Ma prima di avventurarci in quest’impresa va dato atto che il nostro interlocutore ha avuto l’ambizione di porre con la più grande nettezza il problema della "società” e della "comunità” - come pure quello di una "missione” possibile degli intellettuali nel mondo moderno. D’altra parte, una volta stabilito che bisogna aspirare ai "valori più sociali di tutti”, e "portare la lotta sul terreno in cui il tentativo possa diventare epidemico”, - e dopo aver raccomandato "l’intransigenza intellettuale” - non sembra più possibile compiacersi nell’idea alquanto vaga di atteggiamenti "implacabili” o nell’immagine piuttosto confusa di formazioni insieme "paramilitari” e monacali. Fra l’altro, avrebbe dovuto essere chiaro che né il "gesuitismo” né il "militarismo” sono "valori primari”, ma, al contrario, si fondano sull’abile sfruttamento dei valori sociali primari a fini di disciplina, e a tutto vantaggio di una Chiesa o di uno Stato già stabiliti.
In linea di massima notiamo che quando uno sceglie di mettersi dal punto di vista "sociale”, non è solamente per accumulare schede "sociologiche”, né per avere, con i popoli primitivi, il mito e la magia, nuovi argomenti per scaltre variazioni sul tema. Come in ogni scelta intellettuale seria anche in questa c’è, dapprima, una ragione principale che ci spinge, e di cui ci rendiamo conto solo imperfettamente - e poi c’è la necessità di formarci idee chiare intorno a quel che costituisce "la forza viva dei gruppi sociali”, e di respingere, quindi, tutte "le considerazioni con cui l’essere profondo dell’uomo sente di non aver nulla in comune”. Quali che siano le sue ambizioni, conclusioni o confusioni, va dato atto che R. C. è stato capace di porsi su questo terreno.
"L’essere profondo dell’uomo” è una frase che colpisce l’immaginazione. Ma cosa vogliamo dire con ciò? E perché affrontiamo il problema dal punto di vista della società, invece di ricorrere all’"introspezione” o alla meditazione solitaria?
A tutto ciò si potrebbe forse dare una risposta rigorosa, affermando che i "fatti sociali” sono gli unici di cui abbiamo un’esperienza che è, nello stesso tempo, la più intima e la più esteriore, i soli che interessano, nello stesso tempo, l’ambito dell’inafferrabile e quello dei fenomeni più concretamente delimitati: in tal modo conferiscono pieno senso al procedere della chiara conoscenza. Infatti, è solo nella realtà sociale che ci è dato cogliere immediatamente, in maniera precisa e comunicabile, le manifestazioni di quell’"essere profondo dell’uomo” così indissolubilmente legato all’ambito dei "significati profondi dell’Universo” - e quindi, così unico, complesso, coerente e, insieme, circostanziato, che non è arbitrario farne l’oggetto essenziale della conoscenza. "The proper study of MAN is MAN himself”…
Se consideriamo la questione da questo punto di vista, diviene evidente che la ricerca non ha affatto lo scopo di giungere ad una teoria sociologica purchessia - e che il rigore ch’essa ci impone non mira affatto all’istituzione di un qualsivoglia "dogma”. Si tratta, in realtà, di tutt’altra cosa: di una critica1 tendente a scoprire e a liberare certi fatti, o insiemi di fatti significativi (e normativi). Si tratta, anche, di una disposizione dell’essere consistente nello scartare, con la più grande nettezza, tutto quel che non approfondisce questa scoperta e questa liberazione.
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Il "mito del XIX secolo” abbozzato dal temibile glossatore di R. C. è un preziosissimo punto d’appoggio nel tentativo di esplicitare alcuni dei motivi e problemi che l’osservazione del fatto sociale solleva.
Quel che colpisce subito, dell’interpretazione che ci viene proposta delle più significative manifestazioni del XIX secolo, è che essa arriva a mostrare la profonda affinità che lega atteggiamenti, sentimenti, opere, idee in se stesse molto diverse (perfino disparate), rispettando perfettamente la loro individualità e senza alcun bisogno di schematizzare. L’affinità così messa in luce non è un’idea astratta né una vaga "colorazione”: saremmo tentati di dire che è una "cosa ...[continua]
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