C'è sempre un momento, quando si discorre oggi di nazione e di politica nazionale, in cui si ritorna alla solenne sciocchezza di quei paragoni fra organismo e società che, dal tempo di Menenio Agrippa in poi, non hanno mai servito ad altro che a ingannare il pubblico e a evitare la realtà dei fatti.
Si parla, per esempio, di un "male" che avrebbe "raggiunto i centri vitali della nazione". Ma che cos'è questa nazione provvista di "centri vitali"? È una metafora fisiologica cui è impossibile trovare un significato specifico quando si tratta di milioni e di diecine di milioni di individui con tutta la struttura organizzativa, economica, politica, con tutta la rete di rapporti sociali, culturali, personali, con tutto il peso di costumi, di tradizioni, di storia cui si finisce per dare il nome di "Francia", "Italia" o "Germania". In quanto tessuto di rapporti spontanei fondati sulla convivenza, sulla lingua comune, sulla tradizione, la nazione non comporta "centri vitali", non può in alcun modo essere assimilata a un agglomerato di cellule "dirette" da un cervello. A parlar chiaro, i "centri vitali" sono i centri di comando dell'organizzazione statale, fatto assai diverso dalla nazione.
Così pure, si parla oggi in Francia di "allentamento dei legami fra le varie classi della società" e di "mancanza di un denominatore comune". Sono tautologie al posto di argomenti. Se "nazione" significa tutte le classi che la compongono è evidente che esse sono solidali. Ma con ciò? Se Epaminonda, nell'invadere la Laconia, avesse avuto a sua disposizione delle bombe atomiche, gli iloti sarebbero periti insieme agli Spartani loro padroni; ma era questa una ragione sufficiente perché, prima di tale catastrofe, ci fosse sul piano umano, su quello economico o su quello politico, una solidarietà qualsiasi fra schiavi e loro proprietari?
Per presentare le cose in maniera meno fantasiosa, dirò che è certo che quella nazione gloriosa che era la "pospolite" polacca fu rovinata dalle memorabili spartizioni della fine del secolo XVIII. Ma la grande maggioranza dei servi della gleba del Paese se ne commosse ben poco e, fatto ancora più significativo, quando Kosciuszko riuscì a sollevare alcune migliaia di contadini per difendere l'indipendenza nazionale, furono i magnati che si affrettarono a negoziare la sottomissione alle potenze spartitrici, preferendo il giogo straniero alle conseguenze sociali di una jacquerie patriottica.
Ci sono dunque casi in cui la nazione, concentrata in un meccanismo di coercizione detto "Stato", può significare altra cosa che le "varie classi" o l'insieme della popolazione di un Paese. L'insieme della popolazione di un Paese di quaranta o ottanta milioni d'individui è, d'altra parte, una formazione che sorpassa a tal punto i limiti estremi che una singola coscienza umana può realmente abbracciare che si è in diritto di supporre la finzione, l'artificio, non so quale operazione magica a base di formule vuote di ogni senso anche se esaltanti, in tutte le operazioni politiche in cui si pretende di ottenere l'effetto chiamato "unanimità nazionale".
Molto ci sarebbe da dire sui mezzi grazie ai quali si ottiene e si mantiene l'"unità morale" delle masse che si fanno massacrare a Stalingrado per uno Stalin da una parte e per un Hitler dall'altra, o di quelle che si lasciano condurre al "sublime olocausto" di Verdun per una "nazione" incarnata da un Raymond Poincaré.
Che se poi si parla, come in Francia attualmente si parla non solo per bocca del generale De Gaulle ma anche di numerosi cosiddetti socialisti, di "riconciliazione fra fattore nazionale e fattore sociale" grazie a qualche savia combinazione fra mentalità di destra e ideologia del Fronte popolare, l'operazione potrà anche riuscire, ma non è certo possibile concepirla come lo sbocco naturale e la soluzione dei conflitti esistenziali, dei destini, delle aspirazioni e delle situazioni particolari di cinquanta milioni di esseri umani, i quali diventano cento se ci si aggiungono i sudditi di quello che ancora si chiama l'"Impero" francese.
In ogni caso, non sembra che l'esistenza di due nazioni, o anche di tre, in seno a uno Stato che pretende, esso, alla sovranità assoluta, una e indivisibile, sia stata, nel corso della storia, infeconda né tantomeno pregiudizievole al fiorire della vita sociale, morale, culturale di un Paese. Secondo l'espressione che Disraeli prese in prestito a Platone, "due nazioni" si sono opposte in Inghilterra a partire d ...[continua]

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