Marino Serri, 40 anni, Emilio Reverberi, 39 anni, Lauro Ferioli, 21 anni, Afro Tondelli, 20 anni, Ovidio Franchi, 19 anni: l’elenco dei martiri operai si è allungato di questi nomi, a Reggio Emilia, il 7 luglio 1960. E due giorni dopo, il ragazzo Andrea Gangitano e Francesco Vella, a Palermo, e ancora, a Catania, il ventenne Salvatore Novembre. Fredde, premeditate, le sparatorie; innocenti le vittime. Improvvisamente la storia italiana ha fatto un passo indietro, ai tempi oscuri che andarono dal 1948 al 1951. Il governo Tambroni, travolto dalla collera popolare, ha voluto le sue vittime, così come altri infausti governi che insanguinarono il nostro paese in questi quindici anni dopo la Liberazione.
Finita la guerra, finite atrocità, deportazioni, esecuzioni, battaglie, si poteva sperare che il popolo italiano si avviasse nella serenità e, almeno, nella sicurezza, verso la ricostruzione. Ma non è stato così. La pena di morte -abolita con umano provvedimento dalla Costituzione- ritornava in vigore sulle piazze e nelle vie.
Non per omicidi, per assassini, per criminali particolarmente feroci: soltanto per i lavoratori, per il popolo in protesta, nelle più diverse occasioni, e sempre senza ragioni valide che giustificassero l’orrore dell’eccidio, dello sterminio.
A sfogliare le annate dei giornali dopo la Liberazione balzano agli occhi grandi titoli, ferali notizie. Una ininterrotta scia di sangue, un impressionante elenco di morti e di feriti accompagnano l’azione di governi che si definiscono cristiani. Una polizia che dovrebbe essere al servizio della popolazione, troppo spesso aizzata da furori di parte, contro la popolazione ha infierito, ha sparato, ha ucciso.
C’è stato chi -con una triste statistica- ha voluto elencare il numero dei morti nei conflitti sociali di questo dopoguerra. Ne è uscito un numero impressionante: in dodici anni di governo democristiano 95 morti, 5.500 feriti! C’è anche una statistica per regione: 3 morti in Liguria, 1 nel Veneto, 21 in Emilia, 6 in Toscana, 1 in Umbria, 2 nel Lazio, 6 in Abruzzo, 5 in Campania, 20 nelle Puglie, 1 in Lucania, 4 in Calabria, 14 in Sicilia. «Per "redimere” il Mezzogiorno -commentava l’estensore di queste cifre- la Dc è riuscita a far uccidere 50 lavoratori e a farne ferire circa 1.700».
A queste vittime della polizia vanno aggiunte quelle degli oscuri conflitti sociali che insanguinarono le regioni meridionali quando ancora l’Italia non era del tutto liberata e che avevano alla loro base il permanere di uomini e di istituti compromessi con il fascismo, la fame, le ingiustizie che non erano finite, ma che parevano perpetuarsi e addirittura farsi peggiori. E poi morti di Sicilia: i sindacalisti, i braccianti, assassinati dalla mafia, trucidati dai banditi al soldo dei grandi proprietari terrieri.
Proprio sul finire di quest’anno -quasi a rammentarci di quei tempi- un ennesimo dirigente popolare è stato abbattuto dai colpi di «lupara» partiti vigliaccamente dall’agguato: Paolo Bongiorno, segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula. Cinque anni fa, il 16 maggio del 1955, cadeva nello stesso modo un altro martire del movimento operaio siciliano, Salvatore Carnevale.
Rifare la storia di tutti questi anni, attraverso gli eccidi operai, è certo un modo di rendere omaggio a queste vittime, e un modo, anche, di non dimenticare.
Le prime radici, dicevamo, vanno ricercate lontano nel tempo. Nel 1944 l’Italia era ancora divisa, ma già nelle regioni meridionali -le più depresse, le più colpite- masse di braccianti premevano contro il latifondo, cercando lavoro e terra per la loro fame di secoli. La Liberazione aveva aperto grandi speranze, e così le prime leggi del governo democratico in materia "agraria”. Localmente, però, le forze dell’agraria si rifiutavano pervicacemente di accettare le leggi in favore dei senza terra; e la polizia, ancora legata all’infausto regime, non seppe comprendere quel che di nuovo si celava dietro le grandi manifestazioni contadine, e troppo spesso sparò e uccise in difesa dei padroni. Ortucchio è il primo nome ad apparire nelle cronache sanguinose. Qui, nel Fucino, il principe Torlonia lasciava incolte vaste distese della sua immensa proprietà. La lega dei contadini chiese in concessione temporanea queste terre, sulla base della legge Gullo, ma le fu risposto che il principe aveva deciso di coltivare lui i suoi campi. Passato il periodo delle semine, i contadini, visto che nessun lavoro era stato fatto, marciarono incolonnati verso il feudo, con gli arnesi di lavoro e la bandiera della lega. Furono accolti da una fitta sparatoria dei carabinieri. Un morto, un moribondo, quattro feriti gravi.
