- Ti dirò: due, cinque, dieci, o anche venti giovani, facciano quel che facciano e dicano quel che dicano, li posso osservare, ascoltare, parlarci. Mi dicono qualcosa di abbastanza chiaro su cui posso riflettere, e forse dare un giudizio. Per esempio, una volta chiesi a una ragazza diciottenne frenetica del ballo, che piacere provasse in queste danze in cui ognuno sta da sé e sembra chiuso in una sua estasi. La risposta fu: «Mi dimentico di me stessa »; e mi fece capire qualcosa. Ma duecentomila o quattrocentomila ragazzi insieme non m’inorridiscono, perché non sono inquadrati da nessun partito e da nessuna setta, né invasati da alcun Capo. Non m’aiutano a capire nulla. M’inquietano soltanto. O meglio, mi lasciano perplesso. Non portano una divisa, eppure hanno un’uniforme: disparata, variopinta, bizzarra quanto si vuole, ma uniforme. L’uniforme della singolarità. Ognuno di loro sembra mosso da un suo proprio demone interiore, ma fanno tutti, più o meno, le stesse cose, assumono gli stessi atteggiamenti, si sfrenano, quando si sfrenano, negli stessi gesti e atti. Insieme, danno l’impressione di un ribollire caotico, di un sommovimento primitivo d’istinti, di un dibattersi furioso contro i limiti stessi del proprio corpo, e di dover straripare da un momento all’altro in qualche azione distruttrice o, chissà, rivelatrice della forma delle cose future. Ma, una volta soddisfatto l’istinto dello sfrenamento collettivo e dello stare insieme a modo loro, si sbandano più o meno contenti, e più o meno esausti. Ma non gioiosi. La gioia sembra assente non solo dal loro orgasmo di massa, ma anche dai loro visi.
- Be’, è naturale che sia così. II rito è terminato, l’estasi raggiunta. Non è detto che fra i «thiasoi», le compagnie di adoratori e adoratrici di Dioniso che si radunavano di notte nei boschi del Parnaso, a sfrenarsi in danze orgiastiche, a cibarsi delle carni di animali sbranati vivi, e anche a respirare i fumi della «kànnabis», ossia della marijuana, regnasse l’allegria. Era furia liberatrice, fine a se stessa. Ma l’arrivo di Dioniso in Grecia fu un gran fatto, penetrò le forme della vita religiosa come quelle dell’arte, e costrinse i filosofi a riflettere.
- Sì, ma lì c’era un dio riconosciuto, ed era non solo a invocarlo e a darsi in preda alla sua furia irresistibile, ma anche a evocarlo in visioni beatifiche, che quelle compagnie si adunavano. Io, fra questi giovani d’oggi, avverto bene l’impeto dell’«orghé», ossia il bisogno di abbandonarsi all’impulso del momento. Vedo anche gli effetti di quest’abbandono e credo di afferrarne, se non il motivo, i moventi. Quello che non mi riesce neppure d’intravedere è il dio, il principio vitale, al quale questi ragazzi sono devoti e di cui celebrano i misteri.
- Dovresti essere iniziato, e non puoi esserlo, alla tua età, senza cadere nel grottesco di Cadmo e di Tiresia nelle «Baccanti» di Euripide, che cercano di mascherarsi da mènadi per sorprendere i misteri di Dioniso; archetipi, in questo, di molti anziani del giorno d’oggi. D’altra parte, chi può dire in che forma si riveli un dio? All’origine, «dio» è l’innominabile, ciò che sconvolge e spaventa. Da due millenni e più, per noi, dio è il Dio unico giudeo-cristiano, o quello dei filosofi stoici. Ma chi ti dice che non siamo entrati -e non da ieri- in un’epoca di dei ancora innominati e fra i quali, dunque, i veri si mescolano ai falsi, in un miscuglio spesso repellente, ma sempre pauroso?
- Possibile, anzi probabile. Dietro la «morte di Dio», e la conseguente «morte dell’uomo», di cui oggi tanto è questione, dietro l’attuale agitarsi di concezioni fra apocalittiche e dottrinarie, e la lunga insistenza di una certa cultura europea nell’incitamento a trasgredire i limiti della cosiddetta «normalità», dietro tutto questo c’è sicuramente un risorgere dell’oscuro, dell’innominabile e dello sconvolgente. Le professioni d’ateismo integrale c ...[continua]
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