Pubblichiamo un articolo di Lea Melandri, apparso già su Erba e un contributo di Maria Bacchi, che da quell’intervento prende spunto.

Uno degli effetti laterali, ma non per questo meno devastanti della guerra, è quella specie di annichilimento che parte dai pensieri per estendersi rapidamente a tutto ciò che di costruttivo si è fatto, o si è creduto di aver fatto, fino a quel punto della propria vita.
Sono emozioni note, di paura, odio, orrore, che divorano in un secondo anni di storia, personale e collettiva, e che fanno dire che la "natura umana" non conosce sviluppo. Ma non è così per tutti. I conflitti armati esaltano i protagonismi opposti degli uomini e delle donne: alla loquacità degli uni -che si esprime nel rumore delle armi o nelle argomentazioni che le criticano-, fa riscontro il silenzio delle altre, la parola ridotta ai volti sempre uguali del dolore. Eppure, incredibilmente, nessuna delle tante e acute riflessioni dedicate in questi giorni alla tragica vicenda dei Balcani, sembra essere stata sfiorata da quella che, sessant’anni fa, all’approssimarsi della seconda guerra mondiale, appariva a Virginia Woolf un’evidenza incontestabile: "anche se molti istinti sono ritenuti patrimonio comune dell’uomo e della donna, combattere è sempre stata un’abitudine dell’uomo, non della donna.
La legge e l’esercizio hanno sviluppato quella differenza, non importa se innata o accidentale. Saltano agli occhi tre ragioni che spingono il vostro sesso a combattere: la guerra è un mestiere; è una fonte di felicità e di esaltazione; è uno sbocco per le virtù virili... per numerosi che siano coloro che dissentono, la grande maggioranza del vostro sesso è favorevole alla guerra" (Le tre ghinee, 1938).
Che altro dicono le immagini delle incursioni aeree e dei cortei dei profughi, che arrivano dalla Serbia e dal Kosovo, se non che "antichi istinti", "incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione", hanno portato gli uomini a fare della scena pubblica il teatro di un "inconscio hitlerismo", che è smania e potere, desiderio di dominare, competizione e avidità, e le donne, dentro le pareti domestiche, ad aggrapparsi a una "rivalsa materna", solo diversamente aggressiva -"schiave che cercano di rendere schiavi gli altri"?
Le fotografie che mostrano macerie e cadaveri, allora come oggi, dicono "che il mondo pubblico e il mondo privato sono inseparabilmente collegati, che le tirannie e i servilismi dell’uno sono le tirannie e i servilismi dell’altro". Le ragioni delle guerre -e quindi i modi per evitarle, cominciano, prima ancora che nei contesti storici, politici ed economici in cui avvengono, nei pensieri, nei sentimenti precocemente acquisiti, di donne e uomini comuni.
E’ lì che bisogna avere il coraggio di guardare, forzando l’analisi e la parola a dar conto di un retroterra che sembra lontano ed estraneo ai bagliori mortali dei bombardamenti, ma che sempre li prepara attraverso i giochi dei bambini, la tirannia infantile di un padre, l’invasività di un amore materno. Non si spiegherebbe altrimenti perché le immagini più accattivanti, strumento facile dei media per ottenere consensi alla "bontà" delle armi, siano, oppositivamente, le meraviglie tecnologiche dell’aeronautica e le sofferenze impresse nei corpi, che il senso comune vuole "innocenti", di donne, vecchi, bambini. Il rapporto che la guerra ha con i destini storici degli uomini e delle donne è la sua inattualità, la sua inconfessabile radice nel sentimento d’amore e nell’origine stessa della vita. Forse è per questo che le donne tacciono, estranee e partecipi nel medesimo tempo, testimoni di morti e di nascite, di violenze e di sogni di pace.
O forse perché, stupite che si possa ancora tacere sugli aspetti più vistosi dell’esperienza, esitano a rompere i tradizionali schemi interpretativi, le "scontate" gerarchie di valori dietro cui si trincera da sempre la "neutralità" del pensiero maschile.
Lea Melandri

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Lea Melandri, su Erba (del 9 aprile 1999) invita le donne a parlare, a sottrarsi a "quella specie di annichilimento che parte dai pensieri per estendersi rapidamente a tutto quello che di costruttivo si è fatto" che questa guerra induce.
Lea si pone coraggiosamente fuori tempo e fuori tema e ripropone di tentare di leggere la guerra guardando dentro e oltre le evidenze della storia, cercandone le radici nella divisione dei ruoli sessuali, nella separazione degli spazi e dei linguaggi, nei rimandi tra violenze pubbliche e ...[continua]

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