Paolo Calzini, già docente di Relazioni Internazionali e Storia dell’Europa Orientale presso le Università di Milano e Bologna, è adjunct Professor di Studi Europei alla Johns Hopkins University e Senior Adviser all’Istituto di Studi di Politica Internazionale di Milano.

Come si è arrivati al precipitare degli eventi in Ucraina?

Cominciamo da alcune premesse. La prima è che la crisi scoppiata in Ucraina è senza paragoni la più grave rispetto a precedenti crisi che pure c’erano state sia all’interno dell’Ucraina sia nei rapporti Est-Ovest. In Ucraina c’era già stata una rivoluzione, la cosiddetta rivoluzione arancione del 2004-2005, che aveva provocato qualche tensione; anche sul piano internazionale c’erano stati vari episodi, in particolare, nello spazio post-sovietico, la guerra russa-georgiana del 2008. In ambedue i casi le tensioni erano state assorbite rapidamente. Anche perché non era stato toccato l’elemento cruciale, invece in gioco oggi, di una modifica dello status quo territoriale.
La crisi attuale è stata inoltre improvvisa e inaspettata, ha colto di sorpresa tutti gli attori interessati; il che ha provocato delle reazioni impulsive, approssimative, non meditate, proprio per questo effetto appunto dell’emergenza. Ciò ha contribuito a inasprire i rapporti e specialmente nella prima fase non c’è stato, da parte di Occidente e Russia, come pure all’interno dell’Ucraina, un approccio improntato a considerazioni più di prospettiva di che cosa questa crisi significasse.
La crisi ha radici antiche. Da tempo il cosiddetto spazio post-sovietico, che comprende Bielorussia, Ucraina, Moldavia e i tre stati caucasici, è al centro della competizione fra Occidente e Russia.
Nella stessa Ucraina, un’apparente condizione di stabilità mascherava delle tensioni, delle contraddizioni interne che d’altra parte erano state evidenziate anche da alcuni sintomi, alcuni episodi: già la rivoluzione colorata aveva dato il senso di un regime privo di legittimità. E poi nella porzione europea dello spazio post-sovietico c’erano stati una serie di conflitti che hanno portato a quelli che si chiamano conflitti congelati: la Georgia con le due formazioni secessioniste, la Moldavia con la Transnistria, e quella che è stata una vera propria guerra, poi fermata, tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh.
Questa situazione d’insieme, regionale e ucraina, è stata interpretata in modo approssimativo sia da parte russa che da parte occidentale, preoccupate soprattutto di mantenere lo status quo in un’area di rilievo cruciale nei rapporti reciproci. È prevalsa l’illusione che questi margini di stabilità garantissero da uno scontro diretto.
Lei contesta che si possa parlare di una nuova guerra fredda.
Non è una nuova guerra fredda. Intanto il sistema internazionale è completamente diverso: allora l’asse Russia-Stati Uniti era l’asse portante del sistema internazionale; oggi siamo in un sistema multipolare, che vede l’ascesa dei nuovi stati emergenti non occidentali (la Cina è l’esempio più clamoroso), un relativo indebolimento dell’influenza occidentale nel suo insieme, e un forte ridimensionamento della Russia (che pure resta una grande potenza nucleare) sia nelle sue capacità di hard power che di soft power. Nel senso che non c’è più l’attrazione dell’ideologia comunista, perché la Russia non propone più un modello effettivamente alternativo a quello liberal-democratico (è un modello appunto di capitalismo autoritario, però non va molto al di là di questo). Per quel che riguarda l’hard power, cioè i mezzi di coercizione, non è più in grado di esercitarli a livello globale; possiamo dire che la Russia mantiene, per la logica geopolitica della prossimità, una prevalenza a livello regionale.
Durante la guerra fredda c’era una cornice istituzionale riconosciuta a Est e a Ovest, che imponeva regole di politica internazionale mutualmente accettate. Una cornice fondata su una divisione netta dell’Europa e con la presenza di due aree, una a prevalenza russo-sovietica, l’altra a prevalenza occidentale americana. C’erano insomma due blocchi contrapposti.
Ecco, oggi questa cornice non c’è più: in Europa vediamo due poli, l’Ue e la Russia, con in mezzo quest’area intermedia, il "vicinato comune”, che resta non definita sul piano delle influenze esterne; una sorta di no man’s land, un’area aperta a una competizione da parte delle potenze esterne. Questi stessi regimi, ucraino, georgiano, bielorusso, ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!