20 giugno 2008
A quasi quarant’anni dall’espulsione voluta da Saddam Hussein, le quattro maggiori compagnie petrolifere occidentali stanno negoziando il loro ritorno in Iraq. Entro la fine del mese, Royal Dutch Shell, BP, Exxon Mobil e Total firmeranno accordi con il governo di Baghdad.
Patrick Cockburn, nel suo articolo pubblicato sull’Independent, commenta come l’operazione tenda a confermare i sospetti dei tanti che fin dall’inizio hanno pensato che il rovesciamento di Saddam fosse strumentale al controllo dei giacimenti.
In Medio Oriente, le riserve irachene sono seconde solo a quelle dell’Arabia Saudita. Nonostante i rischi legati alle condizioni di sicurezza e alle prospettive di stabilità a lungo termine nel Paese, le compagnie petrolifere sono ansiose di tornare. Gli accordi, biennali e no-bid (senza gara) dovrebbero permettere di aggiungere altri 500.000 barili di greggio al giorno alla produzione attuale, che oscilla intorno ai 2 milioni e mezzo di barili al giorno.
Le compagnie potranno scegliere se essere pagate in valuta o greggio, ed i contratti avranno un valore di circa 500 milioni di dollari ciascuno. Il tutto sta avvenendo con una certa fretta perché l’approvazione di una nuova -e discussa- legge sugli idrocarburi da parte del parlamento iracheno potrebbe rendere l’operazione meno facile. Per il momento ci si limita ad “accordi di supporto tecnico”, come sono noti questi accordi di servizio. Ma non pochi temono che questi siano l’anticamera di ben altre mosse.
Sin dall’invasione, gli iracheni sono stati sospettosi di ogni coinvolgimento straniero nella propria industria petrolifera.
Per quanto il Ministro al Petrolio, Hussein Shahristani, abbia ripetuto che l’Iraq si terrà strette le sue risorse, qualche preoccupazione resta. Anche perché la Compagnia Petrolifera Nazionale non si è dimostrata all’altezza del compito, per via di una gestione inefficiente o corrotta che negli anni, complice anche la guerra, non ha adeguato il sistema delle reti idriche ed elettriche. Il parlamento iracheno vede pertanto con sospetto qualsiasi proposta che comporti una qualche perdita di controllo sulle risorse petrolifere.
La nazionalizzazione delle riserve irachene è uno dei pochi lasciti di Saddam Hussein ad essere ancora largamente apprezzati.
(www.independent.co.uk)

21 giugno 2008. Si torna in affitto
Nel New York Times di oggi, Rachel Swarns fa il punto sugli sfortunati proprietari-di-casa-con-mutuo in America.
A causa dell’instabilità del settore immobiliare e della crisi dei mutui subprime, il numero degli americani che è tornato “in affitto” è cresciuto a un tasso mai visto da quando Bush avviò la campagna all’insegna del “tutti proprietari”, nel 2002.
Il trend, per quanto ancora risibile, potrebbe indicare una vera e propria svolta nei comportamenti di singoli e famiglie rispetto all’abitazione. In effetti, se da una parte chi voleva comprare non riesce più ad ottenere prestiti dalle banche con la facilità di prima, dall’altra, sempre più persone, anche per via del continuo calo del valore degli immobili, esitano a comprare.
Certo, per le molte famiglie a basso reddito convinte che la proprietà della casa fosse un punto fondamentale per accumulare risparmio da trasmettere ai propri figli, il passaggio dalla proprietà all’affitto è stato un brutto colpo. Anche perché non poche, oppresse da debiti e da una “cattiva reputazione” bancaria, stanno peggio di prima dell’acquisto.
“Il boom della proprietà è finito”, ha sentenziato William C.Apgar, che ha diretto la Federal Housing Administration dal 1997 al 2001. La gente ha capito che l’ambizione di diventare proprietari può rivelarsi un vero boomerang.
Tra il 2005 e il 2015 è stato previsto un incremento di 1.8 milioni nel numero dei locatori. Dato alquanto preoccupante.
