«Per noi era un maestro. Non dico solo per me, che allora ero una professoressa agli inizi della carriera, ma per tutti. Parlavamo per serate intere di Tolstoj e di Dostojevskij, e lui in quelle conversazioni ha cambiato la mia vita in molte cose».
Questa confessione quasi di umiltà è stata pronunciata da una delle donne più note del mondo, la scrittrice Mary McCarthy; «lui» era un esule italiano serio e retto, Nicola Chiaromonte, la cui notorietà in patria era nulla e tale più o meno doveva restare, per il grosso pubblico, fino alla morte avvenuta poche settimane fa; i «tutti», ai quali fa riferimento la McCarthy, rappresentavano il meglio di una certa intelligencija radicale americana, da Edmund Wilson a Dwight McDonald, raccolta, sulla metà degli anni quaranta, intorno a riviste di punta come politics (con la «p» minuscola), Partisan Review, The Nation. L'ambiente, culturalmente sofisticato e moralmente rigoroso, non era certo facile. Nicola Chiaromonte (già partecipe dell'antifascismo parigino dei Rosselli e dei Caffi, già aviatore nella squadriglia di Malraux in Spagna, già intimo di Camus in Algeria) era allora appena quarantenne: per esservi riconosciuto come un « maestro » bisognava possedere delle qualità davvero eccezionali.
Chiaromonte le possedeva e qui, forse, era anche un inconveniente per la sua scrupolosissima personalità d'intellettuale. La sua cultura emancipata ed europea, il suo rigore personale, la sua intransigenza nell'impegno politico, la sua ripulsa di ciò che chiamava «il gesuitismo moderno» e «le menzogne utili», la stessa sua capacità di scrivere direttamente in inglese e in francese, lo avevano attrezzato a partecipare da protagonista alla vita delle idee in società evolute e severe. Ma le stesse qualità cristalline della sua natura di uomo e di pensatore, che gli consentivano d'inserirsi con naturalezza negli ambienti culturali di Parigi o di Nuova York, dovevano invece estraniarlo in Italia da gran parte della cultura militante che egli, inutile nasconderlo, disprezzava dal profondo del suo essere. Del resto, dopo la fine della guerra, aveva rimandato a lungo il momento del rientro definitivo dall'esilio antifascista. E' che aveva intuito benissimo, fino ad allora, il destino di solitudine che lo aspettava in una Roma distraente e distratta, superficiale, cortigiana, ancora seicentesca, ecletticamente esposta a tutte le mode di ritardo. «L'Italia odierna», ammetteva, «immeschinisce».

Una volta mi confidò che, dopo la guerra, aveva rinviato così a lungo il ritorno perché indeciso se vivere la seconda parte della sua vita da intellettuale italiano oppure francese o, addirittura, americano. Era, come il suo amico Andrea Caffi, un cittadino del mondo, un poliglotta dello spirito oltreché delle lingue. Ma con una differenza di fondo. Mentre Caffi congiungeva al mondo una sua certa levità bizzarra, l'estro di una certa verve imponderabile, mezza veneta e mezza russa, Chiaromonte, che era lucano, metteva una scontentezza indocile e come ferita. L'Italia attuale, con le sue volgarità e il suo dilettantismo ideologico, non era tagliata sulla misura austera di questo scontroso figlio del sud, di fondo libertario e utopico, balzato dalla città solare di Campanella alla fenomenologia di Husserl ignorando Croce e polemizzando con le storiosofie secondo Hegel e secondo Marx.
Anche se la McCarthy asserisce che tanti anni fa sorrideva, io non ricordo d'averlo visto sorridere mai. Direi anzi che perfino nell'aspetto esteriore di Chiaromonte s'era accentuato, col passare del tempo, in una maniera quasi simbolica, un atteggiamento di ripudio e di chiusura verso la società fatua che lo circondava. Il colore degli abiti ormai tendeva all'essenziale, al grigio scuro o al nero. Il taglio dei capelli, perfino il volto, concentrato, assorto, tendevano anch'essi ad una essenzialità monacale. Sul fondo di queste tonalità mortificate e spente risaltavano, stranamente rotondi, esatti, due occhi scuri, come mineralizzati sotto lo spessore ondulato delle lenti. Retoricamente si potrebbe dire che in quello sguardo bruciava la stessa fiamma che arde nei suoi scritti, in cui uno stile personalissimo, vetroso e trasparente, da saggista anglosassone, costruito quasi più sulla punteggiatura che sulla parola, raggela e riordina continuamente il contenuto di un pensiero che nasce da una biografia passionale.

La prima passione di Chiaromonte fu l'azione politica, che lo vide impegnato fra le due g ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!