Abdesselam Cheddadi è professore presso l’Istituto Universitario della Ricerca Scientifica dell’Università Mohammed V, a Rabat. Ha partecipato al primo Incontro del Mediterraneo, svoltosi l’ottobre scorso a Riccione e dedicato al tema di Islam e democrazia; l’incontro, organizzato dal Comune di Riccione, è stato curato da Una Città; vi hanno partecipato, oltre a Abdesselam Cheddadi, Latifa Lakhdar, femminista tunisina, Nadia Aït Zai, giurista algerina, Soheib Bencheikh, muftì di Marsiglia, Jean Pierre Henry, dell’arcivescovado di Algeri, Franco de Courten e Gianni Sofri. Quella che segue è la relazione presentata da Abdesselam Cheddadi, intitolata: “La questione della “tolleranza” nelle società islamiche: una prospettiva storica”. Nell’originale francese, uscirà sulla rivista Esprit.

Islamismo, fondamentalismo, integralismo, tante parole per designare una stessa realtà, “l’intolleranza”, che caratterizzerebbe l’Islam moderno, se non addirittura l’Islam tout court. Nei paesi musulmani, le reazioni non possono, evidentemente, essere troppo vivaci nel respingere ciò che costituisce oggi, agli occhi del mondo, il più grande anatema che si possa scagliare contro una civiltà, una religione, una nazione. D’altronde, nell’Occidente stesso, non mancheranno persone per denunciare questo giudizio in quello che ha di riduttivo e di eccessivo, o almeno, per sfumarlo, fare dei distinguo, ricordare i periodi in cui, a Baghdad, Toledo o Istanbul, l’Islam aveva dato prova della più grande tolleranza religiosa e etnica. Tuttavia, qualunque sia il credito che si concede a questo genere di giudizio generale pronunciato abusivamente a proposito di una civiltà e di società nello stesso tempo molto varie e molto complesse attraverso il tempo e lo spazio, il semplice fatto della sua apparizione e della sua larga diffusione in un momento particolare della nostra storia moderna, quello in cui, paradossalmente, si sta compiendo un passo decisivo verso la concretizzazione della mondializzazione, è l’indizio che un nuovo capitolo si è aperto nei rapporti fra l’Occidente e l’Islam, un capitolo in cui si rischia di assistere a una re-istituzione di frontiere rigide e a una riattivazione dell’antagonismo.
Che si veda il futuro come destinato a uno “scontro di civiltà” o si cerchi di scrutare “la malattia dell’Islam”, si affrontano qui, in realtà, questioni fondamentali che superano l’ambito dei paesi musulmani e che si collocano nel cuore della Modernità. Che fare di continenti interi che non si possono più considerare come semplici appendici economiche dell’Occidente? Che fare delle culture e civiltà premoderne non occidentali rimaste vitali fino ai nostri giorni, quando non si può più trattarle come semplici oggetti etnologici o antropologici? Come interpretare l’apparente resistenza di queste ultime di fronte all’immensa ondata di modernizzazione che ha dilagato nel mondo, in paesi che sono, per altro, totalmente integrati alle reti mondiali dell’economia, della comunicazione e della tecnologia? Come reagire ai disagi e alle turbolenze di cui questi paesi sono il teatro?
Le manifestazioni di resistenza che si osservano nelle diverse regioni del mondo, e in particolare nei paesi musulmani, nei confronti della modernizzazione sono il più delle volte interpretate come segni di “intolleranza”. Nell’epoca della modernità, la “tolleranza” occupa un posto fondamentale non solo come valore religioso, morale o politico, ma come la condizione della socializzazione e dell’esercizio del pensiero; e, associata ai diritti dell’uomo nella loro più larga comprensione, come l’elemento strutturante del sociale, della politica e dell’economia. L’ “intolleranza” non può apparire, quindi, che come il male assoluto, e l’opposizione “tolleranza/intolleranza” può così perfettamente servire dottrine come quella dello “scontro delle civiltà”
Si può prima di tutto fare notare che l’intolleranza -nel significato nuovo che bisogna darle quando si parla delle società moderne- non risparmia, ahimé, le società occidentali, tutt’altro. In effetti, essa vi riveste nello stesso tempo forme interne ed esterne: le prime si manifestano nelle disfunzioni della democrazia, nei fondamentalismi religiosi, e nel razzismo; le seconde si coprono dietro i rapporti di egemonia e di dominio sul piano militare, politico, economico e culturale.
Probabilmente troppo flessibile, ammettendo usi diversi, livelli e gradi variabili, il concetto di tolleranza ha, tuttavia, il vantaggio da una parte di fare convergere su di sé in modo positivo e diretto i valori di libertà, giustizia, dialogo, apertura, comprensione e, dall’altra, di designare indirettamente come condannabili le diverse forme di oppressione e di violenza contro lo spirito, tutti i tipi di totalitarismo e di pensiero unico, tutti gli atteggiamenti di razzismo, di chiusura e di esclusione. Questa ricchezza e questa mutabilità indeboliscono questo concetto, rendendone problematica la realizzazione. Oggi, affinché sia operativo per noi, dobbiamo riattualizzarne costantemente e con la più grande vigilanza il contenuto e le condizioni d’esercizio.

E’ evidente che oggi sia le società occidentali che quelle non occidentali attraversano un periodo di crisi: crisi interna che ha caratteristiche specifiche da entrambe le parti, e crisi dei loro rapporti. Questa doppia crisi, legata alla mutazione della democrazia negli uni, alle difficoltà incontrate sulla via dell’adozione della democrazia negli altri, invita a una riflessione approfondita sull’insieme del processo avviatosi con la grande trasformazione iniziata in Europa e che oggi si estende in modo irreversibile a tutto il mondo. E’ sotto questo aspetto, insistendo sulla dimensione storica, che vorrei riprendere qui la questione della “tolleranza” nelle società islamiche.

