Ho letto con grande interesse l’intervista del professor Pietro Adamo, molto importante per comprendere la genealogia culturale americana ed europea di modo da riuscire a decifrare con chiarezza i differenti stili politici. A questo proposito mi limiterei a osservare che la vittoria di Obama è certamente derivata da una pluralità di elementi contingenti -ciascuno meritevole di una sua analisi- che hanno trovato una ottima sintesi politica. Tenuto conto che nelle precedenti elezioni presidenziali la frequenza al voto era piuttosto bassa, si può dire che l’insieme di finalità che hanno condotto al successo il nuovo presidente americano hanno attivato tutte le potenzialità democratiche proprie del sistema americano. Quasi a mostrare che è sempre una volontà politica a tenere desta una democrazia e non sono mai le regole -pure da salvaguardare per le loro potenzialità- che, di per se stesse, possano garantire una vita politica democratica. Me su questi temi credo che il professor Adamo, da come conosco i suoi studi, non abbia opinioni granché diverse da queste.
Laddove invece desidero avanzare qualche riserva è sulla questione della uguaglianza o meno dei morti partigiani e repubblichini. E’ ovvia l’eguaglianza nell’essere morti come in quella dell’essere vivi, e se è bene il rispetto per gli uni è bene anche il rispetto per gli altri. Prima di avanzare qualche osservazione non vorrei che il professor Adamo, come del resto potrebbe essere ovvio, vedesse nelle mie parole l’eco di sentimenti, emozioni, speranze di un momento storico al quale, nel ruolo adolescenziale che avevo e niente più, mi trovavo a partecipare. A me pare -detto in due parole- che tutta la ricostruzione storico-politica sia fatta nella prospettiva dell’oggi. Che questo modo di ragionare sia proprio di un giornalista, non eccelso, ora deputato, abituato a dare giudizi sul mondo giorno per giorno secondo le opportunità più favorevoli della propaganda, lo capisco bene, anche se è un costume che mi è intellettualmente e eticamente molto lontano. Ma quando queste forme di giudizio diventano storiche non le capisco più. Se si va a guardare che cosa accadeva nel ’43-’44 si scopre subito che non ha un senso preciso proiettare in quella esperienza la dicotomia democrazia-società totalitaria. La situazione era più complessa se teniamo presenti le opinioni esistenti, era molto più semplice se teniamo presente la semplicità congiunturale di quelle opinioni. C’erano del resto fascisti e fascisti. C’erano quelli che volevano la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, quelli che, dopo il burocratismo governativo, vedevano rinascere lo spirito squadristico, quelli fedeli all’idea di onore nazionale, quelli fanatici dell’ordine nazista e altri. L’analisi poi delle varie componenti della Resistenza non consente aut-aut così radicali: bisogna non eccedere nel pensare che viviamo solo di interpretazioni. Basta leggere i fogli delle varie formazioni partigiane per rendersi conto che le schematizzazioni ex-post non tengono per niente. Se non ricordo male c’era un canto partigiano che diceva:
abbasso il fascio repubblican
abbasso il fascio siam partigian
abbasso il fascio repubblichin
abbasso il fascio viva Stalin

Ora lo “Stalin” di questa strofetta (il cui senso emotivo occorre trovare in un saper ri-vivere alla Dilthey quel tempo) non è di certo quello delle purghe della seconda metà degli anni Trenta, del politico feroce dei campi di concentramento, dell’aggressione a ogni forma di intelligenza non servile eccetera. Ma piuttosto del mito del conduttore della guerra patriottica anti-nazista, un “mito” che nascondeva una società oppressa da un totalitarismo assoluto, ma che in quel momento era costruito dalla propaganda anti-nazista non solo sovietica. Il pensiero in chi aveva il peso della durezza della guerra partigiana era, per così dire, molto intenso ma breve. In ogni caso la contrapposizione più elementare era questa: la patria fascista alleata con i nazisti per i repubblichini; un altro mondo rispetto a questo dove la parola libertà era condivisa, anche se sappiamo che il suo significato muta nel tempo, e in ogni mutazione è sempre da disambiguare. I più cordiali saluti al professor Pietro Adamo e alla redazione.
Fulvio Papi