Quattrocentonove tabut -così i musulmani di Bosnia chiamano le bare.
L’11 luglio, al Centro memoriale di Potočari -dedicato alle vittime del genocidio di Srebrenica- sono stati sepolti i resti di altre 409 persone. A 18 anni dal luglio 1995, sono complessivamente 6.066 le persone che hanno trovato sepoltura alla mezarija, il cimitero del Memoriale.
Oltre 2.000 persone non sono state ancora ritrovate o identificate, perché nel ’95, le truppe serbo-bosniache al comando del generale Ratko Mladić, dopo aver inumato i corpi dei bosgnacchi in fosse comuni, per occultare le prove del crimine riaprirono le cosiddette fosse primarie e, con l’ausilio di macchine movimento terra, sminuzzarono i corpi e li sparpagliarono nelle cosiddette fosse secondarie, disseminate per tutto il Podrinje, la regione della Bosnia orientale in cui si trova Srebrenica.

Il lavoro del Centro di identificazione di Tuzla (Icmp-Pip International Commission on Missing Persons − Podrinje Identification Program) è ancora lungo e complesso.
I media locali pongono l’accento sul fatto che quest’anno verranno seppelliti 44 minorenni tra cui una neonata. La bambina, nata nella notte tra il 12 e il 13 luglio 1995, è stata ritrovata in una fossa comune nelle immediate vicinanze del compound dove era dislocato il contingente dei Caschi Blu olandesi che aveva il mandato di vigilare sulla "zona protetta e demilitarizzata” di Srebrenica.
Sul suo nišan -la stele funeraria musulmana- verrà inciso il nome Fatima, come desiderato dai genitori. È la più giovane vittima del genocidio di Srebrenica. Nei giorni scorsi ci sono state molte polemiche intorno a questo fatto. Alcuni media (serbo-bosniaci) hanno contestato che Fatima fosse stata uccisa affermando che invece fosse morta per cause naturali e che quindi non si potesse considerare vittima del genocidio di Srebrenica. Nel tritacarne mediatico-negazionista si è perso di vista il fatto che un essere umano non avrebbe dovuto trovarsi a partorire in quelle condizioni.
Quest’anno, alla cerimonia di commemorazione e sepoltura delle vittime del genocidio di Srebrenica -seguita da tutti i principali media mondiali- i politici e le autorità si sono ripresi la scena.
Lo scorso anno era stata letta solamente una lista con i nomi delle autorità presenti ed era stato dato spazio a un intervento di Arthur Schneier, il rabbino capo della sinagoga Park East di New York. Il primo religioso non musulmano a parlare alla folla di Srebrenica, ha fatto un bellissimo discorso, di grande respiro inter-religioso, da sopravvissuto alla Shoah, ai familiari e superstiti del genocidio di Srebrenica, sulla memoria e sulla giustizia.
Intanto c’è chi, da diciotto anni, aspetta una telefonata del Centro di identificazione di Tuzla.
A prima vista si nota che quest’anno c’è meno gente. Le stime per le edizioni passate attestavano stabilmente intorno ai 30-35.000 partecipanti, mentre quest’anno si parla di 10-15.000. Forse anche per questo si notano -un po’ troppo- i politici, le autorità, le personalità pubbliche, i media, ecc.
Prima di essere esposti in un’ordinata e inquietante coreografia, sul prato del Centro Memoriale di Potočari, i tabut sono stati raccolti in un hangar. Tagli di luce che entrano dalle finestre squadrate di uno squallido capannone industriale di lamiera e cemento, quasi studiati per accogliere l’ultimo momento di intimità dei familiari delle vittime. Poi, di colpo, la folla. Fuori diluvia e ci sono le bare da portare in processione al Memoriale.
Poco distante, alla Spomen Soba, gli attori del Ratni Teatar di Sarajevo hanno concluso una performance e si stanno preparando per la replica successiva. Tre schermi proiettavano le video interviste dei testimoni di quello che è successo intorno alla base dei Caschi Blu alla caduta di Srebrenica. E i nomi di battesimo dei 409 che verranno sepolti, scanditi con un intreccio corale.
Il tempo è sospeso. Fuori, verso il prato del Memoriale, i media sono schierati. Camion attrezzati e ogni genere di aggeggio per riprendere, documentare, mostrare, informare. Quest’anno è stata montata anche una gru con telecamera panoramica e il maxi-schermo predisposto sulla facciata del compund -di fronte al Memoriale- proietta immagini in diretta di quello che sta succedendo.
Viaggiano paralleli diversi livelli di realtà.
