Idea assurda, giacché vorrebbe dire in pratica un presente sospeso nel vuoto, una vita che non fa mai altro che cominciare, e comincia senza posa sempre di nuovo, eterna infanzia, eterna ebetudine. Ma è anche un pensiero vecchio, che già nella seconda metà del secolo scorso veniva a fatti compiuti. Era la rivoluzione industriale, l’epoca del macchinismo, della industria, della scienza promessa a inaudite vittorie, ad avere instaurato in Europa e in America l’era dell’assoluta novità o, secondo la formula di un brillante critico d’arte americano, Harold Rosenberg33, «la tradizione del nuovo».
La «tradizione del nuovo» significa che solo il nuovo fa testo, e che esso si genera perennemente da se stesso, imponendo la sua legge, che è quella di rifiutare continuamente ciò che è già stato. Con questo, sia detto fra parentesi, una tal tradizione stabilisce una norma ben altrimenti penosa e coercitiva di qualunque antica tradizione. Trovarsi obbligato a fabbricare continuamente novità significa, infatti, trovarsi continuamente costretto a rifiutare ogni sostegno di forme, materie o azioni passate: solo nello spazio vuoto, alle prese con materie grezze alle quali si è liberi di dare soltanto forme mai prima viste.
La difficoltà è che, obbedendo a una simile norma, si va verso la stasi, non verso il movimento. La tradizione del nuovo è la tradizione dell’immobilità. Tradizione, dal latino tradere (passare di mano in mano), esprime infatti l’idea di un movimento del tempo in modo più semplice e più chiaro che non il progresso, parola di cui non è mai chiaro che cosa veramente significhi, cioè verso quale meta e per quale scopo ci si muova.
Insomma, negare la tradizione, predicare la liberazione dalle «nebbie del passato» significa in realtà invocare la distruzione. La quale può certo essere «creativa» nel senso di Mefistofele e di Bakunin: far tabula rasa per costruire. Solo che la distruzione non è un fatto di per sé positivo: è una tragedia. La tragedia stessa della storia umana, che è fatta di distruzioni.
Abituati come siamo a pensare alla storia come a una sorta di film storico-ideologico, non ci rendiamo conto di che cosa voglia dire, per esempio, il passaggio da un’era all’altra. Parliamo delle grandi migrazioni di popoli, della discesa degli Ariani fino all’India, o di quella dei Dori in Grecia, come a mutamenti spettacolosi e drammatici, forse, ma in qualche modo necessari e profittevoli, visto che sono avvenuti e hanno contribuito a costruire il mondo umano quale noi lo conosciamo. Pensiamo troppo poco al fatto che ognuna di quelle grandi «novità» significò la morte di intere comunità, legami, arti, modi d’essere e di fare.
Sappiamo con qualche certezza, per esempio, che l’età neolitica fu un’età di pace apparentemente completa. Altrimenti, fra l’altro, come avrebbe fatto quella gente, che noi immaginiamo scioccamente «primitiva», a compiere l’immenso lavoro che essa portò avanti, e fu di scegliere le specie fisse di piante da seminare e raccogliere, eliminando le varietà che fruttificano irregolarmente in tempi differenti dell’anno? E sono anche loro, i cavernicoli, ad averci lasciato, a Lascaux, ad Altamira e altrove, alcune fra le più mirabili e raffinate figurazioni dell’arte; poi venne il nuovo: le genti «vestite di bronzo» di cui ci parla Esiodo, e quella pace fu frantumata. Ma i frutti rimasero, la tradizione, quanto all’essenziale, non fu spezzata, né poteva esserlo. Ma ci furono anche le rovine, le rapine, i massacri, le perdite irreparabili che nessuna provvidenza, storica o no, può sanare.
Ora, migrazione per migrazione, novità per novità, non sarebbe forse assurdo considerare (in via putativa, e per aiutare l’immaginazione) quella che siamo abituati a chiamare «rivoluzione industriale» come una sorta di grande migrazione dei popoli occidentali, muniti di macchine, alla conquista del pianeta. Grande migrazione, grande impresa, grande distribuzione, grande novità. La più grande della storia, dopo le catastrofi telluriche che precedettero la nascita della vita. La tra ...[continua]
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