Vittorio Rieser, ricercatore all’IRES -centro studi e ricerche della CGIL- di Torino, si occupa in particolare della situazione delle fabbriche torinesi e dell’evoluzione dei modelli organizzativi nelle industrie.

La durezza manifestata nelle recenti lotte operaie, come a Crotone, è dovuta solo alla paura di perdere il posto di lavoro o c’è anche qualcosa di diverso?
Devo dire innanzitutto che queste lotte nel Sud le conosco soltanto dai giornali e quindi la mia conoscenza è molto superficiale. Il rischio di perdere il posto di lavoro è soprattutto nel Sud, anche se non è una questione solo del Sud, e il problema non nasce dal fatto che uno voglia restare in quella certa fabbrica, però ci sono delle alternative: questa volta il rischio è non solo di perdere quel posto di lavoro, ma di perdere la stessa prospettiva del lavoro. Quindi la lotta ha un significato più generale, non è la lottain difesa di una singola fabbrica. Una volta si diceva, anche con un ingiustificato disprezzo, che non si poteva difendere la fabbrica come un campanile, e qualche volta può darsi che ci sia stata la difesa della fabbrica in questo modo, ma oggi la questione è molto più drammatica: se si perde quel posto di lavoro non se ne troveranno altri di tipo industriale, di tipo moderno. Questo accade in molte zone del Sud, ma sono parecchie le zone d’Italia in cui ci si domanda quanto e quale lavoro ci sarà in futuro. Torino, per esempio, non è certo un caso tranquillo, in cui chi rischia il posto di lavoro lo può poi recuperare in qualche altro luogo. La situazione torinese, che conosco da vicino, non è ancora al livello di drammaticità di Crotone e, per adesso, casi di chiusura così drammatica di fabbriche non ci sono stati. La situazione di Torino forse è drammatica in prospettiva: si stanno affievolendo le fonti più importanti di occupazione, cioè quelle legate all’industria dell’auto, e non è ancora chiaro da cosa saranno sostituite.
Gli operai disperati, l’esempio è ancora Crotone, non temono anche il ricorso alla violenza...
Non credo che la violenza sia limitata alla specifica situazione del Sud. A Crotone avevano la sensazione, in gran parte giustificata, che minacciando di ricorrere alla violenza sarebbero riusciti ad attirare l’attenzione e quindi ad ottenere delle risposte concrete. Se le risposte concrete avvengono senza la violenza questa non si allargherà, invece, se quando c’è una forma normale di protesta tutto viene lasciato com’è, o le risposte sono inadeguate, c’è davvero il rischio che la violenza si allarghi. E’ una questione che riguarda tutte le situazione estreme, quelle dove c’è il rischio di perdere il posto di lavoro senza nessuna alternativa concreta e immediata. Se ci saranno o no delle esplosioni di violenza dipende molto dal sindacato e dal governo, perché se le normali forme di lotta, o le situazioni in cui già si sa che verrà perso il lavoro portano a degli interventi -che anche se non immediatamente, ma almeno in prospettiva, come a Crotone- risolvono la questione, allora la violenza si previene; se invece tutto rimane come prima, se tutto rimane stagnante e c’è l’impressione che solo con la violenza si possano smuovere le cose, allora la violenza è destinata ad estendersi. Il caso dei due suicidi, poi, è emblematico di questo dramma dovuto alla perdita del lavoro, sono un segno di chi perde la condizione operaia.
Ma com’è l’odierna condizione operaia?
Rispetto agli anni ’60-70 c’è un cambiamento ambiguo. Alcune conquiste di allora non sono state del tutto rimangiate o distrutte, ci sono delle eccezioni, ma complessivamente nelle fabbriche oggi si sta meglio che non negli anni ’50 e ‘60; la tendenza al miglioramento non è stata distrutta. Detto questo, va anche detto che dal punto di vista salariale le condizioni sono peggiorate, ma non hanno riportato gli operai al livello di vita precedente alla grande ondata di lotte. Quando parlavo di cambiamento ambiguo mi riferivo però alle trasformazioni tecnologiche e organizzative che stanno mutando le condizioni di lavoro. L’ambiguità sta nel fatto che queste trasformazioni aprono possibilità di lavori meno faticosi, professionalmente e intellettualmente più ricchi, e questo è l’aspetto positivo, ma dall’altra parte queste trasformazioni stanno avvenendo in una situazione di crescente controllo padronale sulla prestazione lavorativa. Questi cambiamenti, quindi, rischiano di accompagnarsi ad una intensificazione dello sfruttamento, con l’operaio sempr ...[continua]

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