Questa isoletta ha 900 abitanti stabili, e (almeno allora) fluttuanti, distinti in coatti e confinati politici. Il paese è miserabile, con casette che cadono a pezzi, ma una splendida veduta di mare, una chiesa1 con un santo miracoloso, e un monumento ai caduti. Sulla facciata del municipio è una lapi­de, che nella prima parte ricorda come un isola­no, ufficiale dell’esercito, fosse caduto da eroe nella guerra d’Africa di cinquant’anni fa. La se­conda parte si legge così: "E ora, Ustica, sparu­ta isoletta e quasi punto geografico sperduto nell’Oceano, ad eguagliare le grandi metropoli che mai ti manca? (!!)”.
Molte cose le mancano, di cui l’autore (sicuramente un prete) o non s’accorse, o preso dall’estro poetico si dimenticò lì per lì. Le cito come mi vengono: la luce elettrica, la fognatura, il lastricato per le strade, un pubblico macello, una farmacia, un ospedale, un servizio decente di vapori e via discorrendo. Per le bestie da macello, ad esempio, andava così: quando a un contadino in Sicilia stava per morire per mancanza di fiato una vacca nella stalle, egli pensava: vendiamola al macellaio di Ustica. Detto fatto, la vacca arrivava in vapore, e siccome non c’era pontile la calavano in acqua, ancorata a una barca. Giunta alla sponda più morta che viva, la portavano in piazza dove passava dodici ore legata a uno dei sei alberi dell’isola i quali sorgevano tutti, tre di qua e tre di là, davanti alla chiesa. Se tirava le cuoia in quelle dodici ore, la mangiavano generalmente i coatti, che hanno pochi quattrini, e vanno a caccia di vitelli abortiti, agnelli a tre zampe, o anche, se capita, di bistecche strappate brutalmente dai lombi di una povera mucca che pascola incustodita. Se no, aveva l’onore di pendere squartata in bottega, col listino dei prezzi sull’uscio, firmato dal podestà.
Invece di farmacia c’era un armadio farma­ceutico in consegna a un coatto, il quale aveva fatto, in galera, l’infermiere. Siccome la galera era durata un pezzetto, la pratica non gli mancava. Senonché ogni sera alle diciotto questo coatto, che aveva in tasca la chiave dell’armadio, era ubriaco fradicio fino all’indomani mat­tina: proibito sentirsi male. I vapori parevano signore che, quando, finita una visita, si alzavano per andar via, non trovano mai la maniera di uscire. Essi avrebbero dovuto secondo l’orario salpare da Palermo tre volte per settimana; ma se pioveva, tirava vento, o c’era all’orizzonte una nuvola nera, facevano trecento metri nel porto, poi ritornavano a terra. I trecento metri, naturalmente, servivano per riscuotere il contributo governativo.
A parte questi inconvenienti, e gli altri più o meno cospicui, inerenti alla pena del confino, la vita a Ustica trascorreva tranquilla. La popolazione ci guardava con occhio benevolo, tanto più che, di 900 che erano, non uno poteva vantarsi di non aver nelle vene sangue d’antichi o recenti coatti.
Nell’isola tirava vento: ond’è che con paterna cura la direzione della colonia aveva vietato a noi confinati di superare i limiti della borgata. Perché non prendessimo, poi, una frescata notturna, era stato deciso che alle sette di sera dovessimo essere tutti quanti rientrati. I bagni di mare erano consentiti dalle dieci alle undici, nei giorni dispari: e perché non corressimo pericolo di annegare barche con militi e carabinieri vigilavano nella piccola rada. Insomma, le più gran­di, le più commoventi attenzioni. Perfino la posta veniva censurata in anticipo per evitarci impressioni spiacevoli; e il denaro che qualcuno di noi riceveva da casa veniva amministrato dal signor direttore. "Cosa mi chiede altri soldi: non le ho dato dieci lire ier l’altro?” "Signor direttore, le ho spese: due lire d’olio (‘frigga con lardo!), tre lire di carne (‘non le ho spese neanch’io!’), barbiere due lire (‘si lasci crescere la barba!’), francobolli una lira (‘lei scrive troppo!’), medicine una lira (‘risparmi quei soldi!’)”. Un vero corso di economia domestica. Il direttore sospirava e tirava fuori due lire: ‘Si ricordi, per otto giorni, nient’altro’.