Le grandi civiltà premoderne, che sono coesistite nell’emisfero nord nel corso di migliaia di anni, hanno privilegiato per molto tempo, sia sul piano interno che esterno, le dimensioni di conservazione e di continuità, concedendo solo un piccolissimo margine a quella che chiamiamo oggi “tolleranza”. Il ritmo del cambiamento in tutti i campi era molto lento; essendo le condizioni e le regole a determinare le identità collettive, le entità politiche, i sistemi educativi, la diffusione delle conoscenze, i mezzi di scambio e di comunicazione, le relazioni internazionali erano molto rigide e, il più delle volte, dominate da una ideologia religiosa dell’immutabilità della verità. Le minacce esterne erano reali e quasi permanenti. Per respingerle, occorreva un’identità forte, la qual cosa favoriva ancora di più gli esclusivismi culturali e religiosi.
Se si devono ricercare i primi passi verso una maggiore flessibilità, bisogna risalire all’epoca della formazione di ciò che M. G. S. Hodgson ha chiamato, sulla scia di K. Jaspers, “l’età assiale”, che va approssimativamente dall’800 al 200 a.C., “quando furono formulati i più grandi temi delle principali tradizioni colte premoderne”, cinese, indiana, ellenica, e iraniano-semitica1. Tuttavia, qualunque sia stata l’ampiezza delle rivoluzioni religiose, politiche, tecnologiche e economiche realizzate progressivamente con lo sviluppo delle religioni monoteiste, soprattutto quando si affermarono come religioni universali, malgrado i progressi scientifici e tecnologici considerevoli raggiunti nelle aree di civiltà ellenica, iraniana, indiana e cinese e, più tardi, con l’estensione, nel campo islamico, del modello della società commerciale e l’allargamento e l’intensificazione delle relazioni commerciali internazionali, la capacità d’adattamento e di apertura, il ritmo del cambiamento restarono costretti dappertutto in limiti molto ristretti.

I. Il margine di tolleranza all’epoca dell’Islam classico
L’Islam classico è a questo proposito esemplare. Sul piano intellettuale, il suo periodo formativo è stato segnato dal pluralismo. L’elaborazione del sistema dogmatico e di quello giuridico, che è durata per due o tre secoli, è stata effettuata in un’atmosfera di dibattito in cui si sono confrontate le opinioni più diverse, in cui si possono seguire le tracce di un vastissimo spettro di dottrine religiose e filosofiche. Una delle migliori testimonianze di questo pluralismo è la profusione e la diversità delle tradizioni attribuite a Maometto, che si contavano a centinaia di migliaia prima della formazione del corpus delle tradizioni dette “autentiche”. La fratellanza fra gli uomini, l’invito alla conoscenza reciproca, la pari dignità degli individui, dei gruppi e dei popoli sono esaltate basandosi sul Corano e la Tradizione profetica. Oltre all’affermazione coranica secondo la quale gli uomini sono i vicari di Dio in terra, si potevano invocare citazioni del tipo : “Dio vi ha creati e disposti in popoli e tribù, affinché vi conosciate l’un l’altro. Il più nobile fra di voi presso Dio è quello che lo teme di più”, “Niente distingue un Arabo da un non-Arabo se non il timore di Dio”, “Non c’è nessuna costrizione in materia di religione”. Un filosofo come al-Fârâbî ha riabilitato l’utopia politica della “città virtuosa”, mentre Averroè ha tentato di definire i rispettivi campi della fede e della ragione. Infine, un mistico come Ibn ‘Arabî ha dato forse allo spirito di tolleranza e d’amore la sua espressione più chiara e più elevata, come in questi versi:
Ormai il mio cuore è aperto a tutte le forme: prateria per le gazzelle, è anche monastero per i monaci; / tempio per gli idoli e Kaaba per il pellegrino, è anche tavole della Torah e fogli del Corano / Io professo la fede dell’amore; ovunque si trovi, l’amore è la mia religione e la mia fede2.
Per di più, la cultura islamica si è aperta molto presto alle idee scientifiche e filosofiche di provenienza greca e ellenistica, ma anche iraniana e indiana. La comunità scientifica dell’epoca abbaside, in cui sono vissuti fianco a fianco musulmani, ebrei, cristiani e zoroastriani, dopo aver compiuto un’opera di traduzione senza precedenti per ampiezza e qualità, ha potuto allo stesso tempo, come ha dimostrato recentemente il ricercatore americano Dimitri Gutas3, fare progredire la scienza e il pensiero in tutti i campi. L’idea che la scienza sia un’opera universale aperta al contributo di tutti gli uomini -che è uno dei fondamenti della nostra modernità attuale- ha trovato allora la sua espressione più compiuta prima dell’epoca moderna.
Sul piano dell’organizzazione sociale, economica e politica, la flessibilità relativa del sistema islamico non era meno notevole. Teoricamente il diritto musulmano riconosceva solo gli individui cui era affidata la responsabilità dell’applicazione della legge di Dio, la sharî’a, ma senza abolire formalmente le antiche strutture sociali, specialmente tribali. L’uguaglianza davanti alla legge, la regolamentazione dei rapporti, in particolare economici, fra individui e gruppi attraverso contratti, un’etica favorevole agli schiavi e che incoraggiava la loro liberazione, l’istituzione di una conseguente forma di solidarietà sociale per mezzo dell’elemosina legale -la zakât, una sorta di decima sul patrimonio-, la regolamentazione dello statuto e dei diritti delle minoranze religiose, in particolare il diritto di ognuno di praticare liberamente la propria religione e di dipendere dalla giurisdizione della propria comunità, hanno costituito dei progressi giuridici e sociali considerevoli. La minore rigidità dell’organizzazione politica della comunità musulmana conseguente al frazionamento dell’impero arabo, l’apertura delle frontiere, nei limiti del mondo musulmano, fra popoli estremamente diversi, la libera circolazione degli uomini, la diffusione senza alcuna restrizione delle conoscenze religiose, scientifiche e tecniche così come delle forme artistiche e letterarie, hanno costituito ugualmente tanti fatti indubbi che testimoniano un grado avanzato di spirito di uguaglianza, di dialogo e comprensione reciproca a livello di individui e popoli.

