Dedichiamo la copertina a quel che succede a Gaza, dove ogni giorno, sotto bombardamenti indiscriminati, muoiono decine di civili fra cui tanti bambini, dove un’intera popolazione viene affamata di proposito, dove le malattie e le ferite non possono essere curate. Chi può ancora sostenere onestamente che questo è il modo per liberare gli ostaggi, per sconfiggere Hamas, per vendicare il 7 ottobre? Se non sarà Trump a dire “basta”, nel caso che quelle foto smuovano il cuore anche di coloro che hanno votato per lui, dobbiamo aspettarci che Israele vada avanti per i suoi obiettivi: terrore, deportazione, annessione, apartheid. Ma che il nome di Gaza vada ad aggiungersi per sempre a quelli di Srebrenica, della Sarajevo assediata e del Kosovo, di Sabra e Shatila e delle stragi jihadiste in Algeria, dell’apartheid sudafricana e, infine, forse, del genocidio armeno, varrà veramente l’obiettivo “dal fiume al mare”? E che fine farà il sogno tanto agognato della “normalità”? Se poi a tutto questo si aggiunge la deriva autoritaria della democrazia israeliana, di cui ci parla Rimmon Lavi, dove, al pari delle estreme destre europee, si vogliono sottomettere alla politica le istituzioni di controllo, la magistratura e, in ultimo e soprattutto, la Corte suprema, allora la catastrofe israeliana sarà completa. Purtroppo non c’è da sperare che i palestinesi approfittino della situazione, restituendo gli ostaggi senza condizioni, deponendo le armi, sciogliendo o isolando Hamas, e dando vita, per i loro sacrosanti diritti, a un grande movimento dai metodi di lotta assolutamente nonviolenti. Potrebbero vincere e, paradossalmente, far “vincere” anche Israele facendolo tornare a essere un faro di civiltà, utile a loro e a tutti.
Dedichiamo le pagine centrali al popolo ucraino e alla sua eroica resistenza. Come andrà a finire è difficile immaginarlo. Il rischio di una pace ingiusta e, casomai, “incerta”, è forte. Il migliore alleato di Putin sono le opinioni pubbliche europee e americane, incapaci anche solo di immaginare di dover rischiare di “far sacrifici per Kiev”. In cambio, però, ci verrà un rischio ben peggiore: che nel mondo si faccia tesoro della lezione che la prepotenza paga. Cosa faremo quando la Cina si vorrà prendere Taiwan?
Siamo stati al più triste 25 aprile di sempre. Una potenza fascista, in cui regna la menzogna di regime (ne parla in questo numero Dietmar Pichler), in cui gli oppositori vanno in carcere e lì il migliore fra loro, il Matteotti russo, è stato ucciso, invade una repubblica democratica, bombardando le città e i villaggi, torturando i prigionieri, deportando i bambini, e noi celebriamo l’antifascismo di ieri senza far cenno a quello di oggi, alla resistenza di un intero popolo. È come se ai tempi della Repubblica spagnola nessun occidentale si fosse mosso per sostenere i repubblicani. Ne arrivarono invece da tutti i paesi. Pur nella sconfitta, quella solidarietà gettò le basi delle future resistenze europee. Qui il silenzio totale, il fastidio quasi. Così il 25 aprile diventa una specie di “sagra di nazione” dove potremmo anche far sfilare carri carichi di giovanotti in costume da partigiani. A Forlì c’era gente in piazza. Al Comune ci hanno detto che erano tantissime le badanti ucraine.
Poi nel numero: Bruno Anastasia ci parla dello stato del lavoro in Italia, facendone un quadro ben più complesso di quel che risulta dalle contrapposizioni in atto; Roberto Balzani della memoria del Risorgimento; Massimo Teodori della breve storia dello straordinario Partito radicale, cui aderirono Guido Calogero, Leo Valiani, Ernesto Rossi e pure Nicola Chiaromonte. Era il partito de “Il Mondo” di Pannunzio, un tentativo, purtroppo fallito, di fare un partito liberale di sinistra del tutto autonomo sia dai comunisti che dai democristiani; Alberto Cavaglion ci racconta di come due amici, Alessandro Galante Garrone e Carlo Dionisotti si accapigliarono sul tema della “vendetta” dopo l’omicidio, per mano dalle Brigate Rosse, di Carlo Casalegno; Alfonso Berardinelli ci parla di Auden, il poeta dello “sguardo da fuori”; Massimo Livi Bacci dell’India dove sembra avvicinarsi l’inverno demografico; Vicky Franzinetti dei problemi della globalizzazione e infine Belona Greenwood, dall’Inghilterra, della più bella trasmissione della Bbc, che rischia la chiusura.
Nelle ultime pagine, Franco Moscone, vescovo di Manfredonia, rende omaggio a papa Francesco. Da parte nostra non troviamo di meglio, per ricordarlo, che riportare integralmente una lettera che, non sappiamo perché, ci giunge periodicamente da un cattolico di nome Gianni Toffali, intelligente, anche arguto e simpatico, ma che più “reazionario” non si può. Però, come si dice da noi, i reazionari bisogna ascoltarli, ogni tanto. La riportiamo integralmente: Il mondo si chiede perché Bergoglio è stato il papa più osannato della storia della Chiesa. Osannato, acclamato, glorificato, inneggiato e magnificato, si badi bene, non dai cattolici (che al contrario gli hanno mosso non poche critiche) bensì da atei, agnostici, pagani, massoni e dai fedeli di tutte le religioni.
Impossibile sintetizzare in poche righe i molteplici motivi per cui papa Francesco è quasi (ma anche senza quasi) riuscito a superare in fama il Superiore che avrebbe dovuto servire. La detronizzazione dell’Altissimo e l’intronizzazione di sé medesimo, è facilmente ravvisabile nelle ultime parole di Francesco ai suoi fedelissimi. I suoi predecessori hanno lasciato la dimensione terrena volgendo lo sguardo lassù. Le ultime parole di Pio VI, papa deposto e esiliato: “Signore, perdonali”; le ultime di Papa Pio VIII: “Signore, ho sempre creduto, ora credo”; le ultime di Pio IX: “Proteggete la Chiesa che ho tanto amato”; le ultime di Leone XIII, pronunziate in latino: “Valete omnes”; le ultime di Papa Pio XI: “Tutto è di Dio, tutto per Dio”; le ultime di Paolo VI: “Pater Noster”; le ultime parole di Giovanni Paolo II: “Lasciatemi andare alla Casa del Padre”; e infine, le ultime parole di Benedetto XVI: “Signore, ti amo!”. E le ultime parole di papa Francesco? “Grazie per avermi portato in piazza”. Con dodici anni di Pontificato a coccolare le cose di quaggiù, sbarazzare la concorrenza è stato un gioco da ragazzi! Se di là, il Principale ha gradito, non ci è dato a sapere.
Ecco, forse, la “rivoluzione” di Francesco è tutta in quelle ultime parole per ringraziare il suo assistente, cosa che altrimenti non avrebbe più potuto fare. E ringraziarlo per che cosa? Per avergli fatto fare l’ultimo viaggio possibile fra la gente. Sì, quelle parole sono rivoluzionarie perché nella contrapposizione fra una “religione del prossimo”, del fratello e della sorella e del “qui e ora o mai più” e una “religione del padre”, di un padre assente e di un “dopo eterno”, scelgono la prima, concretissima e drammatica, lasciando l’altra, così permissiva, rassicurante ed evanescente, nel mistero.
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