Questi contadini di Ortucchio inaugurano il grande scotto di sangue che le campagne italiane dovevano tristemente pagare per aprire una luce di civiltà anche nelle zone più arretrate. Qualche tempo dopo, a Licata, in Sicilia, dopo una manifestazione di protesta contro le parzialità dell’Ufficio di collocamento (il collocamento è stato una delle prime ragioni di tante ribellioni contadine) un camion di carabinieri venuto da Agrigento infierì contro la popolazione: due morti e 19 feriti sono il bilancio di questa azione poliziesca.
Un vero e proprio massacro si ebbe, nell’autunno, a Palermo. Era il 20 settembre e, durante uno sciopero dei dipendenti comunali e provinciali ai quali non era stata estesa la corresponsione del carovita, ebbe luogo una grande manifestazione davanti alla Prefettura. Questa volta furono i soldati, da un camion, a sparare, e il risultato fu tremendo: 19 morti e 104 feriti; molti morirono poi all’ospedale.
Il Mezzogiorno ribolliva: la miseria, la legge sugli ammassi obbligatori, applicata in modo da danneggiare i piccoli e i piccolissimi coltivatori, furono le molle di altre esplosioni popolari, conclusesi tragicamente. Lungo sarebbe narrarle tutte, enumerarne le ragioni contingenti e quelle che affondavano le loro radici in decenni di ingiustizie e di fame. Andria, Bisceglie, Corato, Molfetta, Bitonto, Canosa, ancora Palermo, ricorrono nelle cronache nefaste del 1945: scontri, morti, feriti in molte di queste località. A Caccamo, una provocazione degli agrari, che incitarono i contadini poveri a opporsi all’ammasso, degenerò in uno scontro con la polizia, che si concluse con una vera e propria strage: 12 morti e circa cento feriti. Anche Roma, il 9 ottobre, vide sangue operaio scorrere sui suoi selciati: 2 morti e 150 feriti sono il tragico bilancio di una manifestazione di operai licenziati, all’improvviso e senza logiche giustificazioni, dai cantieri del Genio Civile, intorno ai quali viveva miseramente gran parte della cittadinanza impoverita dalla guerra e dalla disoccupazione.
Un capitolo a sé, per la sua gravità e per il significato che questo episodio ha avuto nella secolare lotta per la terra in Sicilia, rappresenta quello che fu chiamato il «Primo Maggio di sangue» di Portella della Ginestra. Era il 1947 e le popolazioni di Piana dei Greci, lasciate le loro case, si erano recate nella vasta pianura con i cavalli bardati a festa. Nel centro dello spiazzo si ergeva, ammantato di rosso, un podio di pietra. Il primo oratore a salirci, mentre la folla applaudiva, fu il calzolaio Giacomo Schirò. «Compagni, lavoratori -disse Schirò- siamo qui riuniti per festeggiare il Primo Maggio, la festa dei lavoratori... ». Ma non poté continuare: dal costone del vicino Monte Pizzuto fischiarono le raffiche dei mitra. Dalle 10,30 alle 10,40 le raffiche implacabili si riversarono sulla folla: quando cessarono c’erano sul terreno sette morti e 33 feriti.
La mano della reazione agraria, impensierita per i grandi movimenti contadini, era evidentemente dietro questo terribile attentato di banditi. Ma Scelba, allora ministro dell’Interno, negò ogni movente politico. L’Assemblea Costituente, però, votò alla unanimità una risoluzione presentata da Pietro Nenni -e firmata da Togliatti, Gronchi, Saragat, Cevolotto, Pacciardi e Cianca- con la quale esprimeva la sua indignazione per l’eccidio e chiedeva energicamente la «legalità democratica».