II. I limiti del sistema islamico
Eppure, tutto questo non deve nascondere i limiti che il sistema islamico ha continuato a rivelare sia a livello della vita intellettuale e religiosa sia in quello dell’organizzazione sociale; limiti inerenti a tutte le civiltà agrarie o agro-pastorali premoderne. In effetti, il dibattito religioso e filosofico non ha potuto resistere alla tendenza all’instaurazione di un’ortodossia. Sia in campo dogmatico che in campo giuridico, un numero ristretto di correnti hanno finito per imporsi. Le scienze coraniche hanno disegnato le regole e i limiti dell’interpretazione del testo sacro, le scienze della Tradizione profetica hanno fatto la cernita fra le “buone” e le “cattive” tradizioni profetiche e messo fine alla produzione e circolazione delle tradizioni apocrife, una volta rifugio delle antiche saggezze e delle idee e opinioni in deficit di legittimità. Un’ideologia del consenso per la salvaguardia dell’unità della comunità, attraverso la caccia alle eresie, la dissuasione della “riflessione personale” (ijtihâd), la canalizzazione e la neutralizzazione delle “divergenze”, ha portato all’eliminazione o all’emarginazione delle correnti giudicate eterodosse o eretiche. Progressivamente, la filosofia, soprattutto nel suo aspetto metafisico, ha visto restringersi le sue prerogative fino a trovarsi praticamente esclusa dal campo intellettuale; e anche le attività puramente scientifiche si sono viste imporre delle restrizioni.
E’ un peccato che tutto questo processo di inquadramento e di controllo, sviluppatosi in un periodo da tre a sei secoli secondo ritmi diversi e in condizioni differenti da una regione all’altra del mondo islamico, venga ancora oggi studiato poco e male in quelle che sono le sue cause profonde e le circostanze del suo sviluppo concreto. I concetti di declino e di stagnazione che si utilizzano di solito sia per descriverlo che per spiegarlo sono tautologici, e non ci sono di nessun aiuto per comprenderne il significato e i meccanismi.
A livello dell’organizzazione sociale e politica, il sistema islamico ha pure cozzato contro certi limiti. Molte strutture sociali preislamiche e un numero importante di consuetudini giuridiche sono state mantenute. L’ineguaglianza fra l’uomo e la donna, senz’altro attenuata, è stata istituzionalizzata sul piano civile e politico. La schiavitù, che ha conosciuto solo in modo molto episodico una dimensione economica, è stata tuttavia mantenuta, anche sotto una forma domestica e attenuata. Le condizioni concesse alle minoranze religiose, nonostante certi aspetti positivi, hanno mantenuto nell’inferiorità i non-musulmani di confessione monoteista, e hanno destinato all’esclusione e alla guerra gli adepti di altri tipi di religione. L’egualitarismo innato dell’Islam e la sua esaltazione della giustizia non hanno impedito né lo sfruttamento dei potenti né la tirannia del potere. Nelle sue relazioni con l’esterno, il sistema islamico ha mantenuto la religione come criterio d’identità preponderante e di differenziazione con l’istituzionalizzazione della distinzione fra l’Islam e ciò che non lo è, fra l’ “Ambito dell’Islam” (Dâr al-Islâm) e l’“Ambito della Guerra” (Dâr al-harb). Teoricamente, l’opposizione era irriducibile. Storicamente, aveva origine nel confronto e rivalità fra due pretese imperiali, quella di Bisanzio e quella di Damasco, poi di Baghdad. Le controversie teologiche fra le due comunità, quella cristiana e quella musulmana, che questa rivalità hanno nutrito per almeno tre secoli, non hanno mai potuto veramente portare avanti il dialogo. Al contrario, hanno largamente contribuito all’ignoranza reciproca delle società musulmane e cristiane per tutto il Medio Evo. Tuttavia, è bene ricordare che l’opposizione e l’ostilità hanno potuto talvolta e in certi campi essere superate. A Baghdad, a Cordova, a Toledo, a Marrakech, come a Barcellona, a Palermo e in tanti altri posti, artisti e studiosi ebrei, musulmani e cristiani hanno potuto incontrarsi e lavorare insieme. Fra le due sponde del Mediterraneo, scambi di informazioni tecnologiche e scientifiche, transazioni commerciali intense hanno potuto aver luogo, benché storicamente più proficue per i paesi occidentali che per i paesi musulmani, almeno fino al XIII secolo.
Così, nel contesto delle civiltà premoderne, il mondo dell’Islam, soprattutto nel suo periodo classico, ha sviluppato un margine di tolleranza notevole sia a livello delle costruzioni intellettuali che a quello delle costruzioni sociali, giuridiche ed economiche, forse il più ampio che il mondo avesse conosciuto fino allora. Ma si può affermare oggi che, per ragioni che restano da chiarire, non ha saputo salvaguardare questo margine di tolleranza né spingerlo oltre. E’ altrove, in Europa, che quel margine conoscerà nuovi sviluppi.

