Giancarlo Onger si occupa dal 1974 di tematiche inerenti l’integrazione scolastica. Prima maestro di sostegno nella Scuola Elementare, poi in prestito alle strutture ministeriali decentrate, è stato responsabile dell’Area sostegno alla persona presso l’Ufficio Scolastico di Brescia e di Cremona. Ha svolto e svolge attività di formazione, oltre a collaborare con riviste del settore educativo.

Lei si occupa di disabilità a scuola fin dagli anni Settanta. Cos’è cambiato in questi decenni riguardo le leggi, ma anche l’approccio culturale?
Di integrazione scolastica si inizia a dibattere negli anni Settanta, non a caso nel periodo della battaglia contro i luoghi chiusi e quindi le scuole speciali, le carceri intese solo come luogo di segregazione e non di rieducazione, i manicomi, ecc. Le prime riforme non arrivano pertanto come qualcosa piovuto dal cielo, ma sono il frutto di un preciso momento storico.
Io ricordo sempre il documento della Commissione Falcucci del ’75 che è, secondo me, un documento straordinario, di pensiero soprattutto. C’è dentro un intero programma e molto avanzato: "l’integrazione degli handicappati premessa per una scuola migliore”, questo era il concetto. Quindi, non è che dobbiamo costruire una scuola a parte, ma i bambini e i ragazzi con disabilità diventano parte della scuola.
Fino ad allora i ragazzi con disabilità che percorso seguivano?
Erano nelle scuole speciali. Il 30 marzo del ’71 viene emanata una prima legge, la 118, che pressapoco dice: "Si può cominciare a mettere i mutilati e invalidi civili nella scuola pubblica”. È una buona legge, ma lascia fuori dall’obbligo la scuola secondaria di secondo grado. Alle superiori questi ragazzi entrano dopo una sentenza della Corte costituzionale del 1987 che traduce il verbo "si può” in "si deve”. Già nei primi anni Ottanta, grazie ad alcune figure illuminate, alcuni ragazzi entrano, ma una presenza consistente di alunni con disabilità nelle scuole superiori si registra solo dopo la metà degli anni Novanta. A quel tempo, quando presi servizio presso il Provveditorato di Brescia, ricordo che c’erano centotredici ragazzi con disabilità nelle scuole superiori bresciane. Tenga conto che la nostra è una provincia di un milione di abitanti. Quando sono andato via, nel 2011, erano oltre settecento.
Nella relazione della commissione Falcucci, una commissione senatoriale, oltre agli importanti input sulla indispensabile collaborazione tra tutte le figure, vale a dire il clinico, il sociale, l’educativo e la famiglia, la cosa più importante, a mio avviso, è che il ragazzo con disabilità diventa "protagonista” della propria crescita. Quel documento dice tutto questo. Io lo renderei una lettura obbligatoria per tutti coloro che si occupano degli alunni con disabilità, perché dentro ci sono tutti questi aspetti, alcuni puramente intuitivi, se vuoi, perché all’epoca l’esperienza dell’integrazione era molto frammentaria.
Io ho iniziato a lavorare coi ragazzi disabili quando non c’era ancora l’insegnante di sostegno. Ero neo-maestro e cercavano persone che aiutassero le scuole nei loro primi passi; io l’ho fatto qui al mio paese nel ’74, prima del documento Falcucci, subito dopo la 118. La cosa non era gestita ancora dal Comune, ma da quelli che erano i patronati scolastici. Ho cominciato così a lavorare con un ragazzo con disabilità intellettiva che era stato inserito in una classe. Si parlava di "inserimento selvaggio”. Ecco, mi piacerebbe sviluppare questo concetto perché per me invece fu un’esperienza positiva. Se non ci fosse stato questo coraggio di buttarsi, se avessimo aspettato la quadratura del cerchio, prima di iniziare, staremmo ancora discutendo. Esattamente quello che stanno facendo oggi i francesi, che hanno varato la prima legge sull’integrazione nel 2005. Noi l’abbiamo fatta nel ’71, trentaquattro anni prima. E la loro prima legge non prevede la presenza obbligatoria di questi ragazzi nella scuola pubblica. Afferma semplicemente che si può praticare l’integrazione ma, nello stesso tempo, tiene ancora in vita le scuole speciali.
Giusto quello che poteva succedere anche a noi. È stata una forzatura che ci ha obbligato ad affrontare la questione con gli alunni disabili nelle classi, in carne e ossa, togliendoli dai luoghi dell’oblio.
I genitori dei bambini cosiddetti normali già allora protestavano perché erano dell’idea che gli alunni handicappati, così si diceva allora, avrebbero rallentato l’apprendimento dei ...[continua]

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