«Finalmente, dunque, si vorrebbe concludere -continuava quel discorso- la libertà torna chiaramente a essere il lievito della lotta politica, e la gioventù si trova naturalmente alla testa del movimento, senza aspettare che i politici abbiano terminato i loro calcoli, messo a punto le loro tattiche e diramato le opportune parole d’ordine».
Si diceva questo, e tuttavia si aggiungeva: «Rallegrarsi che, invece del conformismo "realista” che sembrava diffondersi fra i giovani nell’immediato dopoguerra, si abbia un’ondata di ribellione (o di ribellismo) non basta. Bisogna anche vedere di che cosa precisamente si tratta caso per caso, e ragionare».
Ebbene, ragioniamo dunque un poco sulla rivolta dei giovani (e non solo degli studenti), la quale dal 1965 a oggi ha preso proporzioni europee, anzi intercontinentali, giacché va dall’America del Nord e del Sud fino alla Cina dove, con buona pace dei suoi zelatori e caudatari intellettuali, il singolare evento detto «rivoluzione culturale» appare sempre più come un’astuta operazione diretta a scatenare il ribellismo dei giovani contro l’apparato del partito a maggior sostegno e gloria del dittatore Mao, con l’esercito come valida diga a impedire gli straripamenti.
La rivolta coinvolge d’altronde quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale (senza escludere né i Paesi scandinavi né l’Inghilterra) e quelli dell’Europa orientale, Unione Sovietica compresa e Polonia oggi in primissima fila21.
A questo punto, si tratta di distinguere e ragionare, almeno nel chiuso di queste pagine.
Cominciamo da una constatazione semplice: la protesta degli studenti e degli intellettuali russi contro la sortita repressiva del regime, la rivolta aperta degli studenti, dei professori e degli intellettuali polacchi al grido di «libertà» non sono la stessa cosa della rivolta degli studenti torinesi, milanesi, fiorentini, romani contro i rispettivi rettori, professori e ministri, anche se nelle loro parole d’ordine, nelle loro grida e nei loro scritti essi mettono in causa la società tutta intera, parlando di «contestazione globale», rifiutando le «concessioni» e dicendo di voler riformare tutto da cima a fondo per loro iniziativa, per loro proprio conto e secondo i loro propri criteri. La libertà che chiedono gli studenti polacchi è rivendicazione chiara e specifica, elevata contro un regime chiaramente e specificamente oppressivo. La «contestazione globale» di cui parlano gli studenti italiani e tedeschi è formula altrettanto violenta quanto vaga. Se si parla dell’università, contestare il potere accademico può tuttalpiù voler dire chiedere una partecipazione diretta degli studenti alla discussione e decisione dei problemi che riguardano i loro studi. Se invece si parla della società nel suo insieme -la famosa «società dei consumi»- «contestazione globale» significa ribellarsi contro tutto e contro nulla.
Infatti, a parte il sintomo assai significativo del rifiuto totale di ogni tutela dei partiti, quel che gli studenti ammutinati sembrano soprattutto contestare è la guerra nel Vietnam, e quello che invece applaudono sono uomini e fatti che, per cominciare, sono rispetto alla situazione italiana (sia scolastica che politica) affatto estranei, come ...[continua]
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