III. La Rivoluzione moderna in Europa e l’imperativo d’allargamento del margine di tolleranza
Fra il XII e il XV secolo, l’Europa ha potuto recuperare il suo ritardo scientifico e tecnologico e ha cominciato un’offensiva commerciale di grande portata diventando la prima potenza marittima mondiale. La rete molto complessa di cause all’origine del processo della Modernità che l’Europa ha iniziato e sviluppato resta ancora oggetto di discussione e di studio e probabilmente lo resterà ancora per molto tempo. Ma una delle sue caratteristiche più notevoli, che qui ci interessa moltissimo, è l’inversione della relazione fra conservazione e cambiamento, fra continuità ed evoluzione. Progressivamente e in tutti i campi, sono ormai il cambiamento e l’evoluzione che prevalgono. Pur generalizzandosi, il ritmo del cambiamento accelera, e l’instabilità -o addirittura la crisi- diventa un elemento costitutivo essenziale della vita moderna. La dinamica della società si struttura sulla base di un doppio ideale di progresso indefinito, della produzione economica e della scienza e della tecnologia. Ognuna delle diverse sfere del pensiero e dell’organizzazione sociale, una dopo l’altra, senza eccezione alcuna, vede crollare il dogma di una verità monolitica e immutabile.
A partire da tutti questi fatti, l’allargamento del margine di tolleranza diventa un imperativo assoluto. Diventato una necessità, si istituzionalizza e si sostiene con la definizione di diritti e doveri e l’istaurazione di regole del gioco. I risultati sono noti, e non c’è alcun bisogno di insistere in questa sede. Basti ricordare, limitandosi ad enumerarli, alcuni fra i più importanti: il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti gli uomini nei diritti e nella dignità, nonché della persona umana come soggetto della società; la separazione della Chiesa e dello Stato e la laicizzazione progressiva di vasti settori della vita sociale; il pluralismo politico, la divisione, la diffusione, e la regolamentazione dei poteri con l’instaurazione della democrazia; la libertà d’opinione e di culto; l’esaltazione dello spirito critico, della libera iniziativa e della creatività come valori vitali per la società e come sorgenti di valorizzazione degli individui; infine, last but not least, l’organizzazione e la diffusione delle conoscenze e delle informazioni, e la generalizzazione di una cultura generale di livello elevato. In un certo senso, si può dire che la tolleranza sia un’invenzione della modernità, e che tutte le società del passato fossero fondamentalmente intolleranti.

IV. Il carattere essenzialmente mondiale della Modernità
Come un tempo la Rivoluzione neolitica, verificatasi dapprima in Mesopotamia, si era poi propagata nell’insieme delle aree di civiltà dell’emisfero nord, così la Rivoluzione moderna, dapprima sviluppatasi in Europa, ha avuto la tendenza fin dall’inizio a propagarsi sul resto del pianeta. In realtà c’è più di questo: data la sua ideologia razionalista e universalista, la sua propensione all’espansionismo, e dato lo stato avanzato del livello degli scambi nel mondo all’epoca in cui è sorta, la Modernità europea ha avuto quasi immediatamente un carattere mondiale.
Fra la fine del XVIII e la fine del XX secolo, seguendo peripezie e logiche diverse da una regione all’altra, si è imposta sulla terra come la sola base possibile di sopravvivenza materiale dell’umanità. Questo non significa che sia stata accettata e assimilata nella stessa misura dappertutto. Ne risultano due serie di problemi: la prima è legata alla comprensione della natura delle resistenze e delle difficoltà di assimilazione degli ingredienti fondamentali della modernità, e alla definizione dell’atteggiamento da tenere nei confronti di queste difficoltà e resistenze; la seconda è in rapporto con la necessaria formazione di una coscienza e di uno spirito di responsabilità su scala universale.
Il processo di allargamento del margine di tolleranza è per natura incerto, per il fatto che si scontra sempre con la tendenza contraria, cioè con la tendenza al conservatorismo e alla restrizione delle libertà. A questo si aggiungono, nel contesto della Modernità, l’estrema rapidità del ritmo dei cambiamenti e la novità radicale dei problemi che si pongono. Per tutte le società, l’epoca che attraversiamo nasconde numerosi pericoli che costituiscono una minaccia per le libertà e che rischiano di restringere il margine di tolleranza. Sono, per esempio, la crisi dei valori relativi all’individualismo, alla socializzazione, alla scuola; l’ossificazione della democrazia, svuotata della sua sostanza col trasferimento dei poteri reali alle potenze economiche e ad organismi burocratici nazionali, regionali o internazionali; l’egemonismo dello spirito di profitto col pretesto del liberalismo; il dominio delle forze economiche, il controllo dei media da parte di una minoranza; la separazione delle attività scientifiche e la loro sottomissione alle potenze economiche; la commercializzazione eccessiva delle produzioni artistiche e letterarie.
Per le società occidentali, questi diversi problemi sono il risultato di un’evoluzione che si iscrive nel corso naturale della loro storia. Corrisponde loro una struttura e tutta una serie di meccanismi in cui essi possono normalmente trovare delle soluzioni.
Le società non occidentali, invece, hanno conosciuto un corso della storia recente molto più complesso, la cui direzione naturale è stata contrastata e deviata in modo brutale da forze esterne. Anche se esse sono integrate nei circuiti commerciali e nelle reti di comunicazione, nondimeno l’adozione e l’assimilazione da parte loro degli elementi fondamentali della Modernità resta frammentaria e precaria.
Vi ci si ritrovano gli stessi tipi di problemi delle società occidentali, ma molto più ingarbugliati e aggravati da altri più specifici, legati alle difficoltà del processo di modernizzazione; inoltre, cozzando spesso contro l’assenza di una struttura e di meccanismi appropriati per risolverle, le difficoltà si accumulano continuamente, si intrecciano, e finiscono con l’apparire insolubili. Non è a caso che, mentre le società occidentali conoscono un lungo periodo di pace dopo la fine della seconda guerra mondiale, le regioni del pianeta in cui si incontrano le più grandi tensioni, il maggior numero di guerre civili e, per evocare un dramma recente, i maggiori focolai di terrorismo, si localizzano nelle società non occidentali.