Come non bastasse, non è nemmeno facile trovare un immobile in affitto. Tina Williams, infermiera di 43 anni, dopo essere stata costretta a ipotecare la sua casa coloniale di Cleveland lo scorso marzo, ha dovuto dormire in un ricovero per senzatetto ed è stata ospitata da amici, dopo che cinque complessi residenziali le avevano respinto la domanda a causa dei suoi mutui precedenti e della sua scarsa affidabilità finanziaria.
Infine, qualcuno si è offerto di affittarle il terzo piano di casa sua. Il suo nuovo alloggio da 300 dollari al mese ha una camera da letto, un salotto ed un bagno. Manca la cucina (si arrangia grazie a un microonde, un minifrigo ed una padella elettrica), ma lei è contentissima.
Altro problema degli affitti è che sono pochi e cari, anche se la situazione si sta assestando.
Resta il fatto che chi ha “perso” la casa è malvisto anche dai potenziali padroni di casa. Steve Allen, 51 anni, veterano del Vietnam residente a Seattle, si è sentito dire solo dei no, da quando ha cominciato a cercare casa con sua moglie, Lesa. Ma la sua è una storia che si ripete quotidianamente.
Per non parlare di chi invece una casa la vorrebbe ancora comprare. Le banche, dopo anni di credito facile, hanno completamente rivisto i loro criteri e stretto i cordoni della borsa.
Barbara O’Leary-Hatfield-Liberace, pensionata di 68 anni, dopo che la banca le ha rifiutato il credito necessario ad acquistare, con alcuni amici, la sua “casa dei sogni” ha cominciato a dormire con un rosario sotto il cuscino. “Prego molto. Soprattutto spero che riusciremo a vincere la lotteria”, ha confidato.
(www.nytimes.com)

22 giugno 2008. Essere albini in Africa
Sull’International Herald Tribune di domenica 8 giugno è uscito un inquietante articolo di Jeffrey Gettleman sulla terribile situazione degli albini in Tanzania. Un gruppo già geneticamente sfortunato dato che spesso muoiono di cancro alla pelle prima del trentesimo anno d’età. La discriminazione contro gli albini è un problema serio in tutta l’Africa sub-sahariana, ma di recente in Tanzania le cose sono degenerate: circa 19 albini, tra cui bambini, sono stati uccisi e mutilati nell’anno passato.
Molta gente crede che gli albini abbiano poteri magici perché spiccano tra gli altri, spesso come unica faccia bianca in un’indistinta folla nera. Si è parlato addirittura di un traffico in pelle, ossa e peli di albino per “pozioni della ricchezza”.
Con l’aggravarsi della minaccia, il governo della Tanzania si è mobilitato per proteggere gli albini. La polizia stila “liste di albini” in ogni angolo del paese per meglio proteggerli. I bambini albini vengono scortati a scuola. Il presidente della Tanzania ha persino sostenuto la candidatura di una donna albina al parlamento. Ma non basta. Spesso ad essere oggetto di queste violenze sono i giovani.
Vumilia è albina. Dopo aver abbandonato la scuola per una grave forma di miopia, problema comune tra gli albini, non riusciva a trovare un lavoro perché nessuno la voleva assumere, così aveva finito per vendere noccioline al mercato per due dollari alla settimana. Quando la madre di Vumilia, Jeme, ha visto arrivare gli uomini coi coltelli, ha provato a sbarrare la porta della capanna, ma questi l’hanno abbattuta. Vumilia è morta in modo irripetibile. Yusuph Malogo, un vicino di Jeme, teme di poter essere la prossima vittima. Anche lui è albino, e lavora da solo in una risaia. Da allora non va da nessuna parte senza il suo fischietto d’argento.
Molti si rivolgono alla Società Albina della Tanzania alla ricerca di aiuto, ma questa associazione può contare solo su meno di 15.000$ all’anno. Una cifra che non basta nemmeno per le creme solari, i cappelli e l’abbigliamento protettivo. Molti soci sono malati. Non a caso, la sede della Società si trova al piano terra di un ospedale oncologico. Molti soci sono malati. Le autorità di polizia non sanno esattamente spiegare cosa abbia causato questa recrudescenza negli omicidi degli albini.
Un tempo la notte era tutta per loro, qualcuno ricorda ancora quando con i figli poteva girare liberamente senza doversi preoccupare della luce del sole. Oggi si rinchiudono in casa, e spiano dalle inferriate alle finestre.
