Cristiano Antonelli è professore di economia all’Università di Torino; dal 2006 fa parte del board of Directors della Schumpeter Society.

Lei sostiene che la crisi che viviamo è epocale, può spiegare?
Sì, credo che la crisi in corso manifestamente non sia congiunturale, transitoria, ma che sicuramente segni, con una straordinaria rilevanza, una discontinuità storica. Inevitabile per un schumpeteriano ricordare che Schumpeter recuperò nel libro del ‘39 sui cicli economici, "Business cycles”, l’idea di un economista russo, Vassilj Kondratiev, che aveva passato la vita a dimostrare la ricorrenza regolare di grandi cicli cinquantennali. Quella parte, la regolarità cinquantennale, è sicuramente caduca e poco plausibile. Però che ci siano grandi fasi interrotte da crisi profonde, che modificano il quadro strutturale e addirittura istituzionale, questo lo condivido. E se dovessi fare il nuovo Kondratiev, direi che sicuramente, dopo la grande crisi lungo gli anni 30, c’è stata anche la grande crisi degli anni 70 e ora viviamo la grande crisi dell’inizio del XXI secolo. Io scandirei così.
Uno schumpeteriano, per capire il funzionamento del mondo, usa come grimaldello le categorie dell’innovazione tecnologica, delle modalità di produzione di conoscenza tecnologica, della sua diffusione su larga scala.
L’idea è questa: una crisi si produce quando gli assetti non sono più compatibili con le condizioni di profitto e di crescita richieste dal sistema capitalistico. A quel punto si produce la crisi, che diventa evidente e manifesta, e la reazione può -nel senso che non accade necessariamente- essere creativa e mettere capo a un sistema di innovazioni capace di risolvere i problemi e avviare una nuova fase prolungata di crescita e di espansione.
Come si forma questo sistema di innovazioni e conoscenza tecnologica? Si forma lentamente, non per impulso di un qualche ente, ma, e qui potrei usare il termine "mano invisibile”, attraverso il concorso di una varietà di agenti. Ma qual è il punto? è che questo concorso si produce tanto più facilmente quanto più è generalizzata una condizione di crisi che quindi spingerà più persone, con bagagli di competenze e prospettive diverse, a tentare una reazione. Tanto più vasta sarà la reazione tanto più facile sarà che le diverse iniziative assumano carattere complementare e addirittura cumulativo. Le innovazioni tecnologiche, cioè, al minimo saranno compatibili, ma poi complementari, per arrivare, infine, a definire un sistema di funzionamento che le coinvolge tutte. Questo produrrà un inevitabile ottimismo che produrrà euforia finanziaria che a sua volta produrrà eccesso di credito. Quindi creazione di eccesso di capacità produttiva e crollo inesorabile.
Allora, in base a questo assunto, cos’è successo negli anni 70? Che si è consumato quell’equilibrio basato sull’insieme di produzione di massa, grande impresa, economie di scala, altissimi livelli di consumi energetici, sviluppo metropolitano. Insomma, alla fine degli anni 70, è entrato proprio in crisi quello che chiamerei il modello americano del dopoguerra, quello che noi avevamo cominciato a conoscere con il piano Marshall. Il sistema ha reagito a numerosi shock, dalla progressiva indisponibilità della classe operaia ad accettare le condizioni della produzione di massa alla rottura degli impegni internazionali che sfociarono nella crisi del petrolio e nell’impennata del suo prezzo, creando quel sistema tecnologico che si chiama Icts, Information and communication technologies: parliamo di cavi in fibra ottica, di semiconduttori, di calcolatori elettronici, di grandi commutatori delle reti di telecomunicazione, di sistemi satellitari.
Questo, dunque, sarebbe un perfetto parallelo: dagli anni 30 si è usciti con un modello, un sistema, che circa 35-40 anni dopo, è entrato in crisi. E quella attuale è una storia che ricorda terribilmente gli anni 20: grande entusiasmo, grande euforia, grande crisi e poi, per trent’anni, la diffusione.
Se stiamo attraversando una crisi di questo tenore, che vuol dire che è l’intero sistema a non riuscire più a funzionare, le interpretazioni che vedono nella finanza la causa della crisi sono completamente fuori luogo. Sarebbe come dire, usando metafore mediche, che è la circolazione che produce l’infarto o che l’ictus è prodotto dall’eccesso di pressione, del troppo sangue. Sono anche contrario alle interpretazioni che dicono che la crisi è il prodotto dell’eccesso di indebitamento de ...[continua]

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