V. La questione della “tolleranza” nelle società islamiche moderne
Nella loro quasi totalità, le società islamiche fanno parte di queste regioni di tensione e di crisi. E’ in seno a queste società che si conta nel corso degli ultimi decenni il più gran numero di zone di conflitto e di guerra, e forse è anche nel loro seno che si pone con più intensità la questione della tolleranza. Rendere l’Islam o la cultura islamica responsabili di questa situazione, come fanno alcuni con molta malafede o irresponsabilità, è una pura assurdità. In primo luogo, perché l’Islam stereotipato, omogeneo, e atemporale che evocano, esiste solo nella loro immaginazione. Poi, perché, come ricordato prima, la storia dimostra che nel periodo classico dell’Islam e fino alla vigilia della Modernità, le società islamiche, sicure di se stesse, rappresentavano forse le società in cui il margine di tolleranza era più grande, in ogni caso certamente non minore che in ogni altra società contemporanea. Se è vero che è bene risalire il corso della storia per capire quello che succede oggi nelle società islamiche, importa soprattutto considerare il momento in cui questo corso ha conosciuto il suo più grande riflusso.
Ora, questo momento è indiscutibilmente quello del loro confronto con la nuova potenza europea attorno al XIV e XV secolo, quando le prime manifestazioni della Modernità hanno cominciato a farsi luce. Come hanno compreso questo confronto? Come l’hanno interpretato e vissuto? Come vi hanno reagito? Come e in quali condizioni si sono evolute? E’ su questo che bisogna interrogarsi.
Gli studi effettuati su questo tema in Occidente non permettono di rispondere a tali interrogativi in modo soddisfacente, mentre, presso le società islamiche, restano quasi interamente da porsi. Le questioni che restano fino ad oggi senza risposta sono molteplici. Mi accontenterò di ricordarne due che mi sembrano cruciali.
La prima, che è stata continuamente stata posta dall’inizio del XX secolo, ma che resta pertinente, è la seguente: perché il Giappone, un paese che si trova agli antipodi dell’Europa, è stato capace di adottare i principali ingredienti della Modernità, a differenza delle società musulmane, la maggior parte delle quali avevano frontiere comuni con il continente europeo? Eppure, queste disponevano, apparentemente, delle migliori atout: contatti permanenti e scambi commerciali con l’Europa che si sono intensificati dal XIII secolo; eredità religiose e scientifiche comuni; uno spirito riformista che raggiunge fondamentalmente quello della Riforma di cui Max Weber ha fatto una delle basi essenziali dello sviluppo del capitalismo; fino al XV secolo e forse oltre, un livello scientifico e tecnologico, anche nel campo del commercio e dell’amministrazione, equivalente se non superiore a quello degli Stati europei; infine, e questo è l’aspetto meno conosciuto, la separazione di fatto fra potere e religione4, che l’Europa riprenderà molto più tardi attribuendosene il merito col nome di laicità, e che costituirà una delle chiavi decisive del suo sviluppo.
La seconda questione è questa: data la rivalità secolare fra il mondo cristiano e quello musulmano, perché quest’ultimo non ha potuto sviluppare immediatamente, come reazione all’aumento di potenza dell’Occidente, una cultura concorrente grazie alla quale avrebbe potuto resistere vittoriosamente alla sua offensiva? Eppure, anche qui, le società islamiche non mancavano di vantaggi importanti: fra il VII secolo e la fine del Medio Evo, l’Islam, di fronte a culture così vigorose come quella di Bisanzio, dell’India, e della Cina, aveva potuto promuovere una cultura originale e conquistatrice; e, fino al XV secolo, e anche oltre, i rapporti di forza nel mondo erano piuttosto favorevoli agli Stati islamici.
In effetti, queste due questioni riguardano la natura profonda della rivoluzione moderna.
La risposta alla prima, che può essere solo provvisoria, deve mettere l’accento, in primo luogo, sugli aspetti sociali e religiosi. Alla base, c’erano probabilmente due grandi tendenze i cui effetti, dapprima poco visibili, avrebbero progressivamente rivelato tutta la loro nocività: prima di tutto, le società musulmane avevano una fiducia cieca nel loro sistema ideologico, giuridico, economico e sociale, il che le spingeva ad un eccesso di conservatorismo e alla limitazione della loro creatività; e soprattutto, in secondo luogo, lasciarono che si instaurasse a poco a poco un autoritarismo politico sempre più pronunciato, congiunto a un blocco progressivo della mobilità sociale, a un indebolimento del cosmopolitismo intellettuale e a un inquadramento sempre più soffocante tramite i movimenti e le confraternite mistiche, che le relegavano a un atteggiamento di passività di fronte a un nuovo rivale che faceva del movimento e della creatività il principio stesso di esistenza.
Ma non bisogna trascurare un aspetto più soggettivo: se le società musulmane non hanno adottato rapidamente la rivoluzione moderna sorta in Europa, è perché, giustamente, erano troppo vicine all’Europa. L’Europa cristiana era l’alter ego del mondo musulmano, e viceversa. L’umiltà di cui ha dato prova il Giappone andando a scuola dall’Europa dopo un periodo abbastanza lungo di chiusura era inconcepibile per gli Stati musulmani e per le loro società. Gli elementi che questi hanno imitato fin dall’inizio del XVIII secolo in qualche caso, e più massicciamente a partire dal XIX secolo -l’organizzazione militare, la tecnologia delle armi, e anche certi aspetti della produzione industriale- non hanno superato la logica e il livello degli scambi medievali. Anche più tardi, quando le terre musulmane hanno subìto l’occupazione, hanno conservato lo stesso leit motiv: “Importare ciò che ci è utile senza toccare l’essenziale”. Sono rari coloro che hanno capito, e questo fino ai nostri giorni, che la Modernità è un tutto indivisibile e che, per salvaguardare l’essenziale, non si poteva prescindere da una fase di perdita totale e di ricostruzione.