Quella delle 409 famiglie che vivono il dramma del gesto concreto di scavare una fossa, di sotterrare e coprire con badilate di terra, i loro morti. Quella delle diverse angolazioni di ripresa che propone il maxi-schermo in background. Quella dei politici, delle autorità, delle personalità locali e degli ospiti internazionali. Quella di chi ha ricordato -partecipando alla Marš Mira- la colonna dei quindicimila che tentò di fuggire dalla furia delle truppe di Mladić, cercando di raggiungere i territori non occupati e che venne decimata in una caccia all’uomo senza pietà. Quella di chi spera, l’anno prossimo, di ricevere la telefonata del Centro di Identificazione di Tuzla. Quella di chi ha ritrovato solo due ossa di suo figlio e ha deciso che potevano essere abbastanza per seppellirlo, dopo un’attesa lunga 18 anni. Quella di chi -come il Sindaco di Srebrenica, Ćamil Duraković- chiede al mondo di non dimenticare e di impegnarsi a far ritornare la città un luogo di pace e di tolleranza. Quella di chi oggi è a Srebrenica e ascolta la lettura della poesia di Abdulah Sidran. Parole pesanti.
"... Srebrenica... Nulla di morto né di vivente in lei può più abitare... l’aria di piombo che mai nessuno ha imparato a mettersi nei polmoni... Da lei fugge tutto, anche ciò che da nessuna parte, se non sotto la terra nera, può fuggire... A noi spiegano che nel nostro Paese la guerra è finita e che nessuno deve più guardare al passato... Non ci permettete di guardare al passato! E noi non lo guardiamo, ma è lui a guardarci!”.
E ancora, la realtà di chi è arrivato da lontano per partecipare al dolore di un popolo: i bosgnacchi della diaspora, che dopo la commemorazione fanno una tappa obbligata a quello che rimane delle Terme di Guber. Riempiono una bottiglia di acqua da portarsi a casa. Quell’acqua, che insieme alle ricchezze minerarie, rese prospera Srebrenica fin dai tempi dei romani.
Quell’acqua che potrebbe rappresentare la rinascita della "città dell’argento”. Purtroppo i lavori per la ristrutturazione degli impianti termali e di imbottigliamento sono bloccati -tra un’ordinanza di demolizione e un ricorso- per questioni di interessi politici contrastanti intorno al futuro della città. E a pagare il conto, come durante la guerra, sono sempre gli stessi.
Poi c’è l’attesa per la decisione del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja sul ricorso presentato dalla difesa del dott. Radovan Karađžić.
Oggi, 11 luglio, mentre a Srebrenica si svolge la cerimonia di commemorazione e seppellimento delle vittime del genocidio, la Corte Internazionale per i crimini di guerra in ex-Jugoslavia deve decidere se proseguire con l’ipotesi di incriminazione dell’ex leader dei serbo-bosniaci per genocidio, non solo a Srebrenica, ma anche a Bratunac, Foča, Ključ, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik.
Nel corso della giornata si verrà a sapere che l’Itcy conferma l’ipotesi di genocidio estesa anche ad altre zone della Bosnia-Erzegovina. Contestata la scelta di comunicare la decisione proprio oggi. Oggi è il giorno del lutto. Non c’è niente da festeggiare.
Si aprono ipotesi sul futuro della Bosnia-Erzegovina. Se Karađžić, presidente della auto-proclamata Republika Srpska durante il conflitto, ha fondato quella che è poi stata riconosciuta come entità territoriale dagli accordi di Dayton, proprio sul genocidio, come si porrà la comunità internazionale nei confronti di questo fatto?
Quella stessa comunità internazionale che ha assistito a uno slow-motion genocide, iniziato nel ’92 con le pulizie etniche in Bosnia orientale e culminato, nel ’95, con il genocidio di Srebrenica, forse dovrà porsi qualche interrogativo sulle proprie responsabilità nelle vicende jugoslave.
Un violento temporale estivo accelera i tempi della cerimonia e l’interramento dei 409 tabut si svolge nel fango. Lascio il Centro Memoriale di Potočari con la sensazione che oggi il cielo abbia pianto per la miseria del genere umano.

Srebrenica, dopo la cerimonia, si svuota. Ritorna a essere sola come è stata lasciata sola nel ’95. Adesso ci vive pochissima gente. Prima della guerra erano più di 36.000 gli abitanti della municipalità (di cui 16.000 a Srebrenica città). Oggi, in attesa dei risultati del censimento del prossimo ottobre -il primo dal 1991- i dati (ufficiosi) riportano il numero di circa 6-7.000 residenti nella municipalità, di cui circa 2.000 in città. Defluita la folla, i cani randagi ritornano padroni delle strade.
