In un’intervista all’"Observer”, John Kenneth Galbraith ha spiegato ancora una volta che la crescita economica indefinita, nelle società industriali, è giunta al limite dell’assurdo e non può continuare senza che le società stesse, le quali credono di crescere indefinitamente, si deteriorino invece progressivamente, in quanto trascurano sempre più i servizi e le necessità pubbliche (scuole, urbanismo, salute, giustizia distributiva) per correre appresso ad automobili, lavatrici, televisori, indumenti pittoreschi e altri simili ammennicoli.
La tesi principale di Galbraith, come tutti ormai sanno, si riassume in due punti. Primo, il benessere di una società non si misura dal ritmo di crescita del reddito nazionale lordo, ossia dalla produttività, bensì dalla soddisfazione dei bisogni reali dell’individuo e della collettività, e dall’equilibrio fra gli uni e gli altri. Secondo, la corsa attuale al consumismo, con tutte le conseguenze che comporta, è causata dal persistere di una concezione antiquata della società industriale, che valeva per i tempi dello sviluppo e della penuria, ma non vale più oggi, in tempi di sovrabbondanza e di spreco: è la pubblicità, con tutte le forme connesse di pressione artificiale per l’aumento delle vendite, che è responsabile dell’inerzia con la quale si continua a spingere la gente a comprare oggetti inutili mentre non si provvede a salvarla da un non lontano avvelenamento dell’atmosfera e della terra stessa.
Il rimedio che Galbraith propone è -anche questo lo sanno ormai tutti- l’aumento della spesa pubblica e la limitazione drastica della produzione di beni di consumo. Si avranno così un’efficace lotta contro l’inquinamento dell’aria e delle acque; un riassetto razionale delle città in modo da renderle di nuovo centri di vita civile, di cultura e di svago, oltre che di lavoro; una riorganizzazione completa del sistema scolastico e, infine, non ultimo certo in ordine d’importanza, un riassorbimento delle enormi spese militari attuali.
«Quello di cui parlo -ha precisato Galbraith alla giornalista che l’intervistava- non è un mondo in cui la gente lavorerebbe di meno e consumerebbe di più, che è cosa impossibile. Io parlo di un mondo nel quale, al di sopra di un certo livello, la gente non sia spinta al lavoro come i topi di Scandinavia al suicidio perché persuasa che deve consumare sempre di più, di più, e ancora di più. Un mondo simile è possibile. Scopo dell’uomo a questo mondo non è consumare, ma usare della vita e goderla… In una esistenza razionalmente concepita, ci sarebbero persone che si contenterebbero di lavorare moderatamente e poi starsene per strada o parlare, riflettere, disegnare, dipingere, scribacchiare o far l’amore con la debita discrezione. Nessuna di queste occupazioni esige un’economia in espansione».
Non discuterò certo l’aspetto economico delle idee di Galbraith. Ma, esposte come sono in termini di senso comune, esse si prestano a qualche commento anch’esso di senso comune. Il primo che mi viene alla mente è questo: «È proprio vero che la società dei consumi è stata fatta dai produttori e dall’astuzia degli agenti di pubblicità? I consumatori -cioè noi presunte vittime- non hanno proprio nessuna responsabilità, o soltanto quella di un’eccessiva credulità e propensione allo scialo?».
Me lo domando, e la risposta mi sembra dover essere negativa. Il produttore (il quale, non è inutile ricordarlo, almeno per tutto ciò che non produce egli stesso, è anche un consumatore) che cosa produce se non quello che, in un modo o nell’altro, e magari a gran forza di persuasione occulta e di clamori pubblicitari, ritiene che «possa andare», come si dice, e se si sbaglia ci perde?
Prendiamo il caso limite della modifica periodica del modello di uno stesso piccolo meccanismo utile -poniamo: una penna stilografica- e accettiamo la tesi, del resto ovvia, che l’operazione è compiuta dal produttore a puro scopo di smercio, la differenza fra l’uno e l’altro modello essendo minima e sostanzialmente indifferente, e che dunque solo in forza di un miraggio psicologico il nuovo modello sembrerà al consumatore ignaro un bene di cui non si può fare a meno senza rinunziare allo strumento perfetto per contentarsi dell’imperfetto. Ammettiamo pure che il suddetto miraggio viene causato, se non fatalmente e sempre, almeno nella maggior parte dei casi dalla stregoneria dei tecnici della pubblicità (i quali, secondo Galbraith, sono degli scrittori o artisti mancati, nel c ...[continua]

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