Da parte sua, l’Europa ha visto negli Stati islamici i suoi principali concorrenti, intanto perché occupavano i territori cui ambiva per la sua espansione, e poi perché rappresentavano sul piano commerciale dei competitori all’altezza. Sul piano culturale, da quando prese coscienza di se stessa come potenza emergente -o più precisamente nel corso stesso del processo di presa di coscienza- l’Europa si è proclamata auto-costituita, riallacciandosi misticamente all’eredità greco-romana e occultando ogni debito verso le altre civiltà, in particolare quella islamica.
Infine, si può menzionare un altro aspetto importante: la Modernità europea si è edificata sulla base di una lotta contro i valori medievali, politici ma anche religiosi ed etici.
Ora, l’Islam, dopo avere incarnato per l’Europa cristiana, durante l’epoca medievale, l’Altro per eccellenza, è sembrato agli Europei del XVII, XVIII, XIX secolo, viaggiatori, commercianti, studiosi, come la rappresentazione vivente delle sopravvivenze del Medio Evo o di epoche ancora più arcaiche. Di questo, l’Orientalismo, fino a una data recente, costituisce la migliore testimonianza.
Alla seconda domanda, la risposta, ugualmente provvisoria, che si può dare è che da una parte la rivoluzione moderna avrebbe ben potuto prodursi altrove, in Cina o in un paese islamico, sia pure con alcuni secoli di ritardo, perché lungi dall’essere attribuibile solo all’evoluzione propria dell’Europa, è la risultante di tutte le esperienze delle civiltà agro-pastorali accumulatesi nel corso dei millenni; d’altra parte a causa dell’unificazione culturale realizzata dall’Islam in una grande parte del mondo e dello sviluppo raggiunto dalla rete del commercio internazionale, e a causa, anche, dei nuovi valori portati dal vento di riforme in Europa, in particolare il razionalismo e lo spirito di profitto, la Modernità nata in Europa ha avuto quasi fin dal suo inizio, come abbiamo già visto, una dimensione mondiale.
Questo significa che dopo la Grande Trasformazione moderna, era improbabile che una civiltà concorrente della civiltà moderna nata in Europa potesse sorgere altrove nel mondo. In realtà l’idea stessa di una tale eventualità è assurda e costituisce una contraddizione in sé, per il fatto che, date le condizioni che prevalevano al momento dell’innesto del processo della rivoluzione moderna, la posta in gioco era precisamente la mondializzazione. Come hanno dimostrato a posteriori l’esperienza degli ex paesi socialisti dell’Est, e in un certo modo, la stessa resistenza dell’Islam, è contraddittorio volere una mondializzazione bipolare o multipolare, perché non sarebbe più una mondializzazione. Questo non significa, evidentemente -e tornerò su questo punto- che la mondializzazione debba necessariamente portare a uniformare. Al contrario, affinché si costituisca come mondializzazione vivibile, oggi sappiamo che è necessario che gestisca nel suo seno la diversità, che lasci esprimere liberamente la differenza. Questa posta in gioco fondamentale è indubbiamente ciò che oggi dà alle nozioni di libertà e tolleranza il loro carattere di necessità e allo stesso tempo ciò che costituisce la loro sostanza.

VI. Cause della situazione attuale nelle società islamiche
Le società islamiche oggi soffrono doppiamente: dapprima, confusamente, per la frustrazione di non avere potuto interpretare correttamente e fatto propria attivamente la grande trasformazione della Modernità; poi, avendola subita per forza di cose e a un prezzo esorbitante, soffrono per la grande fatica che compiono per integrarne gli elementi costitutivi fondamentali. Per queste società, è quindi vitale rifare il cammino per tentare di capire le ragioni per le quali esse si trovano ancora oggi in una situazione di indecisione, confusione, incertezza, dopo due secoli di esperienze non riuscite, di azioni velleitarie, di una dipendenza nei confronti dell’estero che non si è indebolita dopo la decolonizzazione, ma ha semplicemente preso forme nuove, meno visibili. Una tale riflessione riguarda prima di tutto la presente generazione degli intellettuali musulmani ma è anche un problema della Modernità in quanto tale, che riguarda gli uomini da qualsiasi parte si trovino, in Africa, in Cina o in India. Ottimamente esplorata dallo storico americano G. S. Hodgson5, autore morto troppo giovane, e sfortunatamente troppo poco conosciuto, la storia dell’Islam -e il tentativo di una storia mondiale- va perseguita con più vigore e perseveranza.
Da parte mia, e sempre a titolo provvisorio, vorrei sottolineare due ordini di cause che hanno condotto alla situazione attuale nelle società islamiche. La prima, sul piano interno, presenta un carattere eminentemente politico, e si potrebbe dire di banale gestione. Costrette ad integrarsi nel processo mondiale dell’economia e delle comunicazioni, le società islamiche hanno visto progressivamente andare in frantumi le loro strutture sociali ed economiche, i loro sistemi educativi, le loro forme di organizzazione culturale, i loro valori, perfino le loro lingue. Soprattutto, nel corso degli ultimi quaranta o cinquant’anni, all’indomani della “decolonizzazione”, la ristrutturazione sociale ha subìto un’accelerazione, a volte brutale, svuotando le campagne, formando nuovi strati sociali di avidi privilegiati, numericamente molto ridotti ma che monopolizzano le molle dell’economia e del potere, facendo della maggioranza della popolazione una massa di persone sprovviste di mezzi e abbandonate a se stesse. Ora gli Stati, pensando solo alla loro sicurezza e perennità, non hanno saputo o non hanno voluto accompagnare questi sconvolgimenti sociali e culturali canalizzandoli, attenuandone gli effetti devastatori, e introducendo riforme capaci di ridurli poco a poco.