Altrettanto grave, per l’entità della strage e per il significato anti-operaio, fu l’eccidio di Abbadia San Salvatore, avvenuto poco più di un anno dopo. L’attentato a Togliatti aveva scatenato, il 14 luglio 1948, una violentissima ondata di proteste popolari. Si vedeva in pericolo, e non a torto, la stessa democrazia in Italia, mal difesa da un governo che non aveva neppure saputo proteggere uno dei capi della opposizione. La reazione poliziesca contro le popolazioni che protestavano fu violenta. Ad Abbadia San Salvatore, dove l’intero paese di minatori era sceso in sciopero, irruppero reparti corazzati. Gli scontri divamparono tragicamente. Una ventina di morti e più di seicento feriti sono una cifra che ancora oggi fa inorridire. A tanto aveva condotto la «po-litica di forza» di Mario Scelba.
Il 1949 fu un anno cruciale per le lotte contadine in Italia. Tanto la Valle Padana quanto le misere plaghe del Mezzogiorno furono scosse da scioperi, da occupazioni di terre. Centinaia di migliaia di braccianti in lotta diedero vita a quello che è stato, forse, il più grande movimento rivendicativo di massa delle campagne italiane nel dopoguerra. Ma il 1949 ebbe un’altra caratteristica, ben più drammatica, ben più triste: fu l’anno degli eccidi contadini. Invece di appoggiare le intere popolazioni che si battevano per la civiltà, per un più umano livello di vita nelle zone contadine, il governo fece di nuovo parlare i mitra. E gli agrari, forti di quest’appoggio, resistettero pervicacemente alle richieste bracciantili, quando anch’essi non fecero addirittura ricorso alle armi. Vittima dei colpi di un agrario, durante lo sciopero della Valle Padana, cadde a Mediglia, nel milanese, il giovane Pasqualino Lombardi. Era il 20 maggio. Tre giorni prima, in un episodio che fece fremere d’orrore e di sdegno tutta l’Italia, era stata assassinata la mondina Maria Margotti. Maria, martire contadina, è viva ancora oggi non solo nel ricordo di tutti coloro che credono nel popolo e nella democrazia; è viva nei canti che ad essa hanno dedicato le mondine, e che ancora echeggiano ogni anno, negli assolati mesi d’estate, lungo gli argini delle risaie. Vedova, con due figlie in tenera età, Maria Margotti faceva parte, con le sue compagne di Filo d’Argenta, nel ferrarese, di uno degli innumerevoli picchetti di scioperanti che percorrevano le strade della Valle Padana. Mentre le donne stavano manifestando in una tenuta, dagli argini delle risaie, dove agenti di polizia e carabinieri si erano appostati, partì un colpo di fucile. Maria cadde morta. I suoi funerali furono accompagnati da manifestazioni e da scioperi di protesta in tutta Italia. Dove la mondina era caduta fu eretto un cippo che ancora ricorda ai passanti questa vittima operaia, simbolo della lotta di emancipazione delle donne italiane.
Tre giorni dopo, come abbiamo detto, cadde il giovane Lombardi. Lo sciopero continuava compatto in tutta la Valle Padana, e altre vittime caddero: Aristide Mazzoni, il 4 giugno; Girelli, il 12 giugno, e infine, poche ore dopo, un altro dei giovani martiri contadini: Loredano Bizzarri, di San Giovanni Persiceto, in provincia di Bologna.
Chiusasi, vittoriosamente, in Valle Padana, la lotta dei contadini proseguì nel Mezzogiorno, all’epoca delle semine annuali. Melissa, Torremaggiore e Montescaglioso, sperduti villaggi della Calabria e delle Puglie, balzarono alla ribalta delle cronache nazionali. E vi balzarono in modo tragico, elencando altre vittime. Chi non ricorda le fotografie di quei contadini intabarrati, con le bandiere levate, sulle terre dei feudi, quelle donne in nero, piangenti sui cadaveri dei loro mariti e dei loro figli assassinati?
A Melissa, nel crotonese, i contadini di contrada Fragalà erano scesi in gruppo sul feudo del famoso barone Berlingeri, chiedendo lavoro e terra. Le mani che si tesero verso le forze di polizia che giungevano per espellerli da quelle terre fertili non furono mani di minaccia.
Ci fu chi gridò, tentando una fraternizzazione, «Viva la polizia del popolo». Ma la polizia era con i padroni, e sparò. Due braccianti, Giovanni Zito e Francesco Nigro, caddero subito, ai primi colpi. Una donna di 24 anni, Angelina Mauro, morì qualche giorno dopo per le ferite riportate. Una nuova ondata di indignazione corse per le campagne e per le fabbriche. Dodici ore di sciopero bloccarono l’Italia, si fermarono treni e persino transatlantici, nel porto di Genova. Si chiedevano, dovunque, in assemblee e comizi, le dimissioni di Scelba, il creatore della Celere. Ma Scelba, alla Camera, parlò per tre ore difendendo la polizia che aveva sparato, e accusando i contadini che erano morti e feriti.
