Non dovrebbero esserci dubbi che per militarismo s’intende il proposito di risolvere le questioni politiche con la forza militare. Qualora tale intendimento fosse condiviso dalla società in cui si manifesta, l’utilizzazione della forza militare sarebbe ritenuta non solo legittima, ma anche un valore preminente e la gerarchia militare godrebbe di un grado elevato nella considerazione popolare, influirebbe in modo determinante sulla politica estera e i suoi massimi gradi avrebbero accesso alle più alte cariche dello Stato. C’è da chiedersi se in Israele, sulle componenti ideali che animarono il sionismo, non sia prevalso il militarismo. E’ utile ricordare, che, come ha spiegato Tocqueville già 166 anni fa (La democrazia in America), nell’esercito di uno stato democratico “si desidera ardentemente la guerra”, perché per i militari più ambiziosi e capaci è occasione di progresso sociale e politico; infatti i militari in guerra hanno l’opportunità di scavalcare la rigida successione delle promozioni regolamentata dal principio d’anzianità. In Israele tale occasione s’è più volte presentata e c’è da chiedersi se, a partire dagli anni Cinquanta, non sia stata provocata.

Sharon, nato nel 1928, cresce a Kfar Mallal, un moshav (villaggio cooperativo) di poche famiglie a 25 chilometri da Tel Aviv nell’interno della Palestina, spesso attaccato da beduini. Cresce così nell’inquietudine per gli arabi per i quali presto manifesta repulsione e ostilità. Non solo, Baruch Kimmerlin, docente di Sociologia alla Hebrew Universtiy di Gerusalemme, in un impietoso ritratto (Politicidio, Sharon e i palestinesi, Fazi Editore, Roma 2003) sottolinea una tormentata puerizia per i diverbi del padre arrogante con i compaesani.
Durante la Guerra d’Indipendenza Ariel Sharon viene promosso ufficiale sul campo perché non aveva frequentato la scuola per ufficiali. Alla fine di maggio del 1948 partecipa, comandante di un plotone, alla sfortunata battaglia di Latrun dove viene ferito e nel successivo fine-dicembre al vano tentativo di eliminare la Sacca di Faluja (una brigata egiziana intrappolata nel Negev). Episodi che lo inducono, insieme ad altri ufficiali, ad accusare lo Stato Maggiore di incompetenza nel condurre la guerra e soprattutto d’inerzia per non avere occupato l’intera Palestina e permesso a comunità arabe di continuare a vivere in Israele. Da allora Sharon ha preso l’abitudine d’adattare gli ordini ricevuti accentuandone l’aspetto aggressivo e provocatorio, contestualmente al suo proposito militarista nel confronto con gli arabi. Tutt’altro che alieno dal contravvenire agli ordini ricevuti, giustifica i fatti compiuti con la necessità della sicurezza e del risparmio di vite umane ebree. Per la straordinaria sagacia tattica, si segnala all’attenzione del colonnello Moshe Dayan dal quale ottiene protezione e incoraggiamento. Nel 1950 termina un corso di addestramento per comandanti di battaglione agli ordini del tenente colonnello Yitzhak Rabin.
Nel 1953 Ben Gurion chiama al ministero della Difesa Pinhas Lavon, un acceso militarista, e nomina capo di Stato Maggiore Moshe Dayan. La strategia delle rappresaglie contro la popolazione civile (colpire collettivamente gli abitanti del luogo di provenienza dei terroristi, anche a fini dimostrativi della schiacciante e terrorizzante superiorità militare) diventa da allora il sottofondo della politica estera israeliana e in seguito delle operazioni repressive nei territori occupati (A. Shlaim, Il muro di ferro, Casa editrice il Ponte, Bologna 2003, pp. 128-132).
C’è da chiedersi se l’opinione pubblica israeliana si rendesse conto che l’uccisione intenzionale di civili disarmati fosse terrorismo. Non a caso, infatti, nel massimo riserbo venne decisa l’Unità 101 finalizzata a condurre azioni di rappresaglia nei villaggi oltre frontiera ritenuti basi di fedayin; al maggiore Ariel Sharon ne furono affidati il reclutamento (una quarantina di irregolari spietati, rotti ad ogni audacia) e il comando. Il 29 agosto 1953 la prima impresa: l’irruzione nel villaggio di Burej (Striscia di Gaza) alla ricerca del presunto responsabile di fedayin infiltrati in territorio israeliano; non avendolo trovato reagiscono al ferimento di due di loro uccidendo indiscriminatamente 40 civili palestinesi. “Seguirono raid ancora più omicidi che culminarono nella notte del 15 ottobre” (Martin van Cleve, La spada e l’ulivo, storia dell’esercito israeliano, Carocci editore, Roma, 2004, p. 201) a Qibiya ...[continua]

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