Rafforzati dagli aiuti tecnologici, militari ed economici occidentali, salvati dai prestiti che sono stati loro facilmente concessi dagli organismi finanziari internazionali o dagli Stati occidentali, e, per alcuni di loro, approfittando delle manne petrolifere, gli Stati islamici si sono sentiti sufficientemente forti per non dovere procedere alle riforme sociali, politiche ed economiche che erano necessarie. Più grave: hanno praticamente chiuso le porte del futuro alla maggioranza delle loro popolazioni non prestando sufficientemente attenzione ai settori vitali che sono la scuola e la formazione. Invece di portare le loro società verso la libera espressione e l’esercizio di una maggiore democrazia, le hanno mantenute nell’ignoranza e nell’irresponsabilità, e hanno favorito una visione della cultura e della religione islamica troppo legata a uno spirito di conservatorismo e priva di apertura e creatività.
Una seconda causa interna della confusione, dell’incertezza, e della mancanza di libertà che regnano oggi nelle società islamiche, conseguenza diretta della prima, è la debolezza drammatica della società civile e della classe degli intellettuali. Nella maggior parte dei paesi islamici, la società civile era un tempo organizzata a due livelli: per gli aspetti sociali e politici, si appoggiava sulla famiglia e la tribù, qualche volta sulle corporazioni di mestieri; sul piano religioso, si concepiva come comunità totale, senza tuttavia escludere forme di associazione intermedie nel quadro delle confraternite o delle zavia. Trovava dei portavoce e difensori di fronte allo Stato nel capofamiglia o nel capo tribù, nei capi delle corporazioni, negli ulema, individualmente o collettivamente, e nei santi e riformatori religiosi. Oggi, tutte queste strutture sono state distrutte e hanno perso il loro vecchio ruolo, anche se talvolta si tenta artificialmente di ridare loro vita qua o là per fini politici ambigui. La società civile non ha quindi più difensori né voci sufficientemente forti davanti all’onnipotenza dello Stato. Le associazioni politiche, sindacali o altre, tentano con molte difficoltà di aprirsi un varco, ma si scontrano contro le pesantezze e i fastidi amministrativi, e soprattutto, contro la mancanza di mezzi finanziari e umani, accaparrati dalle associazioni ufficiali.
Gli intellettuali, che dovevano prendere il posto degli ulema, dei santi e dei riformatori religiosi, sono logorati da parecchi handicap. Anzitutto, subiscono gli effetti della debolezza del sistema educativo e delle attrezzature culturali, il cui risultato è il mantenimento nell’analfabetismo e nell’ignoranza della maggioranza della popolazione. Vivendo in condizioni materiali insufficienti e precarie, sono sempre più screditati socialmente. Il più delle volte, sono privi della documentazione e dell’informazione necessarie per fare ricerca o scrivere, perché le biblioteche sono rare o assenti, molto poco fornite, e l’informazione a tutti i livelli e in tutti i campi è mal organizzata, mal archiviata e di difficile, se non impossibile, accesso. Quando arrivano nonostante tutto a produrre qualcosa, trovano le più grandi difficoltà a far vivere riviste o a farsi pubblicare, e ricevono solo un bassissimo compenso materiale o morale per tutti i loro sforzi. Ma soffrono di un altro handicap ancora più grave: una sorta di divorzio fra la funzione intellettuale così come si esprime nella scienza, nell’arte e nella letteratura, e il potere. Il potere ha perso di vista da molto tempo i legami fondamentali, ricchi e complessi, che legano funzione intellettuale e funzione politica per l’espansione della società.
Appoggiandosi a una visione tecnocratica limitata, e credendo di potere soddisfare i bisogni del suo funzionamento facendo appello all’expertise straniera, lo Stato si interessa agli intellettuali locali solo nella misura in cui possono portargli l’appoggio ideologico che gli è necessario sul piano religioso e politico, e per mettere sotto chiave il sistema educativo. Così, la funzione intellettuale si trova sottomessa e strumentalizzata a oltranza. Le scienze umane e sociali sono praticamente bandite, la filosofia osteggiata. Gli studi sulla cultura islamica, quando esistono, sono fatti il più delle volte secondo metodi tradizionali, senza apertura sulle altre culture e civiltà. La ricerca nel campo delle scienze esatte, essendo costosa e considerata poco proficua a un’economia ancora troppo debole, è ridotta ai suoi aspetti applicati nei campi che rispondono agli stretti bisogni dell’agricoltura o dell’industria.
Date le lacune nella conoscenza dei fenomeni che agitano la società all’interno -legati agli sconvolgimenti sociali, economici, politici e culturali- e data la povertà della conoscenza in profondità delle realtà molto complesse del mondo esterno, coloro che decidono agiscono il più delle volte alla cieca, nell’improvvisazione e con una grande lentezza, lasciando marcire le situazioni e accumularsi i problemi, non temendo affatto le contraddizioni e i capovolgimenti spettacolari, facendo affidamento, nella migliore delle ipotesi, sulla cognizione dei loro propri interessi a brevissimo termine.
Questa situazione di ignoranza dei fenomeni profondi che agitano le società islamiche nel loro confronto con gli scontri permanenti che fa loro subire un mondo esterno anch’esso in costante evoluzione, aggiungendosi al soffocamento del pensiero, all’incoraggiamento dell’incultura, e alle frustrazioni sociali e politiche, ha favorito l’emergere delle correnti islamiste che, ricordiamolo, sono state anzitutto create dai poteri.
