Io faccio parte della grande ondata di persone che hanno “fatto ritorno” in Israele. Avevo 17 anni quando arrivai qui dall’Argentina nel 1958, decimo anniversario dell’indipendenza. Provengo da una famiglia tipicamente ebraica e sionista, non religiosa, ma molto consapevole del proprio ebraismo, e soprattutto convinta che il sionismo fosse l’unica strada per non doversi mai più ritrovare nelle condizioni storiche che avevano così tragicamente colpito il popolo ebraico. Ero arrivato da solo (la mia famiglia mi raggiunse solo un anno e mezzo dopo e comunque continuammo a vivere ognuno nella propria casa), pienamente consapevole che non stavo andando a vivere in un Paese qualsiasi, ma nell’ “unico” Paese adatto al mio futuro. Io poi parlavo già l’ebraico perché a Buenos Aires avevo terminato le superiori in una scuola ebraica, perciò riuscii a sentirmi subito a casa, a divenire con facilità “parte di un tutto”, forse perché ero giovane, forse perché io e Israele siamo cresciuti insieme. Per gli adulti invece era tutto più complicato, per loro era un po’ una lotta dover ricominciare una vita in un Paese di lingua, cultura e costumi diversi. Qui continuai gli studi all’università e prestai servizio nell’esercito, poi, nel 1968 mi sposai, e con mia moglie abbiamo vissuto quella che chiamerei una normale vita israeliana. Coincidenza, anche lei era arrivata nel 1958, però è più giovane di me. Non abbiamo le stesse radici culturali -lei è originaria della Transilvania- ma siamo stati insieme in un modo veramente israeliano: l’unica lingua che si parla in famiglia è l’ebraico. Abbiamo avuto tre figli: Dana nel 1971, Alon nel 1975, e infine Noam, nel 1977.
Noam nacque mentre io ero in missione in Europa per conto dell’Histadrut, la Confederazione generale del lavoro ebraica.
Ho lavorato per molti anni nel sindacato, perlopiù nel settore internazionale, e dal ‘75 al ‘78 fui mandato come rappresentante a Bruxelles, presso l’Unione Europea (che allora si chiamava ancora Cee). Quando partimmo per l’Europa eravamo una famiglia di quattro persone. Il nostro secondo figlio, Alon, aveva pochi mesi (era nato a febbraio e noi partimmo a settembre). Fu in quel periodo che decidemmo di allargare ulteriormente la nostra famiglia e il 16 giugno del 1977 nacque Noam, che ora avrebbe ventotto anni.
Nel maggio del ’77 accadde un evento senza precedenti: il Likud andò al potere. Fu una vera e propria rivoluzione mentale, dovettero persino trovare un neologismo per definirla, l’ebraico non aveva una parola adatta. Fu coniato un termine che deriva dalla parola rivoluzione. Si trattava infatti di una vera e propria rivoluzione politica: il Likud, al pari dei Comunisti, era sempre stato considerato, da Ben Gurion e dal Partito Laburista, un partner inaccettabile, non legittimato a entrare a far parte di un governo. E anche per me, come per tante altre persone, pensare a Menachem Begin come Primo Ministro fu davvero un cataclisma, qualcosa di difficile da digerire. E dire che non fu un evento improvviso, era stato anzi preparato da una lunga serie di fenomeni e processi, a livello politico, economico, sociale e intellettuale, che possono in qualche modo essere ricondotti alla guerra del Kippur, la quale, nonostante sotto il profilo militare possa forse essere considerata il più grande successo di Israele, sotto altri aspetti provocò una forte crisi di leadership e una crisi morale nel Paese (io sono stato soldato in quella guerra -precisamente un ufficiale- e ho visto le cose orrende che ha portato), crisi che poi aprì la strada alla vittoria elettorale di Begin. Comunque, anche se forse avremmo dovuto aspettarcelo, quando accadde fu davvero un colpo. E furono in molti, specie a sinistra, a pensare che questo governo avrebbe fornito ulteriori pretesti a una politica aggressiva verso le annessioni e nelle relazioni internazionale, specie nei rapporti con gli arabi…
Qualche mese dopo il disastro dei Laburisti, nel maggio ’77, dovetti tornare in Israele per il Congresso Generale dell’Histadrut, un Congresso molto delicato, all’in ...[continua]
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