Bujumbura, 7 novembre 2016
Il Burundi è un piccolo stato a sud del Congo. È grande circa quattro volte il Sud Tirolo, con dieci milioni di abitanti. Non ci sono altre risorse che quella delle braccia umane per coltivare la terra, però non vi è abbastanza terra per tutti in una situazione in cui è praticabile solo un’agricoltura di tipo estensivo.

È un paese davvero bello, fatto di mille colline e mille montagne (alte fino a 2.700 metri), che si affacciano sul Lago Tanganyika, così grande che sembra un mare. Però è anche una terra maledetta, dilaniata da un insanabile odio tra i Tutsi e gli Hutu. Dal 1959, improvvise, scoppiano delle rivolte che si traducono in centinaia di morti (a colpi di machete), incendi, fuga dai villaggi e condanna all’esilio nei paesi vicini.
Qui non si è arrivati al genocidio come in Ruanda nel 1994, ma i pogrom degli uni contro gli altri si susseguono ininterrottamente. Adesso l’odio cova sotto la cenere, perché è controllato da un governo tanto spietato quanto corrotto. Hutu e Tutsi vanno relativamente d’accordo, accomunati da una crisi economica, politica e umana che li colpisce indistintamente e imparzialmente. Hanno tutti fame, donne e uomini, giovani e bambini e poche speranze di riuscire a riempire la pancia nel breve periodo.

Secondo l’Indice Globale della Fame 2015, il Burundi è il paese in assoluto più sfavorito e chi ne fa le spese sono soprattutto i bambini tra i 6 e i 59 mesi di vita. Questo è un periodo decisivo per il loro sviluppo psicofisico e se in questa fase dell’accrescimento viene a mancare un adeguato apporto di alimenti e micronutrimenti saranno dei giovani e degli adulti con gravi insufficienze.

In Burkina Faso avevo lavorato nel programma nazionale di lotta alla malnutrizione acuta severa. In una situazione di grave crisi alimentare, molti bambini erano a rischio di morte nel breve periodo. Una volta superato il periodo di carestia però, la situazione in tre anni si era ristabilita a condizioni accettabili. Oggi, in Burundi il nemico non è tanto la morte per fame, quanto piuttosto una diffusa malnutrizione cronica, anticamera di tutte le altre malattie acute e di uno sviluppo compromesso dall’inizio.

La strategia, che l’Unicef propone qui e che le Ong come la mia (Gvc) praticano nella realtà del territorio e dei villaggi, è quella di diffondere la coscienza che è possibile garantire ai bambini una dieta equilibrata basata sui prodotti locali. Il progetto si estende su quattro province, con una popolazione di 900.000 abitanti. I bambini che ci interessano sono circa 140.000. Si tratta di convincere le madri a preparare per i loro figli dei pasti un po’ diversi dal solito ma usando solo alimenti locali, accessibili a tutti. È una piccola rivoluzione culturale, che, ovviamente, non è certo facile da attuare. Non ci sono però alternative. La chiave di volta di questa strategia sono le cosiddette "Mamams Lumière” e gli agenti di salute di villaggio; un esercito di 2.000 volontari da formare, che nelle loro comunità hanno già un’autorevolezza (indipendentemente dal progetto), che li rende gli ambasciatori ideali di questo messaggio.

Poche parole per cercare di spiegare un progetto molto complesso, fatto d’incontri informali sotto il grande mango al centro del villaggio, di sensibilizzazioni, di dimostrazioni culinarie, di corsi di formazione strutturati e di cicli di recupero nutrizionale dei bambini, ma anche di tanta organizzazione, di logistica e di burocrazia.

Io sono solo una specie di supporto tecnico per uno staff in loco fatto anche di cooperanti ma soprattutto di personale locale ben addestrato e motivato. La mia forza, in fin dei conti, sono solo i capelli bianchi e l’eco dell’esperienza acquisita in Burkina Faso. Ma qui in Africa un doyen ultrasessantenne (sorta di vecchio saggio), se ha qualcosa da dire, è ancora ascoltato. E poi si va assieme a bere una birra.

10 novembre 2016. Hutu & Tutsi
Ieri sono rientrato da una settimana passata all’interno e negli uffici della base a Bujumbura ho trovato una situazione di particolare tensione. Mattia, il capo missione Gvc in loco, mi ha spiegato che da un paio di giorni sta girando per gli uffici della funzione pubblica un modulo, che tutti, impiegati, insegnanti, operatori sanitari, ecc., devono compilare e sottoscrivere. È richiesta una dichiarazione etnica. Bisogna, per la prima volta, auto-certificarsi per iscritto Hutu o Tutsi.
Qui in realtà chiunque sa benissimo chi appartiene all’una o all’altra etnia, basta guardarsi negli occhi. Doverlo però scrivere e firmare è un’altra storia. Tutti hanno paura, soprattutto i Tutsi. Quale sarà lo scopo di questa iniziativa del governo, politicamente e militarmente in mano agli Hutu? Pulizia etnica nell’amministrazione pubblica? Preparare le liste per il prossimo pogrom, da consegnare alle squadracce semiclandestine? Nessuno lo sa, tutti hanno paura, anche gli Hutu nei quartieri a maggioranza Tutsi, perché poi, nelle notti di tragedia, chiunque si difende, attacca, ammazza, fugge in preda al panico e le povere case vengono sventrate e depredate indipendentemente dall’etnia.
Fuori sul territorio, nelle serate a chiacchierare con i ragazzi del posto, mi sembra di aver colto una situazione più rilassata, ma qui in capitale il clima sociale è davvero pesante. L’incertezza e la paura si respirano anche qui, negli uffici del Gvc, ma nessuno ha voglia di parlarne. Noi muzungu (i bianchi) non possiamo capire, anche Mattia, che è qui da anni, saprebbe dire chi, tra il suo personale, è Tutsi e chi Hutu (magari adesso prepariamo un modulo anche noi). È un altro tabù che bisogna accettare, è affar loro, un brutto affare, che difficilmente troverà soluzione con parole di saggezza e tavoli ispirati alla convivenza pacifica. La sensazione, pessima, è che, piuttosto, da un momento all’altro, si possa passare al machete.
Franco De Giorgi*
*Franco De Giorgi, medico, è collaboratore del Gvc (Gruppo di Volontariato Civile) di Bologna