Si era alla fine di ottobre. Non era passato un mese e i mitra degli agenti sparavano ancora, questa volta a Torremaggiore, in Puglia. Davanti alla Camera del Lavoro di questo paese contadino si teneva un comizio di protesta contro le violenze verificatesi qualche giorno prima a San Severo, durante una occupazione di terre. Carabinieri e Celere intervennero per sciogliere questa manifestazione pacifica: un colpo di pistola uccise Antonio La Vacca, bracciante, padre di quattro figli; una raffica di mitra fulminò un altro bracciante, Giuseppe La Modica. Tali furono le violenze commesse contro i lavoratori che una donna, la sarta Giuseppina Faenza, morì di spavento.
Il 14 dicembre fu la volta di Montescaglioso. Il paese fu invaso all’alba dalle forze di polizia che cercavano i «sovversivi», quelli che avevano capeggiato le occupazioni di terre. Fu un vero e proprio rastrellamento di tipo militare: tre persone vennero ferite gravemente. Una di esse, il bracciante Giuseppe Novello, morì per i colpi ricevuti.
Questa drammatica successione di eventi, queste violenze contro contadini e braccianti che non chiedevano altro che si coltivassero le terre lasciate in abbandono dai ricchi proprietari, misero in drammatica luce i termini della «questione meridionale». Il sangue delle vittime non fu dimenticato; cresceva la coscienza, cresceva la capacità di lotta di masse sfruttate da secoli.
Stupisce, a rileggere i giornali di allora, il tragico e incalzante succedersi dei fatti. Siamo al 9 gennaio del 1950, neppure un mese dopo i morti di Montescaglioso. Ed ecco che neri, luttuosi titoli, recano a tutto il paese il nome di una città emiliana, un nome reso celebre dalla guerra partigiana e dalle lotte operaie: Modena. Per il modo come è avvenuto, per le sue ripercussioni, per la sua efferatezza, l’eccidio di Modena ha lasciato una traccia profonda nella storia di questo dopoguerra. Era l’epoca dei «ridimensionamenti», le fabbriche licenziavano o chiudevano addirittura i battenti, e gli operai -per i quali la disoccupazione significava fame certa- si ribellavano a quei provvedimenti. Modena, città dalle tradizioni «rosse», si sentiva particolarmente colpita da questo stillicidio di licenziamenti, e gli operai vi si opponevano energicamente. Il 9 gennaio i dipendenti delle Fonderie Riunite, di proprietà del noto industriale Orsi, si fermarono davanti ai cancelli della fabbrica: a una nuova ondata di licenziamenti nelle fabbriche cittadine, si era unita l’illegale «serrata» di molti padroni.
La polizia locale, alla quale si erano aggiunti ingenti rinforzi provenienti dalle altre città emiliane, presidiava le fabbriche, con uno spiegamento del tutto ingiustificato, che sollevò la giusta indignazione dei lavoratori. Scoppiò qualche piccolo incidente, e poi fu la strage. Circa 500 operai, caricati dalla polizia davanti alle Fonderie Riunite, furono mitragliati da altri reparti appostati al di là dei cancelli della fabbrica. Il fuoco incrociato delle mitragliatrici fece, subito, quattro vittime. Altri due operai furono uccisi nelle due ore seguenti, «quando la città era stata trasformata in una specie di zona di guerra, percorsa da pattuglie armate fino ai denti e decise a sconfiggere con la violenza e la strage la fiera popolazione scesa in sciopero generale».
Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Arturo Malagoli, Ennio Garagnani, Renzo Bersani, Arturo Chiappelli: ecco i nomi dei martiri, che l’Italia non dimentica. Le proteste di massa, gli scioperi, gigantesche manifestazioni -culminate nei solenni funerali delle vittime- scossero l’opinione pubblica e additarono al disprezzo di tutti un governo che era ricorso ancora una volta al massacro.
Dal 1948 al 1950, l’epoca cioè del «pugno di ferro» di Scelba, il bilancio delle repressioni antioperaie risultò atroce; 62 morti, 3.126 feriti, 92.169 arrestati e 19.306 condannati per complessivi 8.441 anni di carcere. Tutti lavoratori, i colpiti, tutti figli del popolo italiano. Ma l’ondata di violenze, tanto criminale quanto inutile, non piegò le forze del lavoro. L’offensiva di Scelba, che aveva portato lacrime e lutti in tante famiglie italiane, poteva dirsi sconfitta.