(www.iht.com)

25 giugno 2008. Da un blog
Ormai il pane costa quindici miliardi di “Dollari Zimbabwe”, la moneta locale. Al mercato nero. Agli angoli delle strade. La carne, dal macellaio, non costa meno di trenta miliardi. Questi prezzi folli impediscono allo zimbabwese medio l’accesso ai beni fondamentali. A dar retta alle pubblicità della giunta militare, questo è “100% empowerment”. Sarebbe divertente, se non fosse nauseante.
Gli zimbabwesi non sono troppo sicuri sul da farsi. Venerdì prossimo avremo una corsa con un unico candidato. Torneremo di nuovo nel limbo. I politici hanno messo la vita della gente in stand-by. Solo l’azione potrebbe sbloccare la situazione. Lo scorso fine settimana, Magamba, la nostra rete di attivismo culturale, ha organizzato “Fai un po’ di casino! Concerti per la libertà dello Zimbabwe”, una tournée pensata per mobilitare la gente. Abbiamo cominciato al Jazz Club Mannenberg di Harare, il 19 giugno, per trasferirci poi al tradizionale evento di musica dal vivo di Jo’burg, alla Casa di Nsako. Le persone presenti hanno ballato e cantato per tutta la notte, firmando centinaia di lettere dirette a Thabo Mbeki per invitarlo a richiedere l’intervento di una forza di peacekeeping in Zimbabwe. Quella sera, l’attivista per i diritti civili Grace Kwinhe, molto rispettata in Zimbabwe, ha pronunciato un bellissimo discorso…
Altre iniziative cominciano a moltiplicarsi. Oggi i militanti pacifisti sono partiti per il Sud Africa, mentre abbiamo già spedito le petizioni che chiedono l’intervento della Sadc (Comunità per lo sviluppo dell’Africa del Sud). Dobbiamo continuare ad appiccare focolai di resistenza, chiedere il boicottaggio del voto, l’intervento delle forze di pace, un governo di transizione. Il tempo non è dalla nostra parte. Ma la storia sì.
(http://comradefatso.vox.com)

30 giugno 2008. Incubo olimpico
Ci mancavano solo le alghe. A poche settimane dall’inizio delle olimpiadi, e in particolare della regata a vela, è arrivata l’ennesima disgrazia. Jim Yardley racconta come la città di Qingdao abbia subito mobilitato migliaia di persone per arginare il disastro e sventare il rischio di dover sospendere la competizione. All’operazione parteciperebbero almeno 20.000 persone, tra volontari e non, mentre sarebbero 1000 le imbarcazioni che ripuliscono il Mar Giallo dalle alghe. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale, Xinhua, le alghe ricoprono ancora un terzo dell’area prescelta per le gare olimpiche.
Che molte città costiere cinesi scarichino la rete fognaria direttamente in mare, e che i fiumi e gli affluenti che affluiscono al mare siano spesso contaminati da alti livelli di nitrati provenienti dagli scoli industriali ed agricoli pare sia di dominio pubblico, ma secondo le autorità di Qingdao non ci sarebbe alcun collegamento tra l’inquinamento, la qualità dell’acqua e la recente invasione di alghe.
Secondo i media statali circa 100.000 tonnellate di alghe sarebbero già state rimosse dall’acqua, e la maggior parte verrà impiegata come cibo per gli animali delle vicine fattorie.
I cittadini di Qingdao attendevano da anni questo loro “momento di gloria”. Così anche 11.000 studenti universitari si sono offerti volontari per le operazioni di pulizia durante il weekend, e molte aziende locali hanno inviato gruppi di impiegati a dare una mano.
(www.nytimes.com)

1 luglio 2008. Infortuni sul lavoro
Secondo le ultime statistiche, nel mondo vi sono stati 268.059.672 infortuni sul lavoro. Quelli mortali sono stati 351.250. La Cina ha circa un miliardo e 250 milioni di abitanti. Nel 2005 i morti sul lavoro in Cina sono stati 90.295. L’India, che ha oltre un miliardo di abitanti, ha registrato 40.133 infortuni mortali.
