a delle ragazzine che la domenica pomeriggio erano andate a ballare invece di dedicarsi a sviluppare la loro coscienza di classe: si erano comportate proprio come volevano i padroni. La lettera è di una violenza brutale e volgare quale non credo i padroni usino nei confronti dei lavoratori, come di uno che in virtù del suo ruolo profetico può frustare senza colpevole misericordia i reprobi, con un linguaggio duro e impudico compiaciutamente mutuato dalla Bibbia. Insomma, i poveri, specialmente se sono piccini e non si possono difendere, oltre le sofferenze inflitte dai padroni (e se anche don Milani fosse un “padrone”, di grado superiore?) devono subire anche quelle del profeta che dai padroni li vuole liberare. Naturalmente, tutto per il vero bene, che il profeta conosce, del popolo, al quale va infilato in testa a martellate. Al povero non è nemmeno concesso di divertirsi, di distrarsi. Patire e patire. E per i bambini, altro che gioco! “Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi (i borghesi). Noi contadini non ci avete interrogati” (osservate l’abilità di squalificare la seconda affermazione mettendola in parallelo indebito con la prima, che effettivamente non è così vera). Ecco il mostruoso risultato dell’innesto dell’eresia manichea sulla questione sociale. Passi che un profeta mi richiami, anche con linguaggio d’odio perché appartengo alla sua setta o al suo popolo, indirizzandomi ai beni dell’altro mondo, senza però negarmi del tutto questo mondo; ma un profeta che si scaglia sui bambini, negando completamente infanzia e adolescenza, nutrendoli di rancore e di odio (sarà l’educazione alla pace!), per il bene finale di diventare sindacalisti...
L’anno scorso è uscito un piccolo libro, molto equilibrato, di un ex-preside e funzionario della Pubblica Istruzione, che vi consiglio vivamente: Roberto Berardi, Lettera a una professoressa - Un mito degli a ...[continua]
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