Tra i confinati c’erano anche degli arabi scampati alla forca: prigionieri di tribù ribelli. Verso sera andavano sugli scogli, in riva al mare, e lì, col culo in aria, pregavano Maometto. Stavano anche molto all’ufficio postale perché spedivano telegrammi su telegrammi al governatore della Colonia promettendo fedeltà e invocando il relativo perdono. Insomma il confino era una specie di ristretto d’Italia, compreso l’oltremare. Dalla infima gente (i coatti) su su per gradi salivi fino ai potenti: il prete, il podestà, il centurione della milizia. C’erano il massone, il pipista, il socialista e il fascista dissidente, il comunista ortodos­so e l’anarchico individualista, il povero diavolo che aveva detto: "Piove, governo ladro”, e il pezzo grosso dell’opposizione. Ciascuno teneva alla propria posizione e badava a serbare le distanze, ma alla fin fine quando pioveva ci si bagnava tutti e quando il vapore faceva cilecca s’aveva tutti il nervoso, che era poi, bella e buona, la nostalgia di casa.

Il tempo ci passava discretamente, si leggeva, si discuteva, e poi ancora si discuteva. Per man­giare ci si riuniva in mense di venti o trenta, per opinione politica: c’era la mensa dei repubblicani e quella dei socialisti unitarii, quella dei mas­simalisti e quella degli anarchici collettivisti. Ogni tanto i massimalisti andavano a pranzo dagli unitarii,e allora si capiva che c’era in vista l’unità socialista; ogni tanto un comunista ortodosso passava alla mensa dei trotzkisti, e allora si diceva: una nuova espulsione. Noi gente di mezzo si andava a mensa un po’ di qua e un po’ di là. Anche i "compagni” si consideravano innocui e privi di importanza politica. I coatti, invece, si dividevano per paese d’origine. C’era la mensa dei bolognesi, e quella dei sardi, la mensa dei romani de Roma, e quella dei calabresi. Questa gente viveva ancora nell’Italia di prima del 1860: com’è vero che un poco di cultura ci vuole per digerir l’unità.
Tra gli isolani era un barbone, pastore protestante. L’avevano mandato lì perché faceva troppo bene il suo mestiere: convertiva cioè a tutto andare contadini, operai, vecchi, donne e ragazzi. Nell’isola si trovava sperduto perché nessuno prestava orecchio al suo elevato messaggio: Ci fu un solo ebreo che l’apprezzò invitandolo, la domenica, a venire a leggere la bibbia da lui, a questa sola condizione: che fosse ammesso il contraddittorio. Il povero pastore accettò: trovò adunati, oltre all’ebreo, un anarchico, un comunista, un arabo intelligente, un pipista, e un prete spretato. Forse lo illuminò la speranza di trovare una sintesi e lanciare il verbo di una religione unitaria. Ma fu un disastro. Al primo versetto d’un salmo l’anarchico chiese la parola e pose la questione: chi è Dio? "Per me” concluse la sua tiritera, "Dio è un simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Allora si alzò il comunista, ed ebbe parole severe più per l’anarchico che per  il Signore Iddio, sul quale non metteva conto ormai d’infierire. Per fortuna l’ebreo propose che la discussione su questo comma venisse rinviata alla seconda seduta. Il pastore riprese la sua lettura, e ogni tanto si schiariva la voce e lanciava, di sotto alle lenti, timide occhiate a destra e a sinistra. Pro bono pacis s’eran lasciati i salmi, e attaccati i Profeti. Il pastore, rinfrancatosi, leggeva adesso con voce tonante le apocalittiche visioni di Gere­mia, anzi no, di Ezechiele. A un certo punto il pipista: "Ecco annunziata la venuta di Gesù”. "Di Maometto”, corresse l’arabo. "Del sempre atteso Messia”, disse il padrone di casa. "Né del messia, né di