L’Italia, con quasi 57 milioni di abitanti, nel 2005 ha avuto 1.280 morti sul lavoro, nel 2006 sono stati 1.341. Secondo le prime stime, i morti sul lavoro nel corso del 2007 sono stati 1.260. Quelli avvenuti nel settore delle costruzioni sono stati 295. Il record negativo nei cantieri della Lombardia, con 43 vittime, di cui 9 stranieri. Nel 2006 in Lombardia vi sono stati 157.968 infortuni, di cui 232 mortali. A Milano e provincia sono stati 53.090, di cui 74 mortali; di questi, 46, di cui 8 stranieri, sono avvenuti nel settore delle costruzioni.
(dal Rapporto sui diritti globali 2008, a cura di Associazione SocietàINformazione, edizioni Ediesse)

2 luglio. Da un blog
Dal diario di un dentista iracheno che vive a Mosul.
E’ passato molto tempo dal mio ultimo post: molte cose sono successe, ci sono stati tanti cambiamenti. Volevo tornare a Baghdad a completare gli anni necessari per la residenza, ma il Ministero della Sanità mi ha rifiutato la domanda ed ora si segue la nuova procedura. Tutti i miei amici e colleghi, tranne me, sono tornati nei loro governatorati. Sono andato a Baghdad per tre giorni, e dopo di nuovo a fare un picnic con dei cari amici nel nord dell’Iraq. E’ stato uno dei viaggi più belli che abbia mai fatto. Una settimana dopo ero di nuovo a casa da solo, perché mio fratello era tornato a Baghdad con la sua famiglia; quella settimana è cominciata l’operazione “madre delle primavere”, e me ne sono stato tappato in casa per tre giorni; non si poteva nemmeno affacciarsi sulla soglia di casa, grazie a Dio la sera prima che venisse dichiarato il coprifuoco sono riuscito a fare scorte di cibo, verdure e credito telefonico per il cellulare.
Mi sono dato alla cucina: hamburger, patatine, pesce, riso, salse. Ho imparato a cucinare da mia mamma, che scherzando mi dice sempre “Se mai dovessi sposarti, e tua moglie dovesse lasciarti a casa da solo, potrai sempre cucinare ed essere indipendente!”… Mi fa ridere l’idea…
Spero sinceramente che l’operazione abbia successo, è stata così improvvisa, con così tante forze mobilitate, e così tanti obiettivi specifici… molto meglio degli arresti casuali delle prime settimane. Ciò che più mi secca è il coprifuoco, che ha costretto la gente in casa per molti giorni. Dopo un po’ alcuni soffrivano la fame, non potendo nemmeno andare a lavorare. Persino io, che vivo solo ed ho fatto scorte mi sono ritrovato l’ultimo giorno col frigo vuoto, il gas finito… non so come abbiano fatto le famiglie, in questo periodo!
Ora Mosul è molto migliorata rispetto a prima: sono contento sia così, le forze irachene riprendono via via il controllo della città. D’altro canto, le strade sono ancora sbarrate da barriere mobili, o fatte coi rifiuti!!! Una volta prendevo sempre il taxi fino ad un certo punto, camminavo un centinaio di metri, e ne prendevo un altro per raggiungere casa o il lavoro. Tutto questo perché hanno costruito una base militare in un quartiere centrale chiudendo la strada principale al traffico. Per evitare la seccatura degli spostamenti, i miei amici mi hanno consigliato di andarmene a vivere alla foresteria dell’ospedale. Francamente, anche se mi piace stare vicino agli amici, l’igiene all’ospedale non è proprio il massimo. Stanno provando a ricostruirlo ma è davvero troppo vecchio, andrebbe ricostruito da zero…
Anche a Baghdad la situazione sta migliorando, se la paragoniamo allo stesso periodo l’anno scorso. Spero tanto torni l’elettricità: come fanno gli studenti a prepararsi e dare gli esami con questo caldo e senza corrente? Possa Dio aiutarli… credo comunque che ce la faranno, perché gli iracheni sono fatti così…
(http://baghdadentist.blogspot.com/)

4 luglio 2008. Una lettera da Israele
Pubblichiamo l’inizio di una lettera di Dorothy Naor, israeliana di New profile.