Un anno e mezzo dopo, nel giugno 1950, la luce sinistra delle uccisioni si proietta su Celano, negli Abruzzi. Qui, a uccidere, non sono stati i carabinieri, le forze dell’ordine. I colpi che infieriscono contro una folla raccolta davanti al Municipio (dove si sta discutendo delle giornate lavorative decise in seguito a un decreto prefettizio), una folla bisognosa di lavoro, di qualche migliaio di lire di paga, sono colpi che partono dai fucili di un gruppo di scherani del latifondo. Agostino Paris, socialista, e Antonio D’Alessandro, comunista, cadono insieme. I feriti sono dodici, tra cui due donne. Quindici giorni prima, a Bancole di Mantova, era stato direttamente l’agrario a uccidere, con una revolverata, il bracciante partigiano Vittorio Veronesi che, insieme a due compagni, cercava di convincere un gruppo di crumiri ad aderire allo sciopero bracciantile. Con il Veronesi cadeva ferito un altro lavoratore, Nerino Balduini.
Non passano mai più di sei mesi, tra un eccidio e l’altro, in questo agitato periodo. Il 17 e il 18 gennaio del 1951, altri paesi, altri nomi alla ribalta. Adrano, Comacchio, Piana degli Albanesi protestano, come tutte le altre località italiane, contro la venuta del generale Eisenhower. L’Italia non deve diventare una base bellica americana, dicono energicamente i lavoratori, in migliaia di manifestazioni. Ancora intervengono Celere e Carabinieri, ancora sangue macchia i selciati. Ad Adrano, in provincia di Catania, la polizia carica la folla che manifesta per la pace: 11 i feriti e uno, Girolamo Rosano, muore poche ore dopo. Il giorno dopo è la volta di Comacchio, nel Delta Padano. Anche qui un corteo pacifico viene aggredito dai Carabinieri: tra i percossi sono anche numerose donne, un bambino. L’indignazione popolare è al culmine quando dai moschetti e dai mitra della forza pubblica si scatena il fuoco. Tre uomini rimangono sul terreno. Uno, Antonio Fantinoli, di 50 anni, non si rialzerà più. Gli altri due sono gravemente feriti.
Ed eccoci di nuovo in Sicilia. A Piana degli Albanesi sono in 5.000 a manifestare contro Ike, contro la guerra. Tra la folla cadono le bombe lacrimogene della polizia. Qualcuno le raccoglie, le spegne, o le ributta indietro. Un colpo di moschetto, e il bracciante Damiano Lo Greco, di 40 anni, padre di 4 figli, viene ferito a morte. Fortunatamente la sparatoria pazza dei poliziotti non fa altre vittime.
Ogni anno i contadini, i braccianti, si muovono. Vogliono lavoro, migliori paghe, migliori condizioni di vita. Non si dà mai il caso che la polizia intervenga in appoggio a sacrosante rivendicazioni. Sempre dalla parte degli agrari. Uomini e donne vengono bastonati, feriti, arrestati. La tragica catena di eccidi -che pareva per un certo periodo interrotta- riprende nel 1956. Nel mese di febbraio si spara a Venosa, ad Andria, in altre località poverissime del Sud. Cadono Rocco Girasole, Paolo Vitale, Domenico Ruotolo. Ma la strage più grave ha luogo a Barletta. Braccianti e madri di famiglia che, incolonnati per le vie del paese, chiedevano lavoro, vengono aggrediti dalla polizia. È il 14 maggio, un giorno nero per i braccianti meridionali. Tre sono i morti della sparatoria che segue l’aggressione -Giuseppe Spadano, Giuseppe Di Corato, Giuseppe Lo Iodice- e sei i feriti gravi.
Il resto è storia di questi giorni. Il resto ha un nome, Reggio Emilia, una giornata che sembra ricalcata su quella di Modena di dieci anni prima. Il governo Tambroni, sostenuto dai voti fascisti, barcolla sotto la spinta della lotta popolare, divampata da Genova. Ma prima di cadere nell’ignominia ha un ultimo, mortale sussulto.
I cinque morti di Reggio, i tre della Sicilia, erano cittadini come noi: manifestare era un loro diritto. Il giuramento che un tempo fu di Modena, e che adesso porta il nome di un’altra fiera città emiliana, è lo stesso. Stragi e morti non devono ripetersi nel nostro paese. La condanna a morte -la condanna di cittadini innocenti, colpevoli solo di esprimere le proprie opinioni, i propri pensieri- deve essere abolita veramente. La lunga strada di sangue, durata quindici anni, è tempo sia chiusa, bloccata per sempre.
Franco De Poli