Gesù, né di Maometto” sentenziò alzandosi in piedi il dotto comunista: "Se mai, dell’ordine nuovo, basato sulla giustizia sociale”. "E sulla soppressione di ogni libertà individuale”, aggiunse beffardo l’anarchico. A questo punto nacque la confusione. Il prete spretato e il pipista si bisticciarono circa il dogma dell’immacolata concezio­ne, l’ebreo e l’arabo discussero animatamente non so di che cosa, il comunista e l’anarchico si accapigliarono con gran lusso d’ingiurie. Il buon pastore chiuse la bibbia, alzò gli occhi celesti al soffitto, e invocò la luce del Signore su quelle coscienze oscure. Ma intanto dall’uscio sul vicolo, comparvero due agenti a chiedere spiegazioni su quel baccano sospetto. "Questa è un’adunanza politica”, andavano dicendo. "È un pezzo che stiamo a sentire. Che è questo Ezechiele dell’ordine nuovo?”. "Ezechiele” disse sorridendo l’ebreo, "è un rivoluzionario vissuto trenta secoli fa”. "Questa è una grande attenuante”, osservò gravemente il più autorevole fra i due agenti dell’ordine. "In ogni modo vengano tutti dal signor direttore”. La bibbia fu sequestrata, e il pastore venne severamente ammonito di smetterla con le sue conversioni.
Era l’ottobre, ormai, ma gli alberi non diventa­vano rossi perché quelli di piazza erano dei sempreverdi e, come detto, non ce n’erano altri. Si capiva che era l’autunno semplicemente perché rinfrescava e le giornate accorciavano. In un bel mattino d’autunno giunse mia moglie. Io le andai incontro, giù sulla spiaggia, percorrendo la bellissima strada nuova che la direzione aveva fatto costruire per dar lavoro ai coatti, e che era veramente una strada di lusso perché finiva da una parte sugli scogli e dall’altra in un campo. D’altronde nell’isola non c’erano rotabili. Mia moglie era in buona salute, e molto lieta di rivedermi. La condussi nella nostra casetta, e quello che più la stupì fu che il W.C. (naturalmente senza sciacquone) sorgesse in cucina, proprio accan­to ai fornelli. Più tardi vi si abituò e anche venne a sapere che in certe case stava in salotto, con un grazioso paravento davanti. Fu quello un periodo veramente felice della nostra vita, tanto più che a mia moglie, dopo un’operazione, era stato ordinato un clima caldo. Cosa potevamo desiderare di più? Abitavamo in un vicolo. Da una parte era la caserma dei militi, il che dava un confortevole senso di sicurezza, dall’altra stava una vecchia megera, che teneva dei polli e li mandava spesso a becchettare da noi. Avevamo cucina, camera e salotto. Il salotto aveva il tetto a capanna e serviva anche da ingresso. Cominciammo a ricevere visite. Prima di tutti venne il padrone di casa, un contadinone simpatico, che sputava in terra tre volte al minuto. Mia moglie seguiva costernata le traiettorie dei singoli sputi. Col contadino eran la moglie e la vecchissima madre. La madre osservava l’alloggio, proprietà di suo figlio: "Bella ca­sa! Bella casa!” andava ripetendo, e congiungeva le mani in segno d’ammirazione. Poi venne un altro isolano che aveva un quartierino da affittare, e che ci confidò, in grande amicizia, che dove noi stavamo era morta, tre mesi prima, una ragazza tisica. Poi venne un vecchio di 85 anni che era alla battaglia di Lissa, quindi -per quarant’anni di fila- in America. Poi il prete, che mi prestò una storia dell’isola scritta dal suo predecessore in ufficio. E finalmente, dopo una caccia spietata ed inutile agli scarafaggi che infestavan la casa, andammo a dormire. Mia moglie prese subito sonno; io no. Ond’è che cominciai a leggere la storia di Ustica. Già l’ho det­to. La mia passione è la storia.