Cari amici,
solo quattro cose, per quanto molto ci sarebbe da dire…
Prendiamo, per esempio, la prima: non solo Olmert, ma praticamente chiunque abbia commentato l’attentato di Gerusalemme di ieri è sembrato condividere l’idea che la famiglia debba pagare le conseguenze e quindi che la casa dell’attentatore vada rasa al suolo, per punizione e come deterrente. Allora, per quanto riguarda la deterrenza, è ancora da dimostrare che punire una famiglia possa scoraggiare qualcuno dal compiere un crimine. Per quanto poi riguarda la punizione, beh, intanto la persona che ha compiuto l’attentato è morta ed è difficile pensare a una punizione ulteriore. La questione è pertanto se la famiglia sia da punire. Ovviamente in Israele il punto dirimente è l'appartenenza etnica. Se si tratta di una famiglia araba, perché no? Ma una famiglia ebrea? Oh, no, quello mai.
Per dire, avete mai sentito qualcuno insistere per la demolizione della casa della famiglia di Eden Natan Zada (un soldato israeliano), che il 4 agosto 2005 ha condotto un autobus in direzione della comunità araba di Shfaram, e quando ha raggiunto la cittadina ha preso il fucile e ha ucciso quattro passeggeri e ferito altri. Perfino Ariel Sharon l’aveva definito un terrorista. Eppure per quel che ne so, nessuno ha proposto di far pagare le conseguenze di quell’atto alla famiglia. Nessuno ha pensato di di suggerire che la casa di quella famiglia venisse demolita. Certo che no.
Zada era un terrorista, ma un terrorista ebreo. Ancora, un giovane ebreo israeliano di 17 anni è stato recentemente riconosciuto colpevole di aver ucciso un avvocato due anni fa, quando di anni ne aveva 15. Qualcuno ha chiesto che i suoi genitori paghino per questo crimine? Le famiglie sono sempre e irrimediabilmente responsabili dei crimini commessi dai loro figli o dai loro cari?
... Best, Dorothy

5 luglio 2008. Assumeresti tuo marito?
Nel New York Times del 29 giugno è uscito un articolo di Jim Wilson, dal curioso titolo: “Assumeresti tuo marito?”.
Secondo il Women’s Business Research Center, a fine 2006 le donne erano proprietarie di maggioranza di più di 7 milioni di aziende private, un aumento del 42.3 per cento rispetto a dieci anni prima. Tra queste pare che un numero crescente assuma il proprio marito in posizione evidentemente subalterna.
Wilson ha pensato di andare a vedere se la cosa funziona. Laura Udall, 52 anni, oggi direttore esecutivo della fabbrica di borse Züca Inc, il cui giro d’affari si aggira intorno ai due milioni di dollari, ha assunto il marito mentre cercava di inventare qualcosa per la figlia Rachel che, costretta ad andare e tornare da scuola ogni giorno con lo zaino pieno di libri, soffriva di un tremendo mal di schiena. Lei, ex venditrice per la AT&T, decise di progettare e vendere uno zaino leggerissimo per bambini. Ma frustrata dai risultati insoddisfacenti, si rivolse a suo marito che uscì dal garage con il primo prototipo di porta-libri a rotelle.
Suo marito oggi lavora per lei in qualità di vicepresidente e addetto alla manifattura. Lì la cosa funziona. Pare che il trucco sia quello di definire e separare i rispettivi ruoli sfruttando i punti di forza di entrambi. Anche se molti consulenti matrimoniali restano dell’idea che -a prescindere da chi sia il capo- lavorare assieme non aiuti il matrimonio. Pare ci sia, soprattutto sul versante maschile, un problema di competizione.
Tant’è che la paura di sminuire la mascolinità del marito sul posto di lavoro può diventare una vera preoccupazione. In particolare la differenza di salario può creare “alta tensione”. Ma basta un po’ di inventiva, come quella che forse ha salvato il matrimonio della signora Kotewicz-Dencker, proprietaria al 100% dell’azienda in cui lavora anche il marito: “Un anno sono io a prendere un salario più basso, e lui prende di più. L’anno dopo invertiamo”.
All’inizio amici e colleghi prendevano in giro Greg dicendogli: “Hai talmente tante difficoltà a trovare lavoro che ti tocca lavorare per tua moglie!”. Ma pare che a lui la cosa non interessi.
