Paolo Calzini è visiting professor in European Studies alla Johns Hopkins University.

Lei sostiene che la Russia si trova oggi di fronte all’inizio di una nuova fase. Può spiegare?
Nella nuova Russia post sovietica c’è stata una prima fase in qualche modo di assestamento, di difesa dell’unità del paese con Eltsin, e una seconda con Putin, che è cominciata nel 2000, che è stata di consolidamento ma anche di rafforzamento sul piano dell’influenza internazionale. Questa fase, che ha visto una combinazione di stabilità, ordine interno, e di accresciuta influenza all’esterno, è stata sostenuta negli ultimi 7-8 anni da una crescita economica importante, legata in particolare all’aumento del prezzo del gas e del petrolio, di cui la Russia è un grande produttore.
Ecco, questa fase oggi è in via di esaurimento e non sappiamo bene cosa aspettarci dal futuro, tanto più che l’esigenza di un cambiamento strutturale è resa particolarmente difficile dalla crisi economica. Oggi, l’uomo forte del sistema resta Putin, un “super presidente”, responsabile di un regime che potremmo definire ibrido, meticcio, nel senso che ha una forma istituzionale di tipo democratico e una pratica, invece, autoritaria.
Va giustamente sottolineata anche l’introduzione di alcune libertà assenti in epoca sovietica, in particolare quelle personali, private, come la possibilità di viaggiare, di discussione, ecc.; una libertà che si ferma tuttavia prima di arrivare al piano politico, nel senso che non c’è la possibilità o la capacità di un’opposizione politica organizzata, le elezioni sono manipolate, i media sono molto controllati. Per questo si parla di un autoritarismo morbido, perché è repressivo, ma in modo selettivo. La Russia è anche un paese violento. Conosciamo il destino toccato alle persone che si sono esposte molto, come Anna Politkovskaja.
Parliamo poi di una situazione non solo molto complessa, ma anche molto variegata: c’è una grande differenza, come dire, temporale, culturale, fra i grandi centri urbani, San Pietroburgo, Mosca, Niznij Novgorod, la provincia russa, cioè le campagne, la parte orientale, la Siberia, e quella sorta di enclave ex coloniale, che sono in particolare le regioni del Caucaso a religione musulmana, come la Cecenia.
Potremmo dunque parlare di tre livelli, uno molto avanzato, di tipo europeo, un secondo di tipo europeo ma provinciale, “alla russa”, e un terzo che è un residuo della struttura imperiale russa, ma al contempo è parte della Russia. Non dimentichiamo che la Russia è un paese multinazionale, perché i russi sono l’80%, e una parte cospicua del restante 20% è costituita da una presenza islamica, musulmana, che è indigena, non è di immigrazione.
Lei sostiene che la nuova ideologia di Stato è diventata il nazionalismo.
In Russia, semplificando, possiamo dire che il comunismo è finito: c’è un partito comunista con una certa presa, ma abbastanza residuale. I partiti che si richiamano alle democrazie di tipo occidentale, d’altra parte, sono estremamente minoritari. In questo senso io dico che il comunismo è sorpassato, e la democrazia è rimandata. Quindi, cosa rimane? Rimane un sistema intermedio, come dicevo, ibrido, in cui l’ideologia di riferimento è il nazionalismo. Perché il nazionalismo? Perché è un’ideologia molto vaga, che può coprire molte posizioni, molti valori, l’ordine, la stabilità, la gerarchia, valori moderni (la tecnologia), ma anche tradizionali (la patria, la cultura, la storia), e quindi è una copertura che funziona, e che Putin in particolare ha adottato.
Putin è salito al potere nel 2000, sull’onda di una spinta nazionalista legata alla guerra in Cecenia, e quindi all’idea che la Russia fosse sull’orlo della disgregazione. C’era anche l’esigenza di ricompattare un paese che durante il periodo di Eltsin era sì rimasto intatto, ma in una situazione che i russi definiscono di “umiliazione nazionale”, molto dipendente dall’Occidente, col fallimento finanziario del ’99...
A quel punto, Putin ha giocato la carta del nazionalismo in senso lato, che vuol dire, all’interno, ricostituire l’unità, ricontrollare la Cecenia (che, pur essendo una repubblica periferica, è parte del sistema sovrano russo), e all’esterno ristabilire lo status della Russia come grande potenza.
Non dobbiamo sottovalutare il fatto che lo shock prodotto dalla perdita dell’impero e dalla fine dell’Unione Sovietica aveva generato un vero problema di identità nazionale.
Cioè, cos’è la Russia oggi ...[continua]

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