Oggi, per una parte di Srebrenica è un giorno di festa. L’11 luglio i serbi -quelli ortodossi osservanti- si preparano a festeggiare il Petrovdan (il giorno di San Pietro), una delle più importanti feste ortodosse. Questa sera ci sarà la funzione, il concerto di un gruppo folk-tradizionale e l’accensione delle lile. La chiesa è piena. Qui, le ricorrenze religiose hanno assunto anche un carattere identitario, di gruppo (etnico, nazionale). I bambini scalpitano. Continuano a fare la spola tra il prato della chiesa e l’ingresso, per verificare a che punto siano le varie fasi della funzione. È la loro festa. L’accensione delle lile è un momento molto suggestivo e coreografico. Sono delle aste di legno terminanti con una specie di corona fatta con la corteccia del ciliegio a cui viene dato fuoco. Si deve aspettare il buio, così l’effetto è spettacolare. I bambini hanno l’onore di portare in processione intorno alla chiesa e di giocare con queste aste infuocate, che man mano, bruciando, perdono pezzi scintillanti. La festa termina esponendo le aste fuori dalla ringhiera che si affaccia sulla città (si canta anche "Kosovo je Srbija”).
Il Petrovdan è una festa tradizionale. Ha mantenuto il sapore antico. I suoni e le atmosfere della liturgia ortodossa, la musica tradizionale, il rito del fuoco.
Se qualche ora prima non ci fosse stata la cerimonia di commemorazione delle vittime del genocidio, sarebbe stata una bella occasione per conoscere un pezzo della storia di questa terra di confine. La Drina, che separa Srebrenica dalla Serbia, è stato uno dei grandi confini tra culture. Lungo il suo corso passava la linea di demarcazione tra l’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente, che poi divenne il confine tra cattolici e ortodossi e poi tra Islam e Imperi cristiani. Ivo Andrić, nel suo capolavoro Il ponte sulla Drina, racconta la storia delle culture e dei mondi che si sono incontrati e scontrati da queste parti. Una ricchezza, anche durante l’Impero Ottomano. Un "problema”, negli anni Novanta.
Piani di storia che procedono paralleli. E che non si incontrano. Convivono in uno stesso territorio e sono fonte del conflitto di narrative che attualmente è in atto in Bosnia-Erzegovina e a Srebrenica, in particolare.
A subirne maggiormente le conseguenze sono le nuove generazioni. Crescono in comunità che vivono in compartimenti stagni. Difficilmente comunicano tra loro. Specialmente a proposito di quanto successo durante la guerra. Ogni comunità ha attivato tutta una struttura (politica, culturale, mediatica, religiosa, ecc.) per portare avanti la propria versione. A Srebrenica, in particolare, mentre i bosgnacchi commemorano le vittime del genocidio, i serbi, nella migliore delle ipotesi, riconoscono che c’è stato un massacro. È rarissimo trovare dei serbi, a Srebrenica, che usino il termine "genocidio”. È un marchio pesante da portarsi sulle spalle.
Il 12 luglio è il giorno della commemorazione delle vittime serbe. È un capitolo complicato della storia recente. Durante la guerra, dopo le prime ondate di pulizia etnica commesse ai danni della popolazione non-serba, c’è stata la reazione delle forze (più o meno armate e più o meno regolari) musulmane e non si è andato tanto per il sottile. Sono stati attaccati villaggi serbi e ci sono state vittime anche tra la popolazione civile. Si tratta di crimini di guerra che dovranno essere giudicati.
È un’altra questione sospesa che alimenta il conflitto di narrative e che contribuisce a scavare solchi sempre più profondi che dividono le due comunità principali -bosgnacchi e serbi. Spesso sono solchi scavati nell’odio e nel dolore del non vedersi riconoscere la verità di quello che si è subìto.

Il 13 luglio le donne di Srebrenica commemorano i loro uomini uccisi nel genocidio andando a pregare in alcuni dei luoghi teatro dei maggiori massacri nel ’95, Kravica, Petković, Orahovac, Nova Kasaba. Le truppe di Mladić catturavano gli uomini che tentavano di raggiungere Tuzla, li radunavano in fabbricati capienti -scuole, palestre, magazzini- e da lì, dopo le esecuzioni, i corpi venivano caricati sui camion e portati dov’erano già state predisposte le fosse comuni.
Quest’anno le donne di Srebrenica sono riuscite a "sfondare” la recinzione e a entrare nella cooperativa agricola di Kravica per mettere una corona di fiori. Ci sono state tensioni con la polizia della Republika Srpska e lunghi strascichi di polemiche e accuse reciproche sui maggiori media bosniaci. Ogni anno, a luglio, le due comunità rivivono le tensioni del passato. Ogni anno i media e le élites politiche strumentalizzano il dolore di chi, durante la guerra, ha sofferto.
È veramente difficile trovare dei momenti di normalità in una società ancora profondamente tormentata dagli eventi di quasi vent’anni fa, intorno ai quali non è nemmeno cominciato un dialogo pubblico. A chi controlla il paese non conviene. È facile mantenere le comunità divise facendo leva sulle paure e sui dolori delle persone.