Non tutte le aziende e i matrimoni di questo tipo hanno però storie così felici.
Ella Koscik, direttore esecutivo di Management Decisions Inc, aveva incontrato il marito, un cliente, alcuni anni prima. “E’ stato amore a prima vista”, ricorda. Sei mesi dopo erano sposati. La signora Koscik non pensava di coinvolgere il marito, eppure man mano che la compagnia si espandeva, ed aumentavano le pressioni su di lei, decise di rivolgersi a lui.
“Ero incinta per la seconda volta ed era tutto decisamente troppo per me”, dice.
Nel 1998, il signor Koscik abbandonò il suo posto di direttore allo sviluppo del software alla Ncr per entrare nell’azienda della moglie. Secondo lui, il problema era che nonostante avessero ruoli ben delimitati in ufficio, a casa condividevano ogni responsabilità -e discutevano incessantemente su chi dovesse fare cosa. “Discutevamo di chi doveva cucinare, o portare fuori la spazzatura”. Non solo, inaspettatamente quel lavoro è diventato un boomerang. Ricorda la moglie: “Gli importava più del lavoro che della famiglia, e così il nostro matrimonio è andato in malora”. La signora Koscik oggi addirittura rimpiange di avergli lasciato il 5% dell’impresa. D’altra parte è costretta ad ammettere che “ha fatto un gran bel lavoro come responsabile del bilancio”.
(www.nytimes.com)

6 luglio 2008. Discussione alla Knesset
La Knesset, il parlamento israeliano, giovedì 3 luglio ha riconfermato la legge che nega ai palestinesi il diritto al ricongiungimento.
La legge è chiaramente destinata alle famiglie palestinesi dato che non riconosce l’unione delle coppie palestinesi se uno dei partner risulta residente delle terre occupate nel 1948 e l’altro abita nel West Bank o nella Striscia di Gaza.
Gli esperti legali palestinesi temono che la proroga della legge per il quinto anno consecutivo sia il preludio di una legge definitiva che sarà fatale per centinaia di famiglie.
“Persino all’epoca dell’apartheid in Sudafrica, la Corte Suprema aveva abolito una misura simile, riconoscendo che non si potevano separare un marito da una moglie e una coppia dai propri bambini”, ha commentato nella sua dichiarazione di voto Jamal Zahalka, palestinese israeliano del partito Balad. “Dovreste tutti imparare una lezione dal Sudafrica: persino una corte razzista aveva proibito ciò che voi imponete agli arabi”, ha ribadito Zahalka.
A sostegno delle dichiarazioni di Zahalka, il deputato Saeed Naffa, un altro esponente arabo della Knesset, ha ricordato che la legge rappresenta una violazione eclatante dei diritti civili degli arabi, poiché discrimina i giovani israeliani da quelli arabi, e non si applica per i coloni israeliani del West Bank.
“E’ questo lo Stato che volete?” ha aggiunto Naffa rivolto agli altri membri del parlamento.
“Solo in Israele l’amore e il matrimonio sono considerati una minaccia per la sicurezza. Una vera allucinazione che distruggerà la vita di centinaia di famiglie palestinesi” ha concluso il deputato Mohammed Baraka.
(www.ism-france.org)

14 luglio 2008. Da un blog
Dal blog di Valentina Pasquali
Washington D.C. - Alcuni dati recenti indicano che circa il 30% degli Americani vive oggi “senza fili”; costoro non possiedono un telefono fisso ma solo un cellulare, oppure possiedono un telefono fisso ma non lo usano praticamente mai.
Si tratta del gruppo demografico che più potrebbe scompaginare il lavoro dei sondaggisti che seguono le elezioni presidenziali 2008 e invalidare il risultato dei rilevamenti statistici.
Infatti, le più importanti società di sondaggistica americana hanno rinunciato a contattare questi potenziali elettori per via dei costi e delle complicazioni ulteriori che presentano.
Innanzitutto, per legge, gli utilizzatori di cellulari non possono essere contattati attraverso il sistema di chiamate automatiche che i sondaggisti usano per parlare con il proprio campione. Inoltre, anche qualora raggiunto, chi possiede solamente un cellulare ha probabilmente meno tempo e, soprattutto, meno voglia di rispondere alle domande di un sondaggio. Infine, questi cittadini, più giovani e più mobili, hanno sempre votato con molta meno regolarità di coloro che invece possiedono un telefono fisso.
