Tra le posizioni di pensiero espressa dall’intellighentia italiana esule in Francia negli anni Trenta, singolarmente viva e anticipatrice rispetto a posizioni e idee formulate più tardi1 fu quella che maturata all’interno del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» mise capo alla cosiddetta «crisi dei novatori» e quindi alla separazione dal movimento di GL, nel 1936, di Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua1bis. Vi si trova un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze intellettuali e apparati politici.
L’analisi della società di massa e del totalitarismo nel mondo contemporaneo è anticipata nel pensiero dei «novatori» con singolare acutezza; Caffi e Chiaromonte spingono la critica oltre ogni superficialità e senza concedere alla genericità e all’improvvisazione riconducono l’analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla crisi della civiltà europea di cui la prima guerra mondiale rappresentò la tumultuosa e sanguinosa espressione. Quel che la guerra aveva soprattutto colpito -insisteva Chiaromonte- erano i valori sul riconoscimento dei quali l’uomo della nostra civiltà regolava i suoi rapporti sociali, la sua visione d’avvenire, la sua scelta nei conflitti dell’esistenza; nello scritto «La morte si chiama fascismo», che è forse l’analisi più penetrante della crisi dello Stato di diritto pubblicata dai Quaderni di Giustizia e Libertà, indicava nella disgregazione morale, sociale, politica ed economica dell’Europa dal ‘14 in poi, l’origine del dilagare in tutta Europa dell’ondata fascista. Il gigantismo dello Stato contemporaneo che pletoricamente aveva esteso sempre più le sue funzioni e la complessità delle moderne tecniche di governo erano all’origine del fatto che «lo Stato moderno ha finito per essere uno Stato informe, strumento di forze senza legge: cominciando dalle influenze sotterranee e capillari delle tradizioni morte che non è capace di riassorbire; continuando coll’industrialismo, il capitalismo e la tecnica, cui non è capace di dare una legge, ma soltanto di lasciarli fare o d’intralciarli con «regolamenti» che in fondo aumentano l’informità e accelerano il processo di crisi dello Stato; e terminando ai poteri dello Stato stesso, principalmente polizia, burocrazia e forza armata, del cui funzionamento la comunità può, nel più felice dei casi, rendersi conto, ma non dispone di strumento politico abbastanza efficace per controllarli, e finisce per subirli. Quando in uno Stato, al posto della forma politica s’installa l’amministrazione, al posto della legge, il comando, questa amministrazione e il sistema dei comandi potranno essere foltissimi, ma lo Stato non esiste più, perché non ha più nessuna forma. Diventa una pirateria organizzata ai danni della società, ai danni della vita stessa, nel senso più profondo e radicale: opprime tutto e falsifica tutto. È uno Stato fuori legge. Lo Stato fascista»2.
In una situazione siffatta, di radicale disintegrazione della società, l’inattività dell’individuo non ha più motivi e ragioni, punti d’appoggio e punti di riferimento; e l’attività dello Stato totalitario ha pure come motivo dominante l’avventura: «non c‘è ragione perché il Danubio o l’Etiopia, l’unione con Berlino o l’amicizia gallica, un putsch a Memel, o un giro di valzer con Albione, l’amicizia polacca o un miliardo elargito a Mosca, siano l’una piuttosto che l’altra, la grande impresa di domani. E così si può esaltare Rossoni o Pirelli, la legge agraria o il ripristino dei privilegi nobiliari, il culto di Wotan o il pateracchio col Vaticano. Perché lo Stato è causa e fine di se stesso, suo essenziale attributo è quello di esistere»3.
Le tirannidi moderne hanno questo di tipico: che non possono esercitarsi altro che assoggettando tutti in nome di tutti; in altri termini che non si può dominare la situazione, cioè tenere a bada la massa, altro che in nome della massa. Ciò che praticamente vuol dire concentrazione di tutti gli interessi stabiliti in nome dello Stato. Ma vuol anche dire dissoluzione di tutti gli interessi stabiliti, di tutti i principi tradizionali, di tutte le «classi», in una parola di tutto il vecchio ordine sociale, in seno allo Stato. Vuoi dire acceleramento sfrenato di tutti i meccanismi che producono massa, non più limitati, distinti e controllati da un certo margine di de ...[continua]

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