Oltre le loro multiple debolezze a livello del contenuto delle loro dottrine, della loro conoscenza limitata dell’Islam, della loro quasi ignoranza del pensiero e della cultura moderna, il marchio di questi movimenti è l’intolleranza. L’Islam che hanno inventato per conto loro attribuisce la massima importanza alla regolamentazione ristretta e pignola di tutti i gesti della vita, e mette l’accento sulle proibizioni e i tabù, sul disprezzo della vera religiosità e della libertà interiore del credente. Le molteplici sfaccettature della ricca cultura dell’Islam, che avevano costituito un tempo la sua caratteristica, sono semplicemente occultate; la storia politica delle società musulmane è ignorata. Occupando il posto vuoto lasciato dagli intellettuali, approfittando dell’incultura generale e del bisogno identitario, accompagnando la loro azione con misure sociali pratiche e con un discorso ipercritico nei confronti del potere e del dominio economico e culturale straniero, le diverse correnti islamiste hanno una grande capacità di seduzione non solo nei confronti degli ambienti poveri o diseredati, ma anche, e sempre più, in direzione dei maestri, dei piccoli imprenditori, dei piccoli e medi impiegati statali, dei medici e degli ingegneri.
Il sostegno spontaneo della società ai valori islamici ancestrali a causa di una reazione identitaria comprensibile, il legalismo (che essendosi rafforzato dal XV secolo allo scopo di unire la società contro le correnti religiose estremiste, contro i tentativi di occupazione straniera, e contro l’anarchia politica, non aveva mai potuto essere ripensato in modo nuovo e riadattato alle condizioni moderne), e il tabù su ogni discussione di ordine metafisico confortano le correnti islamiche nel loro autoritarismo intellettuale. Se i poteri le considerano pericolose come potenziali concorrenti politiche, in realtà, trovano in esse dei complici di cui si limitano a neutralizzare certi eccessi.
Per quel che riguarda le cause esterne che possono spiegare la situazione che prevale oggi nelle società islamiche, la più importante è, secondo me, lo squilibrio di fatto fra l’Occidente, Giappone incluso, e il resto del mondo. Le statistiche di ogni tipo che rendono conto di questo squilibrio sul piano economico, tecnologico, scientifico, ecc., sono note e sufficientemente eloquenti per non dover tornarci sopra. L’ideologia dominante, quando sembra abbandonare il tema grossolano dello “scontro delle civiltà”, continua a cristallizzare e a inasprire le dicotomie: fra i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud, l’Occidente e il resto del mondo, la civiltà e la barbarie. Eludendo il fondo del problema storico, che risiede nella complessità e difficoltà inerenti al processo di modernizzazione e nella disuguaglianza di accesso ai fondamenti della Modernità, trattando superficialmente le questioni della povertà, della democrazia, dell’educazione e della cultura, ritornando continuamente alla concezione fondamentalmente errata del relativismo culturale, le discussioni attuali sulla mondializzazione sono, in realtà, al di qua del potenziale di universalismo della rivoluzione moderna. Situazioni risultanti da processi storici complessi sono trasformate in realtà essenziali. Modelli rigidi -democrazia, liberalismo, ad esempio- sono proposti senza che niente venga fatto per preparare le basi indispensabili alla loro messa in opera. Così l’incapacità delle società non europee ad adattarsi al mondo moderno può apparire palese e, in qualche modo, naturale; lo squilibrio nei loro rapporti con l’Occidente può mostrarsi come obiettivo; e la possibilità di riassorbimento della distanza allontanarsi all’infinito. L’orientamento imperiale che sta prendendo la politica degli Stati Uniti accentua ulteriormente questa tendenza.

Conclusione
Nel cuore stesso della Modernità, c’è la libertà di pensare e di creare. Per tutti gli esseri umani, oggi, ovunque si trovino, questa è la condizione stessa per esistere degnamente, molto semplicemente di esistere come esseri umani. Ora, nei confronti di questa libertà di creare e di pensare sorgono limitazioni di ogni tipo. Si potrebbe dire che non c’è niente di anormale: la tolleranza non è sempre stata un margine, indubbiamente vitale, ma che si negozia e si rinegozia continuamente nel corso di processi storici più o meno lunghi?
La differenza, oggi, è doppia: da una parte la tolleranza -si è visto- è diventata un elemento strutturante della società moderna, soprattutto nel momento in cui una dinamica profonda tendente verso una prospettiva di unificazione e di universalizzazione -che non deve in alcun modo escludere la diversità- sembra prendere una svolta decisiva; dall’altra parte si accentua lo squilibrio fra due parti dell’umanità: una, in cui sono assicurate le condizioni della negoziazione in vista di una maggiore tolleranza, e l’altra, in cui queste sono dolorosamente assenti.
Forse è nei paesi islamici che il blocco è più manifesto: qui, gli Stati, troppo preoccupati della loro sicurezza e della loro perennità, non hanno ancora sufficientemente capito che la loro sorte dipende, in realtà, dalla loro capacità di intraprendere le riforme sociali, politiche, scolastiche e culturali che inscrivono nei fatti le libertà di pensare, di creare, e di organizzarsi, indispensabili oggi ad ogni società; qui, i movimenti detti “ islamisti ” erigono contro queste stesse libertà delle barriere tanto più insuperabili in quanto sono rivestite di un velo di sacralità e, girando le spalle alla dinamica di universalizzazione della cultura umana, consapevolmente o inconsciamente, vogliono ridurre le loro società alla chiusura e all’auto-esclusione.
Ma, in realtà, il blocco non è, paradossalmente, minore nelle società occidentali, con delle conseguenze molto più gravi per il futuro del mondo: si colloca al livello della mutazione della democrazia, che è vitale per l’ordine del mondo oggi. Da una parte, alle esigenze interne di questa mutazione viene opposta una feroce -benché non confessata- resistenza, sotto l’egida di poteri economici sempre più distaccati dai quadri direttivi nazionali; d’altra parte, la prospettiva di una estensione logica e legittima della democrazia all’insieme del mondo si scontra con resti di eurocentrismo e tentazioni imperiali e egemoniche su scala planetaria, echi di un’altra epoca.
Al di là di queste difficoltà, resta una speranza: che il potenziale di libertà e di creatività del sistema moderno, che è più grande che in ogni altra epoca della storia umana, sia messo al servizio del consolidamento di una coscienza e di una responsabilità universali.