Fino ad oggi la mancanza di informazioni su questo gruppo demografico non ha dunque rappresentato un grosso problema. Secondo un exit poll del National Election Pool nel 2004 solo il 7,1% di tutti gli elettori erano utilizzatori esclusivi di telefoni cellulari. Nuovi dati però suggeriscono che tale percentuale potrebbe raddoppiare nel 2008. E raddoppiando potrebbe rivelare una composizione dell’elettorato assai diversa da quella descritta dai sondaggi tradizionali.
In particolare, si prevede che questa percentuale di americani “senza fili” siano per la gran parte sostenitori di Barack Obama. Il che significa che nei sondaggi che stiamo vedendo in questi giorni, e in cui non viene calcolata l’opinione delle persone “wireless”, il Senatore dell’Illinois viene forse accreditato di un 2% di possibili elettori in meno di quello che in realtà gli dovrebbe essere riconosciuto.
(http://valentinainamerica.blogspot.com)

15 luglio 2008. The new old age
Grazie alle meraviglie della scienza e della medicina, la gente vive più a lungo che mai. Gli over-80 sono il segmento demografico che sta crescendo più velocemente e molti di questi trascorreranno gli ultimi anni in uno stato di dipendenza. Questo peso ricadrà sulla generazione del baby-boom. In America parliamo di circa 77 milioni di persone alle prese con famiglie dalla composizione inedita, con la difficoltà di conciliare casa e famiglia e in attesa di andare essi stessi in pensione.
Il fenomeno è talmente cruciale per l’oggi e per il domani che il New York Times ha aperto un blog, curato da Jane Gross, in cui si raccolgono le storie di “cura” dei propri genitori da parte dei lettori. Tra le prime storie raccolte da Jane, c’è quella della suocera di Jim, che quest’anno è caduta per la quarta volta. Quel giorno lui e la moglie hanno preceduto l’ambulanza al pronto soccorso, cercando poi di distrarre o almeno di far compagnia all’anziana donna. Hanno poi trascorso diversi giorni accanto a lei durante il ricovero e la riabilitazione. Infine l’hanno riportata a casa.
Questa coppia di sessantenni ha così dovuto acquisire tutta una serie di competenze, non solo mediche. Ad esempio hanno imparato a distinguere una piaga da decubito al terzo stadio, ma hanno anche scoperto che l’assistenza medica offerta dall’assicurazione copre la chirurgia ortopedica, ma non le cure domiciliari. Nessuno desidera che l’anziana donna muoia e tuttavia lo stato in cui versa è talmente pietoso... e poi c’è la questione, antipaticissima, dei soldi. La suocera di Jim ha bisogno di un’assistenza costante, altrimenti la sua prossima caduta potrebbe essere l’ultima. Ma cosa accadrà se e quando neanche una presenza 24 ore su 24 sarà sufficiente? Un ricovero in una clinica? E chi pagherà una retta da 100.000 dollari l’anno? Fin quando basteranno i soldi?
Queste sono le preoccupazioni che attanagliano sempre più famiglie.
Il blog di Jane, “The new old age. Caring and coping” sta infatti ottenendo un incredibile successo di partecipazione. Anche grazie a una sensibilità che le viene dall’essere passata lei stessa per questa esperienza. Le questioni sono le più varie ed è nato un vero scambio di informazioni, oltre che di sfoghi, dubbi, idee, ipotesi. In uno degli ultimi post la stessa Jane ha scoperto di non aver a suo tempo preso nella debita considerazione un incidente d’auto occorso alla madre. Ora anche lei sa che la cosiddetta “car key conversation”, la discussione sulle chiavi della macchina, è una delle più temute tra i cosiddetti caregivers. In base a un’indagine condotta dal sito Caring.com e dal National Safety Council è risultato che parlare cogli anziani genitori della necessità di smettere di guidare è più stressante e difficile che parlare dell’organizzazione del loro funerale o della eventuale vendita della casa di famiglia.
(http://newoldage.blogs.nytimes.com)