La storia di Ustica mi aprì larghi orizzonti. Lessi infatti che nel 1848 era scoppiata la rivo­luzione nazionale nell’isola. Da Palermo era giunto un battello ad annunziare la fine del regime borbonico. Il comandante dell’isola venne posto in stato d’arresto, tutti gli altri militari e impiegati passarono con entusiasmo al nuovo auspicato regime. Nel savio paese tutto era mutato, e nulla era mutato. Una rivoluzione incruenta, documento d’antica civiltà. Senonché un gruppo di facinorosi s’adunava segretamente in una parte remota dell’isola, meditando chissà quali complotti. Avevan fucili e bastoni. I maggiorenti del paese stavano in guardia, e mandarono avvisi a Palermo; in via del tutto confidenziale, l’ex comandante dell’isola, interpellato, dette il consiglio di stare a vedere. A un certo punto giunse un messaggero: si son messi in cammino. Quanti sono? Quaranta. Gridano, minacciano morte, non si sa cosa vogliono. Le donne chiusero porte e finestre, il prete sprangò la chiesa, acceso un cero al Santo protettore, i più arditi saliron sui tetti. Sul paese incombeva un silenzio di tomba.
Finalmente i quaranta entrarono nell’abitato fra il più tremendo frastuono. I paesani tremanti pensavano alle vecchie storie dei saraceni, che avevano saccheggiato l’isola inerme, e contro cui si drizzava, inutile ormai, la torre quadrata sul mare (poi ridotta a prigione). Rivoluzionari e controrivoluzionari che fossero, i quaranta si erano intanto fermati davanti alla casa del ricevitore delle tasse. "Morte al ricevitore! Abbasso il governo! Non vogliamo più tasse!”, e giù fischi ed urli, e sassate. La famiglia del ricevitore s’era rifugiata in cantina. Il ricevitore in persona stava dentro su una botticina e dirigeva le operazioni dal buco del mezzule. "Che cosa facciamo?”. Le donne si disperavano, i ragazzi frignavano, un servitorello appostato dietro una gelosia veniva ogni tanto a dar le notizie. "C’è la piazza piena... hanno i fucili... stanno per sfondare la porta”. Il ricevitore ebbe uno estremo colloquio con sua moglie: "Ho paura che ci vorrà un barile”, disse con un sospiro.
Si fece estrarre dal suo rifugio, riempirono un barile di vino (spillandolo dalla botte che aveva preso d’acido) e lo portarono su in entratura. D’un tratto fu aperto, dal di dentro, il portone. La folla urlante prudentemente indietreggiò. Il ricevitore si fece avanti, con un bicchiere in mano e profittando del silenzio: "Paesani” gridò, "chi ne vuole, di questo? C’è un barile per voi”. Ci fu un attimo d’esitazione, poi il movimento all’indietro si mutò in precipitosa avanzata. "Viva il ricevitore! Abbasso il re! Viva la rivoluzione!”. Il barile fu vuotato in un attimo. La gente si abbracciava, porte e finestre si aprirono, il prete fece suonar le campane e portare in processione la statua del santo che aveva fatto il miracolo.

Passò l’autunno, passò l’inverno. Quando tornarono le rondini, fui posto in libertà. Gli amici vennero a salutarci fino in fondo allo stradone nuovo, e il pastore ci disse: "Ringraziate Gesù”. Salimmo sul battello che faceva l’altalena nel porticciolo, e guardammo il paese. "Cara Ustica, in fondo ti vogliamo un po’ bene”, disse mia moglie, e aveva qualche luccicone agli occhi. "Molto bene”, dissi io, soffiandomi energicamente il naso. Gli amici sventolavano i fazzoletti. Sopra le case bianche che impiccolivano, sciorinate sulla collina, venne fuori la chiesa; poi tutta l’isola apparve, co­me un cetaceo nero. Ci sedemmo su una panchina. Accanto a noi un milite, che andava in licenza, suonava sulla chitarra: "Lasciami, ma di baci saziami...”.
Mia moglie cominciò a sentirsi male e scese in cuccetta. Io rimasi al vento, e guardai i due gabbiani di scorta. Poi mi si avvicinò un signore con una mazzetta dal pomo d’avorio e mi disse: "Professore, adesso che siete libero me lo potete dire: ‘Questo Ezechiele chi è?’”. Era l’agente dell’adunanza politica.
L’Apparita (Firenze), 1932
Da "Il Ponte”, anno II (1946), n.4